28.

1982

Una fredda mattina di febbraio, dopo essere rimasta sveglia quasi tutta la notte, tirai fuori il quaderno e scorsi la lista dei sospettati. Ancora una volta, il mio sguardo tornò al nome in cima alla lista. Edward Lily. E se avessi interrogato lui?

Mi vestii velocemente, afferrai un paio di biscotti come colazione e uscii di corsa, tagliando per prati e boschi per raggiungere il Lemon Tree Cottage. Quando arrivai, le finestre erano aperte e dall’interno giungeva il rombo di un aspirapolvere. Avrei osato bussare? Camminando su e giù per la stradina, sgranocchiavo i biscotti allo zenzero e riflettevo sul da farsi.

Il tetto del cottage a fianco sembrava messo peggio del solito. Dove la paglia era stata strappata si aprivano incisioni profonde, che davano alla casa un che di inquietante, come se fosse stata sotto attacco. La donna che viveva lì era accanto al filo per il bucato; con una molletta in bocca, si allungava per appendere un lenzuolo mentre il suo bambino seduto a terra dava pugni alla tela.

Non pensai a cosa avrei detto finché non aprii il cancello incamminandomi sul loro vialetto. La donna si voltò udendo lo scatto della serratura e, togliendosi la molletta dalla bocca, mi squadrò con sospetto. «Non sei qui per vendere qualcosa, vero?» chiese. Scossi la testa. Naturalmente no. «O vuoi qualcosa per la chiesa?» Era un’ipotesi più verosimile, ma ripetei il gesto di diniego aggiungendo uno squillante «No», per essere certa che capisse.

Lei annuì con fare serio. «Allora come posso aiutarti?»

Con la voce più adulta che riuscii a impostare, le parole mi uscirono senza che le avessi pensate. «Volevo far visita al suo vicino, ma c’è tutto quel rumore... Aspirapolvere e cose del genere...» Sembravo la nonna Grace. «Non hanno sentito il campanello.»

«Il campanello?»

“Oddio. Fa’ che abbiano un campanello.” Non ci avevo pensato.

«Forse non funziona. Hai provato a bussare?»

Feci un cenno deciso col capo per confermare. «Sì.»

«Be’», disse la donna, riprendendo a stendere usando la molletta e pescandone un altro paio dalla tasca del grembiule. «In questo caso faresti meglio ad aspettare che cessi il rumore.» Come per dimostrare il contrario, il bambino iniziò a urlare.

Restai dov’ero, cercando di farmi venire in mente qualcosa da chiedere. Non riuscendoci, e vedendo apparire il marito della donna in tuta da lavoro che brandiva un’ascia, decisi di andarmene. Borbottando dei ringraziamenti, tornai verso il cancello mentre l’uomo attraversava il prato in direzione di un capanno di legno.

La donna mi guardò in silenzio finché non fui sulla stradina. «Vanno via», mi urlò a quel punto.

Crac. L’uomo spezzò in due un tronco.

«Oh...» Cercai di assumere un tono noncurante. «Dove?»

«Spagna, immagino. O almeno è quello che ha detto. Anche se...» Il bambino si aggrovigliò nel bucato. La madre si chinò per sollevarlo e prenderlo in braccio. L’uomo smise di tagliare la legna. Attesi qualche istante prima di incalzarla ancora.

«Anche se?...»

«Forse la ragazza non andrà con lui.»

Il mio cuore accelerò. «Quale ragazza?»

«La figlia. Secondo Geoff» – indicò il marito – «resterà qui. Be’, con qui intendo in Inghilterra.»

Geoff fece una smorfia di approvazione. Lo guardai con curiosità. Come faceva a saperlo?

«L’ha sentito dire al villaggio», spiegò la donna. «Sai... i pettegolezzi... Dev’essere vero.» Sorrise in un modo che mi fece pensare che non stesse parlando seriamente.

Chiesi quando sarebbero potuti partire. «Martedì», disse lei abbassandosi per prendere il cesto della biancheria vuoto. «All’ora di pranzo.»

Prima di tornare a casa diedi un’ultima occhiata al Lemon Tree Cottage. Ora c’era silenzio. Le finestre erano chiuse. Nessuna traccia della persona che aveva usato l’aspirapolvere. Nessuna traccia di persone in assoluto. Ebbi un tuffo al cuore. Se fosse stato lo stesso Edward Lily a mettere in giro le voci di una sua partenza per la Spagna mentre la figlia sarebbe rimasta in Inghilterra? Se avesse finto che il cottage sarebbe rimasto vuoto, in modo che non ci venisse nessuno? Mia sorella poteva essere prigioniera proprio lì, in cantina o in una stanza in soffitta. Cose del genere si sentivano ogni tanto al notiziario. Gente rinchiusa per anni e mai ritrovata, finché un giorno non riusciva a scappare, oppure un vicino o un amico si insospettiva e faceva irruzione.

Organizzai un piano. Era domenica. Martedì pomeriggio, dopo la probabile partenza di Edward Lily, avrei marinato la scuola e sarei tornata lì. Non se ne sarebbe accorto nessuno. E se anche fosse successo, non mi avrebbero punito, come al solito. Piccole concessioni per la sorellina della ragazza scomparsa.

Quando arrivò il martedì, feci tutto come al solito. Feci colazione, preparai lo zaino di scuola e mi infilai il parka di Gabriella che ormai era diventato mio. Trascorsi la mattina a scuola – felice, per una volta, per il fatto che nessuno notava quanto fossi silenziosa in classe – pensando a cosa avrei fatto una volta arrivata al Lemon Tree Cottage. A cosa avrei potuto trovare.

A pranzo, mangiai velocemente la pasta al formaggio. Passando davanti a Martha mentre uscivo dalla mensa, evitai di guardarla negli occhi. Da quando le avevo urlato contro, non ci eravamo più parlate. Stavo mantenendo la mia parola: non volevo parlarle mai più.

Diretta verso i cancelli, camminavo come se fosse normale andarsene da scuola a quell’ora. Ma appena l’istituto fu fuori dalla mia vista, mi sentii pervasa dall’eccitazione per la grande aspettativa. Ero sicura che al cottage avrei trovato qualcosa, perlomeno un segno che mi avrebbe aiutato a capire. O magari ci sarebbe stata lei, Gabriella. Me la immaginai dietro la finestra che mi guardava, come aveva fatto Lydia. Volai su per la collina, quasi avessi le ali ai piedi come Mercurio. Ma non ero un messaggero. Ero Ulisse, e andavo in cerca di mia sorella.

Via via che mi avvicinavo alla meta, e quando ebbi raggiunto la cima della collina, cominciò a mancarmi il coraggio. E se non ci fosse stato niente da trovare? Se la mia caccia fosse stata vana? Non avevo idee alternative. Nessun’altra traccia da seguire. Quando arrivai al cottage, il cuore mi batteva all’impazzata per la paura. Mi fermai davanti al cancello. Il sole sparì dietro una nuvola e l’ombra inghiottì la casa. Il tempo scorreva, il sole uscì di nuovo e un merlo ruppe il silenzio. Raccogliendo il coraggio, mi addentrai nella penombra, dirigendomi verso il retro dell’edificio. Il canto dell’uccello si interruppe bruscamente e venni assalita dall’improvvisa sensazione di trovarmi in un mondo diverso, dove le creature viventi non erano le benvenute.

Il giardino posteriore era largo, inizialmente, e andava restringendosi a poco a poco finché si arrivava a un gruppetto di alberi da frutto. Costeggiai la casa, avvicinandomi sempre di più al muro di mattoni, ai tubi delle grondaie e alle finestre, come un animale che bracca la sua preda. Arrivai presto a toccare la parete, lasciando correre le dita sulle superfici ruvide, cercando di percepire ciò che contenevano.

Tutte le finestre erano chiuse, tranne una. Sul retro della casa c’era un portico dal tetto piatto, sostenuto da due pilastri massicci di legno, e sopra c’era una finestrella rettangolare. Mi venne in mente che se fossi riuscita ad arrampicarmi in cima al portico avrei potuto vedere dentro il primo piano. Mi guardai attorno in cerca di qualcosa su cui salire. C’era un serbatoio per la raccolta dell’acqua abbandonato su un fianco in un’aiuola vicino alla recinzione. Era fatto di plastica, verde e spessa. Ero certa che, raddrizzandolo, sarei potuta salirci sopra e avrebbe retto il mio peso. Feci rotolare il barile sul portico e lo sistemai vicino a uno dei pilastri.

La luce stava venendo meno e l’aria gelida mi fece venire la pelle d’oca. Ma non ero pronta ad andare a casa, anche se avrei dovuto percorrere la strada del ritorno nella semioscurità, giù per il viottolo, fiancheggiando i campi. Mentre salivo sul barile mi dissi che ne sarebbe valsa la pena. Mi rimisi in equilibrio aggrappandomi al pilastro, poi feci leva sulla superficie ruvida finché non riuscii a tirarmi su, appoggiando un gomito. Mi diedi una spinta, scalciando con i piedi quando si staccarono dal barile, e mi ritrovai sul tetto, accovacciata come Jasper che si prepara a spiccare un salto – anche se non mi sentivo così agile.

Respirando lentamente, mi avvicinai pian piano alla finestra. Il tetto era abbastanza resistente? Me lo immaginai che cedeva sotto di me, una gamba che si infilava dentro e io che restavo aggrappata al davanzale, bloccata lì, senza che nessuno sapesse dove fossi. Avanzai con cautela.

Appoggiai il viso al vetro, schermandomi gli occhi con le mani. Stavo osservando un pianerottolo piccolo, illuminato da una luce tenue: il punto mediano di una scala a forma di L. Un’altra piccola rampa saliva verso il pianerottolo principale, dove vidi una libreria appoggiata alla parete, piena zeppa e disordinata. All’improvviso, mentre guardavo i libri, percepii un movimento – qualcosa di luminoso e svolazzante, il frammento di un vestito, qualcuno che mi osservava a sua volta.

Sorpresa, arretrai, ricordandomi solo all’ultimo momento di essere su un tetto. Mi fermai e provai a scendere; rimasi appesa, cercando il barile con i piedi, e mi resi conto che si stava rovesciando. Mi lasciai andare col cuore che martellava e atterrai – perfettamente, straordinariamente, le gambe piegate, le braccia allungate in avanti a controbilanciarmi, come una ginnasta. Per un istante pensai di arrampicarmi di nuovo. Era Gabriella quella che avevo visto? Ero andata lì per quello, no? Per vedere se era lì. Ma a quel punto sentii un rumore. Una finestra che si apriva? Passi sulle scale?

Scappai giù per il sentiero su cui incombeva ormai il buio e poi lungo la strada principale. Continuai ad avanzare, i passi che risuonavano pesantemente sull’asfalto, schivando una macchina che arrivava dalla direzione opposta e mi suonò il clacson. Un’atleta. Una maratoneta. Era come se mi fossi impossessata del corpo di Gabriella. O lei del mio. Corsi a casa senza fermarmi e mi fiondai dentro dalla porta principale.

La mamma stava uscendo dalla cucina e io mi fermai nell’ingresso, piegata in due, boccheggiando per riprendere fiato, senza più alcuna traccia di eroismo. Quando la guardai, mi resi conto di quanto fossi stata egoista: andare in giro senza dirlo a lei. La mamma odiava quel comportamento.

Aspettai che mi rimproverasse per i graffi alle braccia e i vestiti strappati e che, come minimo, mi spedisse nella mia stanza; ma la mamma guardava verso di me come se mi vedesse a malapena. Si era accorta che ero stata via? Mi faceva male la caviglia – nonostante l’atterraggio mi fosse sembrato perfetto – e il dolore strisciava, verso l’alto, irradiandosi per tutto il corpo. Tuttavia c’era un dolore ancora peggiore dipinto sul volto di mia madre. Sembrava invecchiata di dieci anni dall’ultima volta che l’avevo guardata bene, e i capelli, notai, erano più grigi che biondi. Soffocai un singhiozzo che cercava di affiorare, lasciai cadere le spalle e chinai il capo. Mi toccò la spalla. «La tua cena è sul tavolo», disse sommessamente. Annuii mesta, prima di andare in bagno a lavarmi le mani graffiate e infangate.

L’acqua mi diede sollievo. Chiusi gli occhi e ripensai a quello che avevo visto. Il turbinio di una gonna o di un vestito, forse di una sciarpa. Arancione acceso. Era una persona, ma non l’avevo vista in faccia. Mi ero spaventata troppo ed ero scappata troppo in fretta. E se fosse stata Gabriella, che mi faceva un cenno perché restassi? E se l’avessi abbandonata?

Quella sera affrontai la solita routine, borbottando risposte ai miei genitori. Nel frattempo mi ripetevo che c’era solo un modo per scoprire la verità. Dovevo tornare al cottage.

Il giorno successivo uscii di casa per andare a scuola come sempre. Poi scivolai di nuovo in giardino e nascosi lo zaino nei cespugli. Di nuovo in strada, tirai su il cappuccio del parka, sentendo la pelliccia arruffata sulla faccia e la pugnalata di quello che mancava: il profumo di Gabriella. Stava scomparendo, rimpiazzato dal mio.

Quella era la mia ultima possibilità. L’ultima teoria. Non c’era nessun altro con cui parlare e nessun altro luogo dove guardare. Non avevo un piano; ciononostante, quando arrivai al cottage, bussai. Nessuna risposta. Alzai lo zerbino, guardai dietro le bottiglie di latte vuote. La gente lasciava le chiavi nei posti più ovvi. Ma non Edward Lily. Non c’era niente nemmeno vicino alla porta posteriore, anche se le persiane di una delle finestre al pianterreno erano state aperte. Premetti la faccia sul vetro e mi ritrovai a guardare in una cucina piccola e ingombra. Dovevo entrare. Dove potevano tenere la chiave? Sopra la porta. Mi sollevai sulle punte, mi allungai e tastai il ripiano con le dita. Sentii il freddo del metallo e tirai giù la chiave, trionfante.

Un attimo di esitazione. E se Edward Lily fosse stato ancora lì? Se mi avesse sorpresa? Avrebbe chiamato la polizia o... peggio? Feci un respiro profondo, tenni saldamente la chiave e la infilai nella serratura.

Non appena misi piede in cucina e osservai la stanza, percepii la presenza di una donna – un caldo profumo di fiori. C’erano delle tazze sullo scolapiatti, e anche dei calici da vino. Aprii il frigorifero. C’era una bottiglia di latte, con la protezione argentata in cima bucata; era vuota per metà. La annusai. Era fresco. Vidi delle salsicce su un piatto, delle verdure, una bottiglia di vino già aperta. E il fornello era ancora caldo. La vicina si era sbagliata. Edward Lily non se n’era andato. Era ancora lì con Lydia.

In punta di piedi andai nell’ingresso. Nessun rumore. nemmeno il ticchettio di un orologio. Il tappeto era spesso e attutiva i miei passi. Vicino alla porta, accanto a un attaccapanni a cui era appesa una cerata, c’era un tavolo, sul quale vidi una pila di buste, compresa una grande e marrone, che avrebbe potuto contenere una rivista o una brochure. Guardai il francobollo. Oxford. Se Edward Lily fosse stato lì, avrebbe aperto quelle lettere. Eppure qualcuno doveva averle raccolte dallo zerbino.

Fuori, la serratura del cancello scattò. Restai immobile. Passi sul vialetto. Arretrai, preparandomi a scappare. La casella della posta sbatté quando fu infilato un volantino. I passi si allontanarono e io mi rilassai.

Ora toccava al salotto. Le tende erano chiuse e i miei occhi ci misero qualche istante per abituarsi alla penombra. La stanza odorava di fumo del caminetto e di tabacco. Per un attimo mi fermai, sentendomi riportare al giorno in cui Gabriella era scomparsa. Il posacenere, il visitatore a casa nostra.

Mi guardai intorno. I mobili erano massicci: un divano con lo schienale alto, una sedia foderata di chintz, una chaise longue di velluto. Una rastrelliera portapipe di legno. C’era un tavolino rovinato da una spirale di macchie di tè. Sopra il camino era appeso uno specchio dalla cornice dorata. In giro per la stanza c’erano dei vasi pieni di fiori lasciati lì a morire, una triste yucca, un’elaborata urna di bronzo, icone lignee di santi dipinte di blu e oro e, vicino al camino, una giraffa intagliata.

Sul bracciolo di una poltrona erano abbandonate alcune riviste, e in cima a tutto vidi una brochure aperta. Mostrava la foto di un’enorme vecchia casa. Mi fece venire in mente il Saint Barnabas. Tuttavia quel posto sembrava più un ospedale. In alcune immagini c’erano delle infermiere. E camere private con dei letti.

La scala portava al piccolo pianerottolo che avevo già visto. Mi fermai lì per un istante, guardando fuori dalla finestra. Non si muoveva niente. Il giardino era deserto. Il cielo grigio. Salii la seconda rampa. L’idea che Gabriella fosse trattenuta al cottage contro la sua volontà stava sbiadendo, ma avevo bisogno di certezze.

La prima porta che dava sul pianerottolo era socchiusa. Si trattava di una camera piccola con un letto matrimoniale, sfatto, che occupava quasi tutto lo spazio. Sul comodino c’era una lampada con la base di bronzo e un paralume decorato con una fantasia di foglie, e ai piedi del letto era appoggiata una vestaglia di un arancione acceso. Doveva essere quel flash di colore che avevo visto attraverso la finestra. La sollevai per annusarla. Aveva un profumo fresco e sconosciuto. Fiori. Forse rose.

Ci fu un rumore: il suono di un cancello che sbatte. Sobbalzai. Mi voltai, lasciai cadere la vestaglia, uscii frettolosamente dalla stanza e corsi giù per le scale con le braccia spalancate per mantenere l’equilibrio, urtando contro le pareti. Schizzai fuori dal retro, cercando disperatamente di andarmene da lì, senza badare al fracasso che stavo facendo o al perché ci fossi andata – tanto per cominciare. La porta non si era ancora chiusa quando sentii delle voci e il suono di un mazzo di chiavi.

Una volta raggiunto il viottolo, accelerai il passo, costringendomi a correre senza guardarmi indietro. E, mentre scappavo per la seconda volta dal Lemon Tree Cottage, una fitta di delusione mi strinse il petto. Non era Gabriella, lì nel cottage. Non era il suo profumo. Non era sua la vestaglia sul letto. Non erano sue le mani che toccavano gli oggetti nella casa di Edward Lily, né le labbra che bevevano da quei bicchieri.

Rallentai il passo e zoppicai giù per la collina, con gli occhi pieni di lacrime. Era la fine della mia indagine? Dove altro potevo cercare?

Al villaggio, un gruppo di ragazzi con in mano delle lattine di birra mi veniva incontro sul sentiero. Non c’era spazio per oltrepassarli. Avrei dovuto spostarmi oltre il margine della strada. Ma restai dov’ero. Non mi importava. Quando mi guardarono con quell’aria accigliata, io sollevai il mento e gli lanciai un’occhiataccia da sotto il cappuccio. Potevano dire quello che volevano. La cosa non mi avrebbe sfiorato. Ero in cerca di mia sorella. Avevano perso importanza. Io ero forte e loro erano deboli. Non avevo paura di niente.

Abbassarono lo sguardo e si scostarono dal sentiero, facendomi spazio. E all’improvviso capii il perché: niente di quanto avrebbero potuto dirmi, o che erano pronti a farmi, avrebbe potuto essere peggiore di quello che pensavano fosse già stato fatto a Gabriella.

Per la prima volta dubitai che si fosse nascosta. Forse la gente aveva ragione. Qualcosa di terribile era accaduto a mia sorella, e lei non sarebbe mai più tornata a casa.

iTalia