30.

1982

Nell’esatto istante in cui arrivai a casa dal Lemon Tree Cottage capii che c’era qualcosa che non andava. Rita era nell’ingresso, pallida. «Dove sono mamma e papà?» domandai, cercando di superarla.

Si spostò, imbarazzata, bloccandomi il passaggio. «Mi dispiace», disse seria. «È successo qualcosa.»

«Che cosa?» la fissai.

«Tua madre è dovuta andare al commissariato di polizia.»

Mi si rimescolò la pancia, liberando la gioia. Un sorriso mi si allargò sul viso. Avevano trovato Gabriella. Era tornata a casa, come avevo sempre pensato che avrebbe fatto. Feci un passo in avanti e spalancai le braccia, tutti i pensieri negativi erano scomparsi. Rita mi aveva dato la notizia più fantastica di sempre e volevo abbracciarla.

Ma nonostante mi stessi gettando verso di lei, continuava a scuotere la testa. Mi afferrò le braccia e mi tenne a distanza. «Mi dispiace, Anna. Non sono buone notizie.» Sentii una fredda ventata di paura. «Si tratta di tuo padre. È... sparito.»

«Sparito?» Lei annuì. Il freddo si trasformò in gelo e un brivido mi scosse. «No», protestai. «Non è vero.»

«Anna, devi stare calma.»

Strinsi i denti per evitare che battessero. Rita stava mentendo. La odiavo. Cercai di oltrepassarla, ma lei non si muoveva. La spinsi con entrambe le mani, lei barcollò e le sfuggì un lamento mentre andava a sbattere contro il muro. Non era altro che una schifosa cicciona bugiarda. Corsi su per le scale, facendo due gradini alla volta per allontanarmi da lei.

«Anna, torna qui!» esclamò.

Non le risposi. Mio papà non era scomparso. Non mi avrebbe mai lasciata. Non ora, non dopo che Gabriella se ne era andata. Mai. Piombai in camera mia e mi buttai sul letto. Rita era una puttana. Una merdosa puttana malefica. Una bastarda. Una schifosa cicciona bugiarda. Pensai a tutte le parole più orribili che conoscevo e le legai al suo nome. Voleva soltanto rovinare la nostra famiglia. Mi misi a sedere. Ecco. Aveva portato via papà e l’aveva nascosto da qualche parte. E se avesse preso anche Gabriella? E se poi fosse toccato alla mamma?

Affondai la testa nel cuscino e singhiozzai. Non volevo rimanere sola.

E poi Rita era ancora lì, con le sue braccia che mi avvolgevano. Mi tirò su, mi girò e mi strinse al petto. Mi arresi, lasciai che il mio corpo si afflosciasse. E piansi mentre mi accarezzava i capelli. «Dov’è?» singhiozzai. «Perché mi ha lasciata?»

«Lo troveranno», disse per consolarmi.

Ma io non le credevo. Avevo già imparato. Nessuno tornava, quando spariva.

Il giorno dopo restammo in casa, tutte e tre. La mamma era tornata a tarda sera. Avevo sentito la porta d’ingresso e dei mormorii e, poco dopo, un pianto soffocato che arrivava dalla sua stanza.

Rita prese il comando, cucinando pasti che nessuna di noi mangiò; dicendo cose a cui nessuno dava risposta. Quella sera arrivò di nuovo la truppa: la nonna Grace, il nonno Bertrand, lo zio Thomas e Donald.

Fu lo zio Thomas a dirmi finalmente che cos’era successo. Mi spiegò che una donna, che stava portando a spasso il cane di mattina presto, aveva trovato mio padre in una radura, nel bosco dietro il parco. Aveva chiamato un’ambulanza e la polizia. Avevano detto che era uscito per fare una passeggiata e aveva avuto un infarto. Perché era andato lì? Che stesse cercando Gabriella, un’ultima volta?

Per anni ho sentito un’urgenza irrefrenabile di incontrare questa donna, di chiederle che cos’avesse visto esattamente perché, dato che non lo sapevo, potevo soltanto fare congetture sulla posizione del corpo di papà, sullo sguardo nei suoi occhi: i dettagli che popolavano i miei sogni.

Non cedetti a quel desiderio e, in ogni caso, non sapevo dove abitasse. Andai nel bosco, invece, in cerca di una radura. E, mentre camminavo, ricordai: Gabriella in spalla a papà, loro due che parlavano dei nomi degli alberi e di come la luce del sole filtrasse tra i rami nei diversi momenti della giornata; e io che arrancavo dietro di loro, in ascolto, cercando una pigna, un insetto che strisciava su una foglia. Dov’era la mamma? Non appariva in quelle scene. Doveva essere a casa, a pulire il bagno, a stendere il bucato, a prepararci da mangiare, a fare la marmellata; o forse era a fare una gita, vestita bene, a Covent Garden, a far girare qualche testa.

Dopo un po’ trovai una piccola radura e mi fermai lì, per la semplice ragione che c’era un tronco caduto su cui potevo sedermi. Tirai sassi e zolle di terra agli alberi che mi circondavano finché le braccia non cominciarono a farmi male. Avevo la faccia impiastricciata di fango e lacrime e la gola che mi faceva male per quanto avevo gridato il nome di papà. E poi quello di Gabriella. Perché si trattava sempre di Gabriella.

Per quanto riguarda la mamma, quando papà morì si dimenticò di vivere. Fissava il muro senza dire niente, usciva a passeggio sotto la pioggia, apriva e chiudeva gli armadi senza prendere niente e non preparava da mangiare né per sé né per me. Ci affidavamo alla gentilezza dei vicini che cucinavano zuppe e stufati che marcivano con eleganza nel nostro frigorifero.

Rita organizzò il funerale. La giornata trascorse in un turbinio di vestiti buoni e facce contrite. La mamma sembrava non esserci. Il viso terreo, il corpo spettrale. Lo zio Thomas si occupò di me. Mi tenne per mano in chiesa e mi schiacciò tra lui e Donald in una delle panche.

La casa si riempì di conoscenti venuti a sostenerci; ronzavano tutti attorno a mia madre, che se ne stava lì seduta. Lo zio Thomas e Donald si volatilizzarono. Li vidi in giardino, stavano discutendo sotto il susino. Donald aveva ripiegato la sua figura alta e sottile per parlare più da vicino allo zio Thomas.

Li lasciai fare e gironzolai intorno ai nostri ospiti. Qualcuno, di tanto in tanto, si ricordava di me e mi metteva in mano un biscotto o una sfoglia con la salsiccia. Ammucchiavo quelle offerte sulla credenza. (Il giorno dopo trovai una struttura pericolante di avanzi.) Alla fine mi ritirai nella stanza di Gabriella e rimasi lì finché Rita non mi trovò.

Non fu così difficile quando tornai a scuola per la seconda volta. La preside fece un altro tentativo di parlarmi nel suo ufficio. Ci appollaiammo entrambe sul divano di pelle, ma le sue frasi frammentate si erano fatte ancora più brevi e l’incontro durò solo una manciata di minuti.

A casa, i nonni venivano regolarmente, anche se ogni volta che facevano la loro comparsa la mamma li trattava come se non fossero nella stanza; come se non ci fosse nessuno, lei compresa. Ma continuarono a venire, aggrappandosi alle loro visite. La nonna Grace – il viso sempre più grigio, il corpo più fragile, sulla sedia dallo schienale rigido – parlava, ma la sua voce era esitante e non ci furono più racconti d’amore. Il nonno Bertrand si confondeva sempre di più con il rivestimento della poltrona, finché un giorno il suo desiderio non venne esaudito e sparì del tutto.

La Casa di Flores rimase chiusa. Ogni tanto sentivo la mamma e Rita che ne parlavano. Almeno, sentivo Rita che faceva domande. La mamma scuoteva la testa e si stringeva nelle spalle. «Non lo so», continuava a dire.

E poi lo zio Thomas apparve con una sola valigia, come un commesso viaggiatore. Donald l’aveva lasciato. Se n’era andato all’improvviso, aveva accettato una cattedra in un’università americana. Lo zio Thomas mi porse una busta appena mise piede in casa.

Donald aveva scritto una lettera e l’aveva avvolta attorno a un pesce fossile. Il pesce era vecchio di milioni di anni, quasi quanto lui, scherzava. Nella lettera diceva che era dispiaciuto e che erano successe delle cose che nessuno avrebbe potuto prevedere o impedire. Sperava che non l’avrei dimenticato. Lui, di certo, non si sarebbe dimenticato di me. Riposi la lettera e il pesce nella mia scatola da scarpe e richiusi il coperchio. Mi stavo abituando alle persone che se ne andavano.

Lo zio Thomas vendette il suo negozio nel Nordovest di Londra – da quando Donald se n’era andato gli affari non giravano bene – e prese a occuparsi della gestione della Casa di Flores. Disse di avere dei progetti: uno scaffale speciale per i giochi di prestigio, un omaggio a Houdini con fotografie e riproduzioni delle catene e dei lucchetti che usava. Ci fu senza dubbio un gran parlare di questa nuova esposizione al villaggio. La gente credeva ci fosse qualcosa che ricordava Amleto nell’arrivo del fratello di mio padre, «le carni cotte per il funerale hanno fornito, fredde, le tavole nuziali» e tutto il resto. Sapevo che non c’erano possibilità di un matrimonio tra lo zio Thomas e la mamma ma, allo stesso tempo, accolsi la notizia con sentimenti contrastanti. Ero troppo grande per i suoi trucchetti di magia. E poi non mi andavano più le sorprese. Ne avevo avuto abbastanza di cose inaspettate.

Tuttavia mi abituai a vederlo in casa. Riempiva un po’ il vuoto. I suoi gesti erano ampi e la voce tonante – la sua tosse profonda rimpiazzò i sommessi schiarimenti di gola tipici del modo di fare di papà. Agiva sempre con vigore. Aveva l’abitudine di spazzolarsi i denti girando per casa. Camminava con lo spazzolino schiumante, giù per le scale, lungo i corridoi, poi trovava un lavandino o una bacinella, in bagno o in cucina, e ci sputava dentro. Portava calzini bucati e maglioni troppo stretti e profumava di Old Spice. Quell’odore aleggiava per la casa.

Evitavo il negozio, ma mi piaceva sedermi sul pavimento del salotto, con le braccia avvolte attorno alle ginocchia e Jasper accanto a me, ad ascoltare lo zio Thomas. Mi mandava a prendere le patatine, che mangiavamo entrambi direttamente dal sacchetto prima che lui accendesse la pipa – un’abitudine che aveva preso quando Donald se n’era andato. Lo osservavo svuotare la testa della pipa nel posacenere, per poi riempirla di nuovo. Mentre pressava il tabacco parlava del passato. Adoravo le sue storie, le stesse che mi raccontava anche papà: il modo in cui si spostavano da un posto all’altro, come combattevano, insieme, schiena contro schiena, brandendo bastoni, suonandole ai bulli che incontravano, che non volevano nuovi arrivati nel loro orticello, che non gradivano che la loro madre fosse ebrea e il loro cognome fosse Flores. Volevo sentire racconti di resilienza e vittoria, per controbilanciare quelli di perdita e disperazione.

Ma mentre lo zio Thomas sembrava espandersi, riempiendo gli spazi della nostra casa, la mamma si ritirò sempre più in sé stessa. Non mangiava, nonostante l’opera di persuasione di Rita, e diventò esile e silenziosa. Non si interessava nemmeno alla frutta in giardino, che lasciò a marcire per tutto l’autunno seguente, finché gli alberi, vessati dai rami sovraccarichi, non si fecero luttuosi, quando prugne e susine cominciarono a cadere una alla volta.

Circa un anno dopo l’arrivo dello zio Thomas stavamo guardando il telegiornale, quando la fotografia di Gabriella apparve sullo schermo. In Irlanda era scomparsa una ragazza. Non c’era un collegamento evidente, ma i media riportarono alla ribalta i dettagli del caso di Gabriella. La famiglia della ragazza ricevette sue notizie sei settimane dopo. Aveva cominciato una nuova vita in Canada. Nessuno riuscì a spiegarsi come avesse fatto ad arrivare così lontano per conto suo.

Un’altra volta sentimmo che era sparita una ragazza a Londra, che riapparve incolume. Eccola lì, che sorrideva alle telecamere, con le braccia al collo del suo ragazzo trentenne o giù di lì, scusandosi per il subbuglio che aveva causato. E poi si parlò ancora della ragazza con la frangetta. Mostravano sempre il suo viso, anche se tutti sapevano come era andata a finire. E la ragazza di Glasgow. Quella senza una famiglia che sentisse la sua mancanza.

Lo zio Thomas ripiegava il giornale o cambiava canale appena si faceva cenno a quelle storie. «Mangiamoci un po’ di patatine», diceva allegramente mentre mia madre fissava lo schermo dalla porta.

E quando mi dichiaravo d’accordo con lui mi allungava una banconota da dieci sterline dopo averla fatta apparire in maniera anche troppo plateale da dietro il mio orecchio.

Un giorno mi fermai al negozio di alimentari per comprare il ketchup. Era affollato, ma il chiacchiericcio si fermò quando entrai. Fu solo per un istante, poi riprese, con tutte le signore e la signora Henderson che blateravano, un ronzio infinito di pettegolezzi.

«È già sul mercato?» chiese qualcuno.

«Non vuole vendere», disse la signora Henderson. Capii che stavano parlando del Lemon Tree Cottage, e il senso di disgusto che provavo per quella donna affondò le sue radici ancora più in profondità nel mio stomaco.

«Ma se ne sono andati secoli fa», ribatté un’altra voce. «Non vivono in Spagna?»

«Non lei», precisò la signora Henderson.

«Chi?»

«La figlia.» Strinsi le dita intorno al collo della bottiglia di ketchup che avevo preso dallo scaffale. «Ho sentito che l’ha spedita via. In un istituto.» Abbassò la voce. «Dopotutto è matta. E non reggono a lungo in un villaggio, le persone così.»

Cosa intendeva con «persone così»? I forestieri, immaginai. Persone che non si integravano. Pensai al cottage e a quanto era solitario, e a come sarebbe stato vuoto con nessuno dentro. Forse ci sarebbero entrati gli animali del giardino e del bosco: il topo, il cervo e le taccole della casa a fianco. Forse se ci fossi andata avrei trovato un tasso nel caminetto, una famiglia di topi campagnoli nell’imbottitura dei cuscini ed enormi buchi nel tetto fatti dagli uccelli che si erano aperti la strada a colpi di becco.

Pagai il ketchup e uscii dal negozio, voltando le spalle alle pettegole. Non pensavo di ritornare al Lemon Tree Cottage. Quel flash arancione che avevo visto stava perdendo importanza e, anche se dentro di me avevo un ricordo vivido di quel posto ed ero convinta che le sue pareti nascondessero dei segreti, non credevo che quei segreti potessero dirmi dov’era andata mia sorella. E quello era tutto ciò che volevo sapere.

Le strade erano tranquille. Niente più giornalisti che piombavano addosso ai vicini in cerca di retroscena; niente più folle di madri che pedinavano le proprie figlie in giro per il villaggio. Scendevo stancamente lungo Acer Street e, mentre camminavo, mi sembrava di ripercorrere i passi di Gabriella, seguendo il tragitto che aveva fatto quel giorno. Sfiorai con le mani un cespuglio di alloro lungo un muro e la corteccia di un albero, e la punta delle dita mi formicolava mentre mi domandavo se anche Gabriella avesse toccato le medesime cose.

Martha era seduta sui gradini. La mia bellissima sorella non c’era più, la credevano morta. Un cadavere gelido e solitario in un luogo remoto. Ed ecco qua Martha, invece, come se niente fosse. L’antica rabbia riprese a montare. Doveva averlo percepito anche lei, perché sul suo viso serpeggiò la paura. Balzò in piedi, spinse la porta d’ingresso, tempestò di colpi la buca delle lettere, ma nessuno la fece entrare. Era stata chiusa fuori e stava piangendo. La mia rabbia si sgonfiò e il cuore rallentò, e mi domandai come doveva essersi sentita Gabriella quando il suo cuore si era fermato – se si era fermato. Sarei mai riuscita a saperlo?