18.

1982

La mamma era seduta vicino al telefono, a fare chiamate. Ogni volta che spiegava che Gabriella era scomparsa lo faceva con un tono vivace: le sue parole frizzanti si incrinavano solamente alla fine della conversazione.

Per un attimo, mentre le passavo davanti, guardò verso di me. Si illuminò in volto vedendo il parka di Gabriella, prima di accorgersi che dentro c’ero io. Quando appesi il giaccone si rabbuiò e io mi sentii triste, sapendo di aver destato in lei una speranza. Poi, ecco il senso di colpa. Ero la figlia sbagliata. Solo quando, terminate le telefonate, mi sgridò perché ero uscita, stringendomi però subito dopo fra le sue braccia, compresi di starle a cuore.

Era venerdì, ma nessuno parlò di andare a scuola. Nessuno parlò di niente. Rimasi seduta da sola in cucina a mangiare Rice Krispies dalla scodella di Gabriella. Quando ripassai dal corridoio la mamma era ancora lì. Mi rivolse un sorriso triste e compose un altro numero.

Papà sparì. Lo guardai dalla finestra: saltò sul suo camioncino e partì a tutta velocità. Ritornò un’ora dopo, scuotendo la testa, allungando la mano verso la mamma, che aveva smesso di telefonare ed era in cucina, seduta al tavolo, le mani giunte, come in preghiera. «Non è là, Esther», disse papà con tono sommesso. «Nemmeno lui l’ha vista.»

La mamma emise lentamente un sospiro. «Non avrebbe potuto. Era qui.» Ricordai l’odore di tabacco, il visitatore misterioso del giorno prima.

«Lo so, ma lei avrebbe potuto andarci dopo.»

«Dopo cosa? Non sappiamo cosa ha fatto.»

Poi all’improvviso sembrarono ricordarsi di me e tacquero. Di chi stavano parlando? Dove era stato papà? Non chiesi nulla, perché l’unica risposta che mi interessava riguardava il posto in cui si trovava mia sorella.

Nel pomeriggio tornò l’agente Atkins. Rimase in piedi nell’ingresso, con la radio che gracchiava, e parlò con mamma e papà. Sentii i suoi stivali strascinati sul pavimento mentre si spostavano tutti insieme in cucina. La porta si chiuse con uno scatto delicato: il rumore dell’esclusione risuonava nella mia testa.

Ci volle mezz’ora prima che papà venisse a prendermi. L’avevo cronometrato sull’orologio a pendolo, incollando lo sguardo alle lancette e le orecchie al ticchettio, in modo da non dover pensare a nient’altro.

L’agente Atkins mi rivolse un sorriso rassicurante. «Ciao di nuovo, Anna.» Questa volta mi sedetti su una seggiola con le mani tra le ginocchia strette, mentre lui si accovacciò di fronte a me, con il corpo che scricchiolava per lo sforzo. I miei genitori rimasero in piedi dietro di lui come una coppia di fermalibri. La faccia di mia madre era così bianca che mi ricordava uno dei pupazzetti che avevo fatto con l’impasto avanzato e che poi avevo glassato con il latte prima di metterli in forno.

«Non ti dispiacerà se ti faccio qualche altra domanda», mi disse mentre tirava fuori il suo taccuino e sfogliava le pagine. «Sono appena stato alla scuola di Gabriella, ho parlato con i suoi amici e i suoi insegnanti, e volevo solo sapere che cosa ne pensavi tu.»

Cominciò lentamente, spiegandomi cosa aveva scoperto. Gabriella era stata vista alle lezioni del mattino e poi all’intervallo. Aveva mangiato alla mensa e risposto all’appello del pomeriggio. Era uscita dal cancello insieme a degli amici, ma poi si erano separati e nessuno aveva saputo dire dove fosse andata. Faceva una pausa di tanto in tanto, per controllare i suoi appunti, per cambiare posizione, per osservarmi attentamente con quegli occhi tristi e, alla fine, si schiarì la gola. «E fuori dalla scuola? È successo qualcosa di insolito?»

Mi inumidii le labbra. L’immagine di Martha comparve nella mia mente: la sua storia riguardo all’uomo e alla lettera. Non avevo visto l’uomo ma avevo visto la lettera.

Mi strinsi nelle spalle. «Aveva una lettera.»

Lui mi osservò con attenzione e si grattò il mento. «Una lettera?» Annuii. «Da parte di chi?»

«Non lo so. La stava leggendo alla fiera.» Dovevo riferirgli quello che aveva detto Martha?

«Poteva essere di un...» Il poliziotto fece una pausa e guardò i miei genitori. «Un ragazzo?»

Pensai ai suoi compagni di scuola. Non credevo che a Gabriella piacesse qualcuno di loro, quindi scossi la testa. C’era solo quello di Our Price, ma lei non gli aveva mai parlato. Non esattamente.

Ci fu un istante di silenzio. «Dimmi», riprese l’agente Atkins, con una smorfia di fatica, «tua sorella ha mai parlato di andarsene di casa?»

Aspettai cinque battiti, contandoli lentamente nella mia mente. «No», dissi con fermezza. «Mai.»

Scese il silenzio, mentre lui alzava gli occhi verso il soffitto e corrugava leggermente la fronte. «Il fatto è che ho trovato una valigia sotto il letto di tua sorella.» Strinsi le mani ancora più forte tra le ginocchia. «Lo sapevi?»

«No.» Gli occhi mi si riempirono di lacrime.

Il poliziotto distolse ancora lo sguardo e parlò rivolto al muro. «C’era qualcosa che la rendeva infelice? Hai qualche idea sul perché l’abbia preparata? Pensi che avesse in mente di incontrare...»

Papà lo interruppe. «No. Se sta insinuando che Gabriella avesse un ragazzo e che avesse intenzione di mollare tutto per scappare con lui, è ridicolo. Gabriella non aveva un ragazzo. Vero, Esther?»

La mamma scosse la testa.

L’agente Atkins teneva lo sguardo fisso su di me. «Che ne pensi, Anna? Sai se Gabriella avesse qualche amico speciale?»

Quando le lacrime cominciarono a scendere, papà fece un passo avanti. «No, certo che non lo sa. E gliel’ho già detto, Gabriella non aveva un ragazzo e non è scappata. Non è il genere di ragazza che lo farebbe.» Fece una pausa. «Forse ha preparato la valigia perché pensava che saremmo andati nel Galles. Non si era resa conto che avevamo deciso di non partire. E poi, se fosse scappata l’avrebbe portata con sé, no?»

Il poliziotto rimase zitto per qualche istante. Poi riprese: «Pensi che sia andata così, Anna? Credi che abbia preparato la valigia per le vacanze?».

Annuii lentamente e sussurrai: «Sì».

Lui si sporse in avanti per sentire la mia risposta e poi si raddrizzò. «Grazie, Anna. Sei stata di grande aiuto. E non voglio che ti preoccupi di niente.» Rivolgendosi ai miei genitori aggiunse: «Vi dispiace se do ancora un’occhiata in giro? È solo una formalità. Tutte le stanze questa volta, la soffitta e... avete un capanno degli attrezzi per caso?». Si scambiarono un’occhiata e annuirono.

Il sabato fui svegliata presto dal suono delle voci. All’inizio pensavo che il poliziotto fosse tornato, ma quando andai di sotto trovai la nonna Grace, il nonno Bertrand, lo zio Thomas e Donald. La loro presenza era stata richiesta durante la notte.

Mi fecero un debole sorriso. Lo zio Thomas diede qualche colpetto al posto accanto a lui, ma preferii sedermi sul pavimento. Con Gabriella mi sedevo sempre per terra. Sarebbe stato strano se non l’avessi fatto anche ora. La nonna Grace riempiva il silenzio con i suoi commenti. «Una bambina così adorabile...» disse. «Perfetta in tutto. Una ragazza piena di buonsenso. Tornerà.» Ma le sue parole suonavano stanche e lei presto smise di parlare. Si appoggiò al bastone, limitandosi a muovere le labbra.

La mattina si trascinò avanti. Papà non si era fatto la barba e aveva gli occhi assonnati, come se non avesse dormito. Continuava a passarsi la mano tra i capelli finché non gli rimasero in piedi a ciuffi. Arrivò Rita, che portò la mamma di sopra e rimase seduta con lei nella stanza di Gabriella. Donald preparò un’infinità di tazze di tè che nessuno bevve, mentre lo zio Thomas mi convinse a sedergli vicino. Mi accarezzava il braccio e io mi appoggiai a lui mentre continuava a mormorarmi la stessa cosa: «Coraggio, Anna».

Gli adulti si scambiavano frasi che credevano non potessi sentire. La valigia aveva confuso tutti quanti. Nonostante la logica suggerisse che Gabriella l’avrebbe portata con sé, la polizia credeva che indicasse una mente capace di concepire una fuga. Io rimasi in silenzio. Non avevo la minima intenzione di sostenere le loro teorie. Sapevo che Gabriella non era scappata perché sapevo che non se ne sarebbe andata senza dire addio. Almeno a me. Era andata da qualche parte per un paio di giorni, si era nascosta per un qualche motivo. Accettavo quest’idea come se fosse qualcosa di cui mi aveva parlato. Solo che mi ero dimenticata che cosa mi avesse detto esattamente. Dovevo solo concentrarmi bene e me lo sarei ricordato. Dovevo solo aspettare, e sarebbe tornata.

Alle dieci, papà perse la pazienza. Con i capelli e gli occhi sconvolti, ci squadrò tutti e annunciò che se la polizia non aveva intenzione di fare niente, il villaggio l’avrebbe perlustrato lui. Prese con sé lo zio Thomas e Donald e promise che avrebbe bussato a ogni porta. Quando tornò, l’intero paese sapeva che mia sorella era scomparsa.

Papà marciò dritto verso il telefono e chiamò la polizia. Gridava, insistendo perché cercassero sua figlia. La mamma e Rita scesero le scale. Lo zio Thomas portò fuori papà. E il compito di accarezzarmi la spalla e dirmi che sarebbe andato tutto bene passò a Donald.

Più tardi sbirciai dalla finestra e vidi due agenti nella nostra strada. Li osservai mentre facevano su e giù per cancelli e vialetti, fermandosi per qualche minuto a ogni porta.

Il mio poliziotto (ormai lo consideravo così) arrivò insieme a un altro, che si presentò come detective Sayers. Si sedettero in cucina, mentre io restai nella mia stanza. Avevo guardato abbastanza telefilm polizieschi in TV per sapere che il detective Sayers rappresentava un gradino superiore rispetto all’agente Atkins. Per sgombrarmi la mente rimisi in ordine la libreria, tirai giù tutti i volumi e li deposi sul pavimento. Poi cominciai a risistemarli sui ripiani, in ordine alfabetico. Alcuni li avevo ereditati da Gabriella: le serie delle Torri di Malory e della Banda dei cinque. Quelli li appoggiai sul letto. Li avrei riletti di nuovo tutti. Nient’altro, finché non fosse tornata a casa.

Appena i poliziotti se ne andarono, scivolai a metà delle scale e ascoltai ancora i miei genitori che parlavano. Un sacco di poliziotti sarebbero stati mobilitati per una ricerca palmo a palmo. Apparentemente, anche loro erano giunti alla conclusione che Gabriella non fosse il tipo di ragazza che potesse scappare di casa. Il parroco, i suoi insegnanti, tutti quelli che la conoscevano avevano tracciato lo stesso quadro.

Mi immaginai la scena: una fila di uniformi blu che avanzavano curve, battendo il parco e inginocchiandosi quando trovavano un anello o un braccialetto, un mazzo di chiavi, un guanto. A parte il fatto che non avrebbero scoperto niente, mi ripetevo, perché là fuori non c’era niente da trovare.

Guardai fuori dalla finestra della camera di Gabriella. I vicini erano venuti e si erano radunati in strada. Di tanto in tanto, uno di loro lanciava un’occhiata a casa nostra. Riconobbi un uomo che parlava gesticolando, abitava due porte più in giù. Sua moglie aveva avuto una bambina solo due settimane prima e la mamma mi aveva mandato da loro con un coniglietto rosa e un biglietto. C’erano persino la signora Henderson e quello scemo di suo figlio Brian. Aprii la finestra per lasciar filtrare le parole all’interno. «Dobbiamo fare qualcosa», sentii dire al neopapà. «Se fosse capitato a uno dei nostri...» Abbassò la voce e non sentii nient’altro. Una donna con un lattante in braccio lo abbracciò forte. Un uomo le mise una mano sulla spalla.

Mi appoggiai al vetro, lasciando che il mio fiato lo appannasse. Il mio corpo mi sembrava cavo, come se dentro di me non ci fosse più nulla, niente organi, niente sangue pulsante, solo le ossa dello scheletro e il guscio della pelle.

Il gruppo si sciolse e tutti sciamarono verso le loro case. Me li immaginavo, loro e gli altri abitanti del villaggio, che chiudevano le finestre, controllavano le porte, rimanevano seduti vicino ai loro figli e li tenevano a casa.

Altri vicini bussavano a qualche porta e scomparivano all’interno. Era come se stessero organizzando qualcosa da cui noi eravamo esclusi, una specie di sorpresa terribile.

A un certo punto le porte si spalancarono. Uno a uno, uomini e ragazzi uscirono, volgendosi tutti in un’unica direzione, come se stessero seguendo delle istruzioni, e si allontanarono in silenzio.

Più tardi, una Ford Cortina color oro sferragliò per la via e si fermò sul ciglio della strada, sul lato opposto a noi. Due uomini aprirono le portiere, si sgranchirono le braccia e diedero un’occhiata in giro, lasciando soffermare lo sguardo più a lungo sulla nostra casa. Aprirono il baule e tirarono fuori un treppiedi che sistemarono sul marciapiede, puntando la telecamera dritto sulla nostra porta.

Il campanello suonò. Papà andò a rispondere e si chiuse parzialmente la porta alle spalle; quando tornò, parlò con la mamma, che aspettava in corridoio. «I vicini la stanno cercando», disse. «Tutti quanti, uomini e ragazzi. Sono al parco, aiutano la polizia.» Mi si rivoltò lo stomaco, ancora vuoto. Vi poggiai sopra una mano per calmarlo. Papà prese la mano della mamma, cercando di non piangere, e la tirò a sé. Mentre si stringevano l’uno all’altra, il sole autunnale filtrava fiacco dalla finestrella ad arco in cima alla porta, tracciando leggeri arabeschi sulla loro pelle.

Papà uscì di nuovo, questa volta portando con sé anche lo zio Thomas. Donald rimase per prendersi cura del resto di noi, anche se mi resi conto che non gli andava. Avrebbe voluto essere là fuori, a cercare come gli altri uomini. Continuava ad agitarsi, facendo su e giù per la stanza. A un certo punto sparì e tornò con alcune fette di pane, dell’Edam e dei cetrioli. Fui arruolata come suo aiuto, e preparammo pile di sandwich per tutti. Mi incaricò di imburrare il pane e di imbottirlo coi cetrioli. A Gabriella non piacevano i cetrioli sottaceto, gliel’avrei voluto dire mentre li aggiungevo senza lesinare. Preferiva la maionese.

Quando fu buio, papà e lo zio Thomas tornarono a casa, scuotendo la testa. E la famiglia – lo zio Thomas e Donald, la nonna Grace e il nonno Bertrand – se ne andò, sfilando fuori in silenzio con la promessa di tornare il giorno successivo.

Jasper apparve e mi saltò in braccio. Affondai il viso nella sua pelliccia e pregai. “Per favore, Dio. Fa’ che mia sorella torni a casa.” E mentre elencavo i lavori domestici extra che avrei fatto, le messe a cui sarei andata, gli anziani che avrei aiutato, le buste del Christian Aid che avrei consegnato, cercavo di ignorare la voce di Gabriella nella mia testa: Che senso ha pregare, se Dio non risponde?