31.
Arrivarono e perquisirono la casa. Sembrava che, da un momento all’altro, dovessero trovare Gabriella nascosta in un angolo. Perché non cominciarono dal giardino? Era lì che doveva essere. Era quello che aveva detto Martha, quando si era seduta e aveva confessato ciò che sapeva.
Era mattina presto e, mentre cercavano, rimasi in piedi fuori dalla casa, le mani sprofondate nelle tasche per tenerle al caldo, pregando che la trovassero e pregando anche che fallissero. Alla fine trasferirono le ricerche in giardino. Andavano e venivano, persone con attrezzi per scavare e poi con una tenda. Uomini e donne con le tute bianche che portavano delle borse. Io ero disconnessa, non partecipavo a quella scena aliena. Solo i concisi cenni del capo dei poliziotti e i loro sorrisi comprensivi mi ricordavano che ero coinvolta.
Si radunò lentamente una folla, ma sapevano di non doversi avvicinare. Tornai a ricoprire il ruolo della sorella della ragazza scomparsa, e avevo il diritto di mantenere un po’ di distanza. C’era solo Rita, con una mano sulla mia spalla. Era giusto che fosse lì. Era sempre stata con me, in ogni tragedia della mia vita.
Non ci misero molto. Martha ci aveva indicato esattamente dov’era stato sepolto il corpo. Sotto le rose, ovviamente: non c’era da stupirsi che fiorissero così bene.
Lo capii dal silenzio, dalla repentina cessazione dei suoni. Niente più colpi metallici nel fango, niente più grugniti e mormorii. Persino il vento sembrava essersi spazzato via da solo, come se il mondo stesse trattenendo il fiato.
E poi il mondo espirò. Ricominciarono i suoni, e le voci di uomini e donne, più forti, più concitate. Non che potessero fare qualcosa per Gabriella, ormai.
Martha era tornata a casa con due pacchetti di biscotti. Così mi aveva raccontato. Ma la porta era stata chiusa a chiave. Aveva bussato e pestato sul legno con tutti e due i pugni, aveva chiamato dalla buca delle lettere, e poi si era abbandonata sul gradino, in attesa. Eliza Davidson aveva fatto capolino da uno spiraglio della porta della casa accanto per chiederle se qualcosa non andava. Martha non le aveva risposto e Eliza era tornata dentro. Era già successo in precedenza, dopotutto, e la polizia non aveva fatto nulla.
Quando il signor Ellis l’aveva lasciata entrare, Martha aveva trovato sua madre distesa, con gli occhi sbarrati, il corpo rigido, la faccia grigia come una lastra di pietra. Martha l’aveva scossa, cercando di farle dire cos’era successo a Gabriella. Aveva urlato e strillato, implorando che le dicessero la verità, finché il signor Ellis le si era avvicinato con un’espressione selvaggia in viso, il puzzo dell’alcol nel respiro. Era spaventato, Martha l’aveva capito dai suoi occhi. Le sue vittime non erano mai state così vicine a casa.
Il signor Ellis aveva dato un ceffone alla figlia per farla stare zitta e l’aveva trascinata lontano dalla madre, minacciando di ucciderla se non avesse fatto silenzio; finché poi lei era sgusciata via e aveva cercato in tutta la casa, muovendosi silenziosamente di stanza in stanza. In punta di piedi era uscita in giardino ed era rimasta lì anche quando la pioggia aveva cominciato a cadere. Aveva visto la terra smossa e aveva capito cosa significava. A quel punto aveva lanciato un urlo che aveva costretto suo padre a uscire.
Questa volta l’aveva riportata dentro a forza chiudendola nell’armadio a muro, in quella sua specie di tomba. Le aveva buttato addosso la borsa di scuola di Gabriella e le aveva dato del cibo che Martha si era rifiutata di toccare. L’aveva lasciata lì finché lei non aveva spaccato la ciotola contro il muro. E l’aveva picchiata con la cintura. Ma ancora non aveva detto cosa era successo a Gabriella nel tempo in cui Martha era rimasta esiliata in strada.
Tre giorni più tardi l’aveva lasciata uscire. Ormai tutti sapevano della scomparsa di Gabriella, le ricerche erano in corso e la terra smossa era stata pressata e coperta con cespugli di rose. La poggia aveva lavato via le tracce. Nessuno ci aveva fatto caso, quando la polizia aveva interrogato gli Ellis. Nessuno se ne era accorto quando avevano perquisito il loro capanno. Perché avrebbero dovuto sospettare di loro? Il signor Ellis aveva un alibi. Era al pub quando Gabriella era stata vista per l’ultima volta. C’erano un sacco di testimoni. Compreso mio padre.
La signora Ellis aveva raccolto le forze. Aveva raccontato alla polizia di Tom. Erano stati loro. Assassini. Si erano fatti avanti prima di chiunque altro. Erano saliti alla ribalta senza che nessuno glielo chiedesse, dispensando informazioni. Le informazioni sbagliate. Il genere di cose che possono far deviare un’indagine e spedirla così lontano nella direzione errata da farla scomparire alla vista.
«È stata tua madre», aveva detto il signor Ellis a Martha dopo averla fatta uscire dall’armadio e averla fatta sedere. Incombeva su di lei con la cintura in mano, pronto a colpire.
«No!» aveva urlato Martha.
Ma suo padre aveva annuito. «Sì. Quelle ditacce tremolanti attorno al collo. Puttana gelosa. Non ha voluto che ci arrivassi prima io.»
Ma Martha ancora non gli aveva creduto. Finché lui, per provarglielo, non ebbe trascinato lì sua madre. «Diglielo, Dorothy. Di’ la verità a Martha.» E lei l’aveva fatto. Era rimasta lì in piedi, a capo chino, facendosi piccola di fronte a suo marito, e aveva ammesso di aver ucciso Gabriella.
Alla fine il signor Ellis aveva sussurrato nell’orecchio di Martha: «Ma la colpa è tua. Sei tu che hai portato a casa la tua amichetta. E se lo racconti a qualcuno verrò a prenderti. Anche da morto». Tagliò l’aria con le dita. «Zac. Zac. Lo sai cosa succede alle ragazzine che dicono le bugie.»
Più tardi il signor Ellis aveva preso la borsa di Gabriella dall’armadio dove era stata nascosta. Aveva tirato fuori il borsellino e se n’era sbarazzato, seppellendolo nel bosco. Poi aveva costretto Martha a portare la borsa di Gabriella alla stazione e a nasconderla dietro il cestino. Era più difficile che notassero lei. Con quel suo modo di muoversi lentamente per il villaggio, era invisibile. E dato che tutta la famiglia era implicata, Martha non avrebbe mai raccontato la verità.
Quando la polizia trovò Gabriella, sgusciai via. C’era stata una gelata persistente. Le siepi brillavano di ragnatele cristallizzate e i sentieri erano infarinati di polvere bianca, come se durante la notte fosse stato lanciato chissà quale incantesimo raggelante. Mi trascinavo per la strada, risalendo la collina in direzione del parco.
Superai la chiesa, mi fermai vicino al portico all’ingresso del cimitero, lanciando un’occhiata al nuovo monticciolo: mia madre, sepolta accanto a mio padre. C’erano già dei mazzi di fiori freschi, per rimpiazzare quelli vecchi. Sentii sollevarsi un’ondata di dolore e deglutii, in attesa che si scatenasse. Un corvo gracchiò e un altro gli rispose. Si alzò il vento, che scompigliò le foglie autunnali.
Il sentiero si restringeva a mano a mano che si allontanava dal villaggio; in quella zona le case erano grandi e irregolari, circondate su tutti i lati da muri e alte siepi, come se, in loro assenza, potessero espandersi in maniera incontrollata. Decisi di svoltare in Devil’s Lane, con la mente che macinava pensieri mentre ricordavo il motivo per cui si chiamava così. Lì le case facevano un passo indietro, sottraendosi alla vista. File di cespugli intessuti di rovi di more si innalzavano su entrambi i lati. I campi cominciarono a fare capolino, grandi distese di terra rugosa. I corvi saltellavano, beccando il terreno congelato.
Il viottolo terminava bruscamente, come un tempo, con una scaletta dissestata. Salii sul gradino sbilenco cercando di mantenere l’equilibrio, lasciando correre lo sguardo sulla familiare spianata erbosa, costeggiata da cespugli e alberi. In fondo c’era il cedro, gigantesco e dilagante, che delimitava il salto verso il lago.
Una donna in lontananza portava a passeggio il cane. Appoggiai i palmi delle mani sulla pietra sbrecciata, scavalcai e balzai nell’erba, atterrando goffamente in una fossa nel terreno. Calcolai la direzione della signora col cane e mi avviai dalla parte opposta. Non ero dell’umore giusto per ricevere condoglianze o rivangare il passato.
Eppure, pensavo mentre procedevo sciaguattando, con gli stivali che affondavano nell’erba bagnata, come potevo evitarlo? Il passato era un fantasma, essenzialmente scomparso ma sempre presente, in agguato sullo sfondo con i suoi interrogativi e i suoi dubbi. E quando arrivai nel bosco lo percepii attorno a me: nel sospirare degli alberi, nello scorrere del ruscello, nell’aria che mi circondava, nella terra che avevo sotto i piedi. Ed ecco Gabriella, per un’ultima volta. Volteggiava fra gli alberi, con la luce autunnale che filtrava fra i rami e la nebbiolina che galleggiava ai suoi piedi; e la sua risata, che alla fine svaniva, fuggendo via trasportata dalla brezza.
Rita venne a casa. Apri ed entrò, e mi trovò sul pavimento nella stanza di Gabriella. Mi tirò su e mi portò di sotto, dove preparò del tè forte e dolce.
Ero andata a sedermi sotto il susino, in giardino, avvolta in una coperta come un’invalida, quando arrivò David. Mi sorrise con un po’ d’incertezza, lì per lì. «Mi spiace di non esserci stato», disse.
«Come potevi saperlo?»
«Avresti dovuto dirmelo.» Mi prese la mano e io non mi ritrassi. «In futuro, magari, potresti contare un po’ più su di me.»
«Ho degli scatoloni da spostare», dissi godendomi il calore delle sue dita sulle mie.
Il suo sorriso si allargò. «Nessun problema. Sono un uomo con un furgone e posso spostare qualsiasi cosa.»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Lui mi strinse la mano e distolse lo sguardo. Sapevamo entrambi che nessuno poteva spostare il peso che sentivo in quel momento. Ciononostante, gli chiesi di rimanere con me quando la polizia mi avrebbe comunicato i risultati dell’autopsia.
Il medico legale dichiarò che erano passati troppi anni per poter stabilire con precisione le cause del decesso. Il trascorrere del tempo aveva cancellato ogni prova. Le dichiarazioni di Martha vennero esaminate. Pensava che sua madre avesse strangolato Gabriella prima che suo padre potesse toccarla. Un modo per alleggerirlo di un’altra vittima. Dissero che potevamo soltanto immaginare ciò che era successo davvero in quella casa mentre Martha non c’era; i particolari della morte di Gabriella, gli ultimi istanti della sua vita.
Il detective incaricato venne da me e mi comunicò la notizia. (Mi ricordava l’agente Atkins, in un certo senso. Aveva lo stesso modo di fare lento, la stessa gentilezza un po’ stanca.) Mi disse che quando la polizia aveva perquisito la casa di Martha più a fondo aveva trovato l’articolo di giornale su Victoria Sands, quello che la signora Ellis aveva scarabocchiato. Era stato nascosto sotto il guardaroba, appiccicato col nastro adesivo. Avevano trovato anche un altro articolo, spiegazzato sotto il materasso. Era sulla ragazza di Glasgow. Quegli articoli parevano bizzarri modi di vantarsi. Un catalogo di crimini.
Guardai alla televisione il fratello di Victoria che parlava dell’omicidio di sua sorella e ringraziava la polizia per aver risolto il caso, nella speranza che quel che restava della sua famiglia ora trovasse pace. Ricordai la foto che avevo visto di lui bambino. Gli occhi grandi, lo sguardo perso, si chiedeva dove fosse finita sua sorella. E sentii di nuovo quel legame straziante fra noi: la consapevolezza che entrambi capivamo cosa significasse vedere una sorella scomparire.
Martha aveva fatto bene a rallegrarsi della morte di suo padre. Chissà quante altre ragazze avrebbe potuto uccidere. O forse ce n’erano altre: ragazze di cui nessuno si accorgeva, senza una famiglia che ne denunciasse la scomparsa.
Il funerale fu una cerimonia discreta: c’erano Rita, David e qualche signora della parrocchia. Scelsi una bara bianca per le ossa delicate di Gabriella, cantammo gli inni e ascoltammo Siouxsie and the Banshees. Cercammo di fare qualcosa che sarebbe potuto piacere a tutti.
E la seppellimmo vicino alla tomba miei genitori. Pioveva di nuovo. L’erba alta e bagnata mi inzuppò l’orlo della gonna. Nell’aria c’erano profumi intensi: l’odore penetrante della pioggia, quello ricco del terreno e quello dei gigli che avevo adagiato sulla tomba. Questa volta portavo con orgoglio le mie Doctor Martens e la giacca di jeans. Non erano appropriati? E allora? Riuscivo a sentire la risata di Gabriella.
Martha venne al cimitero. Rimase lì in piedi con il suo mazzo di rose rosse vicino alla tomba deturpata dei suoi genitori. Non mi stupiva che l’avesse fatto. La immaginavo, anno dopo anno, a scalpellare i loro nomi, cercando di cancellarli completamente. Chi poteva biasimarla, dopo che le avevano portato via l’unica amica che aveva?
Forse, prima o poi, sarei tornata a trovarla. Nel frattempo, i servizi sociali la tenevano d’occhio. Persino Eliza andava a trovarla, camminando a fatica col suo bastone, cercando di reprimere il senso di colpa per non aver fatto di più quando aveva visto una ragazzina che piangeva sui gradini di casa.
E poi, quando mi girai dopo aver gettato il primo pugno di terra nella fossa, vidi tutti gli abitanti del villaggio che facevano silenziosamente il loro ingresso nel cimitero per dire addio alla ragazza perduta di tanto tempo prima.
Terminati il funerale e la veglia, passai del tempo da sola, piangendo mia sorella, passeggiando per il villaggio finché, finalmente, mi resi conto che non stavo più evitando i ricordi come avevo fatto in precedenza – al contrario, li cercavo. C’era il cancello su cui ci dondolavamo; il muretto che costeggiavamo; il vialetto marchiato con l’impronta della mano di Gabriella, impressa nel cemento.
Un giorno, quando andai al cimitero per mettere dei fiori sulla tomba dei miei genitori e di mia sorella, passai davanti a quella di Edward Lily e lasciai anche lì un bouquet di gigli.
La porta della chiesa si aprì e uscì Nicholas, col casco sotto il braccio, come sempre. Si accorse che l’avevo visto, mi fece un cenno con la mano e venne verso di me. «Ciao, Anna», disse gentilmente. «Come stai?»
«Me la cavo. Grazie per avermelo chiesto.»
Lui annuì e restammo lì, l’uno accanto all’altra, a osservare la tomba di Edward Lily. Non c’erano fiori, a parte i miei, e alcune erbacce si erano fatte largo tra le pietre. Sovrappensiero, mi chinai per estirparle. Chi l’avrebbe fatto, una volta che io fossi partita? Forse Rita. Aveva promesso di prendersi cura delle tombe dei miei genitori. E di Gabriella. Magari si sarebbe occupata anche di quella di Lily.
Pensai a Lydia. Perché non aveva partecipato al funerale di suo padre? Non era morta, stando alle parole di Dawn, dato che la zia l’aveva menzionata. Si trovava in un istituto, come avevamo ipotizzato, o era malata? Altrimenti sarebbe venuta.
«Ricordi il funerale di Edward Lily?» chiesi a Nicholas.
Scosse la testa. «Non ero ancora arrivato qui, mi dispiace.»
«Pensavo a Lydia.» Gli lanciai un’occhiata di traverso per vedere la sua reazione, ma stava semplicemente aspettando con interesse quello che avrei detto. «Sai del legame di Lily con la mia famiglia, vero?»
Annuì, arrossendo leggermente.
«Lydia non è venuta al suo funerale. Mi chiedevo dov’è, che ne è stato di lei. Ho sentito dire che Edward l’ha messa in un istituto. Credo avesse un disturbo mentale. Mi sembra una cosa crudele, abbandonare tua figlia in quel modo. Pensi che sia vero?»
Lui rifletté. «Non saprei, Anna. Ma possiamo scoprirlo. Parlerò con Lawrence.»
«Lawrence?»
«Il parroco che mi ha preceduto. È lui che ha organizzato il funerale di Lily. Ora è in pensione.»
«Davvero gli parleresti? Te ne sarei davvero grata!»
«Nessun problema. Lo faccio volentieri. Gli telefonerò oggi pomeriggio e vediamo cosa dice.»
Pensai un’altra cosa. «Lydia ha una zia, la sorella di Edward Lily, ma non so dove viva. Forse Lawrence potrebbe saperlo? Le potrei scrivere.»
«Lascia fare a me.»
«Grazie.»
Restammo lì ancora un po’ a osservare la tomba in silenzio, finché Nicholas non se ne andò.
Lawrence era via per qualche giorno – una battuta di pesca, disse sua moglie. Ero impaziente, e cercai di ottenere informazioni da altre fonti. Rita aveva detto che il nostro contatto per lo sgombero della casa era l’avvocato, ma forse anche lei aveva l’indirizzo della sorella di Lily. No, non l’aveva, ma mi suggerì di chiedere allo studio Martin e Martin. «Segreto professionale», mi informò una segretaria cerimoniosa quando chiamai. Non mi sorprendeva. Le chiesi di lasciare un messaggio. Magari l’avvocato che aveva seguito la pratica mi avrebbe contattata.
Mentre ero in attesa di sapere qualcosa da Nicholas o dallo studio legale, provai a investigare seguendo un’altra via. David si fece avanti e mi offrì il suo aiuto. Consultammo i social media, ma non trovammo nulla. Cercammo eventuali parenti di Edward Lily sui siti di ricerche genealogiche, ma non ce n’erano di viventi, a parte sua sorella, un nipote e Lydia, e non avevo informazioni su Isabella. La sua storia era nascosta in Spagna.
Andai a trovare Dawn, che mi parlò dei suoi ricordi di Lydia. Mi raccontò della sua vita come domestica a casa di Edward Lily e di come Robert intervenisse per estirpare le erbacce e potare piante e cespugli. E delle ore che Lydia aveva passato a gironzolare nel giardino del Lemon Tree Cottage o a fissare i campi in lontananza dalle finestre.
Figurandomi Lydia nel giardino, ripensai a come fosse incolto: Robert non aveva fatto un gran lavoro. Mi immaginai una Dawn più giovane che flirtava con lui, distraendolo. Non era difficile: aveva solo sette o otto anni più di me.
Mi venne una nuova idea. E ci provai. «Ha badato al cottage anche quando Edward era in Spagna?»
Annuì. «Voleva che il posto sembrasse vissuto. E poi di tanto in tanto lui tornava.»
«Quindi lei e Robert entravate in casa, quand’era vuota, per pulire e sistemare il giardino?»
Annuì ancora e poi arrossì. E capii. Mistero risolto: il cibo e il vino, le coperte arruffate sul letto. Avevo scoperto i piccioncini nel loro nido d’amore, quel giorno, quando avevo perlustrato il cottage in cerca di Gabriella.
Dawn tirò fuori un fazzoletto e si soffiò il naso, nascondendo le gote infiammate. Robert sarà stato in camera da letto ad aspettarla? Immaginai le loro facce, quando avevano sentito i rumori che avevo fatto arrampicandomi sul tetto del portico, e poi lo shock che doveva aver provato Dawn, con la sua vestaglia arancione, quando si era ritrovata davanti il viso di una bambina. Quante volte avevo sognato quel pezzo di stoffa svolazzante?
Mi concessi un moto d’irritazione interiore nei confronti di quella donna: l’intrusa che mi aveva fatto perdere tempo. E poi mi concessi di perdonarla. Non aveva più importanza.
Lawrence tornò dalla battuta di pesca. Nicholas venne a trovarmi e mi diede un indirizzo e un numero di telefono. «La sorella di Edward Lily. Si chiama Elizabeth, vive vicino a Oxford. Dice che puoi chiamarla o scriverle e chiederle quello che desideri.»
Presi il foglietto con un certo nervosismo. Cosa volevo scoprire, esattamente? Il pensiero di parlarle direttamente mi riempiva di ansia, così, dopo qualche tentativo, scrissi una lettera e passai i giorni seguenti definendo gli ultimi dettagli dello sgombero insieme a Rita. Contattai un agente immobiliare e chiesi una valutazione. Era ora di mettere in vendita il negozio. Era ora di pensare a cosa avrei fatto dopo.
La busta era sullo zerbino quando tornai dalla Casa di Flores. Osservai la grafia sconosciuta e sobbalzai. Sapevo che era di Elizabeth prima ancora di aprirla. Dopo essermi sfilata le scarpe e la giacca, mi diressi in cucina e mi sedetti al tavolo. La lettera era lunga, tre pagine, il tono caldo fin dall’inizio. «Mi è dispiaciuto», scriveva Elizabeth, «sapere di tua sorella. È così triste non aver conosciuto mia nipote...»
Mi asciugai una lacrima e continuai a leggere. Elizabeth non aveva saputo nulla finché suo fratello non le aveva fatto visita poco dopo la scomparsa di Gabriella. Aveva confessato la relazione con mia madre e la nascita della loro bambina, e aveva pregato Elizabeth di prendersi cura di Lydia, dicendo che lui non ce la faceva. Elizabeth aveva un figlio bisognoso a sua volta di attenzioni, e lei si sarebbe occupata di entrambi. Fui contenta di sapere che Edward non aveva abbandonato la figlia in un istituto, ma pensai a mia madre e a sua cugina Mary, e non lo giudicai per la sua decisione.
«Lydia ha una forma di psicosi», scriveva Elizabeth, «un disturbo di personalità, forse ereditato dalla madre. A volte, quando le cose nella sua vita non vanno molto bene, lei si sente vulnerabile, ma ha imparato a riconoscere questi momenti e a gestirli, sottoponendosi volontariamente alle terapie. Era così che si sentiva quando morì Edward, e ora è in una casa di cura, ma so che non ci vorrà molto perché torni qui da me. Mia nipote è forte e indipendente. È una persona eccezionale.» Annuii leggendo quelle parole. Ci avrei giurato. Anche Gabriella lo era.
Elizabeth continuava raccontandomi del testamento di Edward, spiegando che lei era l’esecutore testamentario e amministratore fiduciario. Diceva che Edward aveva disposto che i ricavi della vendita del Lemon Tree Cottage, il suo contenuto e tutto il resto finissero in un fondo fiduciario destinato a Lydia e al figlio di Elizabeth, il che significava che, una volta che la zia fosse morta, Lydia avrebbe avuto abbastanza denaro per pagarsi le cure.
«Anche mio marito è stato esecutore testamentario e amministratore fiduciario. Ma ora è mancato. Ora devo nominare un nuovo amministratore. Qualcuno su cui Lydia possa contare quando non ci sarò più.» Rilessi le sue parole. C’era una domanda nascosta tra le righe? Non mi aveva mai conosciuta. Forse aveva dedotto dalla mia lettera che avrei fatto del mio meglio per essere d’aiuto.
Infine Elizabeth mi chiedeva di farle visita. «Abbiamo così tanto da raccontarci», scriveva. E mi dava l’indirizzo dell’istituto in cui Lydia si trovava temporaneamente, nel caso volessi incontrare anche lei.
Ripiegai la lettera con un sospiro e pensai quanto doveva essere meravigliosa Elizabeth. Il genere di persona che si sacrifica, accettando di occuparsi dei figli di altri. Persone come mio padre. Restai lì seduta a lungo a pensare, provando nostalgia per la mia famiglia, concentrandomi su come erano, ricordandoli uno per uno per trattenerli, anche solo per un istante.
Più tardi, quando ormai si stava facendo buio e il dolore per il lutto si era affievolito, andai di sopra, nella stanza di Gabriella. La finestra era aperta. Fuori, le nuvole scivolavano nel cielo, scorrendo davanti a una luna quasi piena. Il vento sospirava e borbottava, riprendendo fiato tra i rami degli alberi. Voci. Spiriti. Mi sembrò di sentirli, che mi esortavano ad andare avanti.
«Mi manchi», sussurrai nel buio, mentre una brezza leggera entrava dalla finestra e mi accarezzava il volto.
Mi manchi. Era stata un’eco?
Girandomi su un fianco, mi accorsi che il cuscino era bagnato di lacrime. Stavo piangendo, un’altra volta – per come era finita la mia infanzia, per la morte dei miei genitori.
E per il giorno in cui mia sorella scomparve.