10.
1982
L’ultimo giorno di scuola si concluse con una noiosa cerimonia di premiazione. La scuola era sempre deprimente, con i suoi blocchi di cemento e i professori che soffrivano di esaurimento nervoso. Mi sarebbe piaciuto studiare al classico, in uno di quegli edifici che sembravano usciti da un romanzo gotico, dove le ragazze portavano il blazer, il borsello alla cintura e imparavano il latino e nessuno ti dava della quattrocchi o della secchiona solo perché ascoltavi in classe. Ma, tragicamente, il Saint Barnabas era in città, a mezz’ora di autobus: alla mamma non piaceva che viaggiassi e papà disprezzava la selettività. «Gesù, Giuseppe e Maria», aveva commentato Gabriella quando le avevo rivelato il mio sogno. «Il latino è morto. M-O-R-T-O. E hai visto le uniformi? Gonne lunghe fino alle caviglie.»
La signora Green, la preside, andava per le lunghe come al solito coi suoi discorsi monotoni, mentre distribuiva coppe e targhe. Annuivamo, seduti nelle nostre file, finché la signorina Pretty non salì sul palco per proclamare il vincitore del concorso d’arte. La scuola, a quel punto, si risvegliò. La signorina Pretty era giovane. Portava vestitini pieni di balze e grossi orecchini a cerchio: esattamente l’aspetto che una professoressa d’arte avrebbe dovuto avere.
Il quadro, sistemato su un cavalletto, era nascosto da un lenzuolo. Facendo un sacco di scena, la signorina Pretty sollevò il telo, rivelando il ritratto di un uomo anziano. «E il vincitore è...» disse, allargando le braccia come se volesse stringerci tutti. «Martha Ellis.»
Silenzio.
«Martha Ellis», disse un ragazzo nella fila dietro di me. «Non sa dipingere proprio un cazzo di niente.»
Invece sapeva farlo, e sul palco c’erano le prove. Martha salì i gradini, accompagnata da uno sparuto applauso.
Più tardi, dopo che eravamo usciti tutti in fila al suono della campanella, andai a cercare Gabriella. La trovai con Martha. Stavano guardando il suo premio: due biglietti per una mostra alla Tate Gallery, a Londra. Una sensazione oscura si sollevò dentro di me, invadendomi completamente. Tentai di scacciarla. Cosa mi importava? Ma Martha stava sorridendo a mia sorella con quel suo fare strisciante che mi irritava, e non resistetti.
«Sei pronta?» le domandai con voce alta in modo innaturale.
«Per cosa?» ribatté Gabriella voltandosi sorpresa.
«Dobbiamo andare a casa.»
«Dobbiamo?» Gabriella aggrottò le sopracciglia.
Mi stampai in faccia un’espressione seria. Pensavo che avrebbe opposto resistenza, invece lei restituì i biglietti a Martha, la salutò e mi seguì verso il cancello. Quando lanciai un’occhiata alle mie spalle, Martha ci stava fissando, con la mano ancora protesa come se stesse dando via i suoi biglietti. Digrignai i denti e mi affrettai lungo la strada, tirandomi dietro Gabriella.
«Perché dobbiamo andare a casa?» chiese.
«Non dobbiamo», dissi. Anche se, mentre parlavo, mi guardavo in giro quasi aspettandomi di vedere papà nel suo camioncino. Ormai aveva preso l’abitudine di accompagnarci e venirci a prendere. Oppure insisteva che raggiungessimo insieme a piedi la Casa di Flores invece di dirigerci direttamente a casa. «Sei paranoico come la mamma», lo aveva accusato Gabriella. Lui invece diceva che voleva solo passare un po’ più di tempo con le sue ragazze.
«Allora perché hai mentito?»
«Pensavo che avessi bisogno di essere salvata.»
Mi squadrò. «Non essere stupida, Anna. Che cos’hai che non va? Non provi mai dispiacere per nessuno?»
Mi si infiammarono le guance. La disapprovazione di Gabriella era come una ventata gelida che, con la sua potenza, era riuscita a sbriciolare la mia testardaggine. Percorremmo il resto della strada in silenzio. Il mio viso bruciava di vergogna. Mia sorella aveva ragione: ero stupida. Avrei dovuto lasciar stare lei e Martha. Gabriella cercava solo di essere gentile.
«Mi dispiace», mormorai quando arrivammo a casa. Afferrai la peonia accanto all’ingresso. I fiori erano rosso sangue ed esplodevano dai loro boccioli. Ne colsi uno e lo porsi a Gabriella. «Scusami. Scusami tanto, davvero. Puoi andare alla mostra con Martha, se vuoi.»
«Non glielo volevo proporre, in realtà», rispose prendendo il fiore e lanciandomi un altro sguardo di disapprovazione. «Se fossero stati dei biglietti per Siouxsie...» Sorrise. «Lascia stare.» Si sfilò una molletta dai capelli e sistemò la peonia fra i miei. Arretrò di un passo per ammirare l’effetto. «Sei bellissima, Anna Flores. Come una ballerina di flamenco. Vorrei averli io, i tuoi capelli neri. E vorrei che la mamma si decidesse a lasciarmeli tingere, che cavolo.»
«Forse dovresti farlo e basta», le dissi con più enfasi di quanta intendessi davvero.
Mi guardò, le labbra schiuse per la sorpresa. «Che cos’è successo alla Signorina Perfettina?»
Mi strinsi nelle spalle. Eravamo di nuovo unite, anche se stavolta era contro la mamma.
Più tardi, quando mi guardai allo specchio, mi accorsi che alcuni petali della peonia si erano staccati. Come sarebbe stato meglio sulla pianta quel fiore! Avrei dovuto lasciarlo lì. Il senso di colpa si fece strada serpeggiando nella mia pancia e si unì alla gelosia. Ma non era il fiore morente a farmi sentire in colpa: era il ricordo dell’espressione di Martha, ferma con la mano aperta mentre offriva i suoi biglietti al vuoto.
Le vacanze cominciarono, e ci abituammo alla nostra libertà. La mamma ci portò a fare una gita in città, e noi litigammo su cosa vedere al cinema, Rocky III o Annie. Alla fine li vedemmo entrambi, e dopo ci mangiammo un paio di ciambelle da Debenhams.
Il primo giorno di gran caldo decidemmo di fare un picnic. La mamma era a letto con il mal di testa e un panno umido sulla fronte. Chiederle il permesso era fuori discussione, sapevamo che avrebbe fatto un sacco di storie, perciò, dopo esserci preparate dei sacchettini con uova alla scozzese, rotolini alla salsiccia e una tortina Battenberg, scivolammo fuori dalla porta.
Tom, lo spazzino, stava passando di lì. Tom c’era da sempre, con la sua sciarpa variopinta che gli aveva sferruzzato sua madre. Spingeva il suo carrello, con il bastone a punta, il badile e la scopa che spuntavano in formazione, come un tridente. Armi perfette per un delitto, aveva commentato Rita una volta. Per trafiggere, scavare e spazzare il terreno.
Tom aveva vent’anni e rotti, ma ci sembrava più vecchio perché camminava con la schiena curva. Aveva gli occhi grandi, ma il suo sguardo non si soffermava mai dove doveva, quindi non sapevi mai se ti stava osservando, o addirittura ascoltando; il che rovinava il divertimento ai ragazzi del villaggio, che si divertivano a bersagliarlo con insulti e anche con qualche pietra. Gabriella sorrise e lo salutò come faceva sempre, e lui la ignorò come faceva sempre.
Ci arrampicammo su per Chestnut Hill, con l’intenzione di raggiungere il bosco tagliando per il viottolo. Nell’aria c’era odore di erba falciata e delle mosche minuscole ci ronzavano in faccia. Nel giardino del cottage con il tetto di paglia, un cesto di vestiti bagnati era stato lasciato sotto il filo molle del bucato. Dall’interno della casa arrivava il pianto fievole di un bambino piccolo. Un tosaerba era stato abbandonato lì. Solo metà dell’erba era stata rasata, l’altra era ancora alta e incolta. Sembrava un taglio di capelli sbilenco.
«Human League», sussurrai per far ridere Gabriella. Lei si mise una mano sul cuore e ghignò. Phil Oakey era uguale sputato al ragazzo con gli occhi assonnati di Our Price.
Davanti al Lemon Tree Cottage era parcheggiato un camioncino rosso scuro. «Papà», esclamammo all’unisono guardandoci l’un l’altra. Una consegna? Era plausibile. Tutti al villaggio compravano mobili alla Casa di Flores.
«Non dovremmo bussare?» suggerì Gabriella.
«E perché?» Superai velocemente il cancello e Gabriella mi seguì. Non volevo incontrare di nuovo Edward Lily. Ero sicura che mi avesse riconosciuto in panetteria e avrebbe pensato che lo stavo spiando. Avevamo fatto solo qualche altro passo quando sentimmo una porta sbattere. Guardammo indietro: papà stava scendendo lungo il vialetto a grandi falcate. Aveva aperto la portiera del camioncino, era saltato dentro e si era allontanato giù per la stradina, sollevando la polvere.
Continuammo a girovagare per il bosco, mangiando il cibo che ci eravamo portate mentre camminavamo. C’era un percorso che seguivamo sempre, una passeggiata circolare; prendevamo come punti di riferimento un albero spaccato da un fulmine e un faggio pieno di scritte intagliate. Delle voci, davanti a noi, ci fecero virare in un’altra direzione, che di solito non prendevamo. Lì il sentiero era una striscia sottile di terriccio duro che passava fra le piante come un pallido ruscello asciutto. Gli alberi sui lati si univano in cima, creando un passaggio tetro che diventava più fitto a mano a mano che avanzavamo, finché non raggiungemmo un punto in cui erano talmente addossati che sarebbe stato impossibile proseguire.
«Torniamo indietro?» dissi scrutando nell’ombra, ma Gabriella aveva curvato di lato. La osservai mentre si faceva largo nel sottobosco, il corpo che spariva via via, fino a essere inghiottito completamente.
Dopo un istante, guardai l’orologio. Nel bosco ombreggiato c’era silenzio, a parte il richiamo di un uccello in lontananza e un rimescolamento tra le felci. Cominciai a camminare, prendendo a calci le radici e le pietre. Controllai di nuovo l’orologio. Erano passati sette minuti. E contando anche il minuto in cui non avevo guardato facevano otto. «Gabriella?» chiamai. Nessuna risposta. Ora la temperatura era calata. Sentivo raffreddarsi il sudore sui palmi delle mani. «Gabriella?» chiamai di nuovo. Ancora niente, a parte i sussurri di qualche animale nell’erba.
Infreddolita, seguii il suo percorso. Un topo attraversò il sentiero davanti a me, facendomi inciampare mentre mi scansavo. Afferrai un ramo per rimettermi in equilibrio e feci una smorfia quando le spine mi bucarono la pelle e una fila di perle sanguinolente gorgogliarono in superficie. Presa dal panico, mi lanciai nel fitto della vegetazione. Scacciando i rami che rimbalzavano frustandomi la faccia, avanzavo a tentoni nella semioscurità finché uno sprazzo di colore mi fermò, e lì, impigliata in un cespuglio, c’era una striscia di tessuto. Come una collana di rubini. Era quello che aveva detto Gabriella quando si era avvolta la sciarpa attorno al collo quella mattina, anche se a me era sembrato più un rivolo di sangue che le solcava la pelle chiarissima. Liberai la sciarpa e la strinsi fra le mani, con la mente ingombra di possibilità. Era stata rapita. Un pazzo l’aveva portata via.
Una mano mi afferrò la spalla. Sobbalzai e mi voltai di scatto con la bocca spalancata, pronta a urlare. Ma era Gabriella. E in quel momento avrei voluto gridare e chiederle perché mi aveva lasciata da sola, ma aveva un dito davanti alle labbra e mi stava facendo segno di seguirla. Feci un respiro profondo e le andai dietro, con il cuore che riprendeva il suo battito regolare mentre ci addentravamo fra i cespugli, fino all’apertura in cui era scomparsa.
Il terreno si interrompeva di botto, digradando fino a una radura. Tutt’attorno al bordo della conca, gli alberi formavano un cerchio, inclinandosi in avanti in una sovrapposizione di rami che chiudeva fuori la luce. C’era un tappeto di piante, un intrico di rampicanti coperti di spine e cespugli che lasciavano il passo a un argine ripido di terriccio e sassi che conduceva alla conca stessa.
«Guarda», sussurrò Gabriella indicando col dito.
Sbattei le palpebre finché i miei occhi non si abituarono alla penombra. Una figura era inginocchiata accanto a un tronco caduto, dalla parte opposta della radura. Era Martha. Aveva scavato una buca nel terreno e ci stava calando dentro una scatola da scarpe. Ora, con le dita, risistemava la terra smossa.
Afferrai la manica di Gabriella. Nessuna di noi parlò. Un corvo gracchiò, un altro gli rispose. C’era puzza di terra bagnata e di vegetazione putrefatta. Mi aspettavo che una nuvola nebbiosa si sollevasse, facendoci sparire tutte. Restai in attesa. Non accadde nulla. Cambiai posizione e una pietra rotolò nella conca. Ci immobilizzammo, mentre Martha guardava nella nostra direzione, scrutando nell’oscurità. Noi rimanemmo zitte, nascoste, a osservarla mentre copriva quel punto con qualche ramo e poi risaliva malferma l’altro lato della conca.
Ora che Martha se n’era andata, quella sensazione di mistero era svanita con lei. Ripensai alla mia scatola da scarpe, quella che tenevo nascosta sotto il letto. Non conteneva altro che conchiglie e fossili che avevo collezionato durante le vacanze, qualche cartolina e dei fiori essiccati. Dubitavo che la scatola di Martha fosse più interessante della mia.
«Potremmo dissotterrarla», buttai lì con un po’ d’incertezza, pentendomi nell’istante stesso in cui Gabriella era scoppiata a ridere.
«Che cosa pensi di trovare, i gioielli della Corona?» aveva detto lei. «Stiamo parlando di Martha. Cosa credi che abbia nascosto?»
Distolsi lo sguardo. Non volevo dirle quello che mi passava per la testa. Qualche mese prima, Gabriella sarebbe stata la prima a fiondarsi laggiù per dare una sbirciata. Ricomposi la mia espressione, facendo finta che non m’importasse. «Stavo scherzando», dissi, stringendomi nelle spalle.
«No, non è vero.»
«E invece sì.» Balzai in piedi. «Facciamo a chi arriva prima.» Ma lei non si mise a correre. Restò indietro mentre io mi affrettavo giù per il sentiero. E mi resi conto che, in futuro, avrei dovuto fare più attenzione a quello che dicevo a Gabriella. Lei stava cambiando e io dovevo adeguarmi.
La mamma dormiva ancora nella sua camera, inconsapevole del fatto che eravamo state via. Quando papà arrivò a casa, corse di sopra e loro due rimasero chiusi lì per un’ora. Più tardi lui scaldò il riso al curry nel microonde e disse che noi ragazze potevamo mangiare di fronte alla TV guardando Top of the Pops.
Le novità della serata mi distrassero, finché non andai a letto. A quel punto l’immagine di Martha accovacciata nel bosco riapparve nella mia mente. Cosa poteva nascondere una come lei? Il mio cervello rimuginò sulle diverse possibilità: un diario, denaro, lettere. Ficcare il naso non era giusto. Eppure... ripensai a Martha che cercava di convincere Gabriella ad andare con lei alla mostra, e decisi che le sarebbe stato bene se avessi dissotterrato la sua scatola. E comunque era un segreto, e a me i segreti non piacevano.
Alla fine immaginai di sgattaiolare di nuovo nel bosco per mettere in atto il mio piano con una tale convinzione che, quando chiusi gli occhi, mi sembrò di averlo già fatto.
La mattina seguente, di buon’ora, infilai la testa dietro la porta socchiusa di Gabriella. Stava dormendo su un fianco, con una gamba – infilata in un pigiama a righe – che penzolava fuori dalle coperte.
La lasciai lì e scesi di sotto in punta di piedi, tirai fuori una paletta da giardiniere dal mobiletto sotto il lavello e uscii. Non mi preoccupai della colazione, mi riempii le tasche di biscotti allo zenzero che sgranocchiai mentre mi dirigevo verso il bosco. Sapevo che sarei stata nei guai se la mamma avesse scoperto che me n’ero andata da sola, ma non mi importava. Peraltro lei sembrava molto più preoccupata per Gabriella che per me, anche se io ero la più piccola. Cosa pensava che progettasse mia sorella?
Il Lemon Tree Cottage era immerso in un cupo silenzio quando vi passai davanti con passo rapido. Nulla si muoveva in giardino. Gli alberi e le piante non erano agitati dalla brezza. Lanciai un’occhiata furtiva alle finestre del piano di sopra, ma non c’era traccia della ragazzina pazza che guardava da dietro i vetri.
Nel bosco avanzai alla svelta, guizzando tra gli alberi, superando con un balzo rami morti, radici e pietre, schivando i rovi che sembravano filo spinato e i cuscini di funghi. Dopo un paio di curve sbagliate, ritrovai il sentiero pallido. Il Sentiero Pallido. Mi piaceva, quel nome. L’anello di alberi sarebbe diventato il Cerchio Comune. La conca sarebbe stata la Conca del Diavolo. Barcollai sul bordo, mi accovacciai e poi mi calai giù per la china. Sul fondo sembrava ci fosse ancora più buio di prima, come se la volta della vegetazione si fosse infittita nel corso della notte. Aspettai che i miei occhi si abituassero alla penombra, poi mi diressi verso l’angolino accanto all’albero caduto. C’era un mucchio di pietre che segnalava il punto esatto, come una lapide in miniatura.
Martha non aveva seppellito la scatola molto in profondità. Non ebbi bisogno di scavare a lungo per trovarla. La tirai fuori e la posai sul terreno. Era una comunissima scatola da scarpe, proprio come la mia – e per un attimo sentii il peso della mia coscienza che mi ordinava di rimetterla a posto. Spazzai via lo sporco, con le dita che grattavano sul coperchio. Tutto intorno, le ombre sembravano farsi più vicine, come per spingermi a proseguire. Rapidamente, prima di cambiare idea, sollevai il coperchio.
Fu l’odore a colpirmi per primo: una puzza dolciastra di marcio. Mi coprii la bocca per impedirmi di vomitare. Nella scatola c’era una carcassa marroncina contorta, ricoperta di sangue secco. Osservai la creatura maciullata e deglutii con forza. Avevo sempre sospettato che Martha fosse stramba, e ora ne avevo la certezza. Ecco le prove. Aveva ammazzato il suo porcellino d’India. Aveva preso un martello e gli aveva spappolato il cranio. Eccolo lì, con pezzettini d’osso che spuntavano dalla pelliccia. Fui presa di nuovo dalla nausea.
Cercando di controllarmi, presi il coperchio tra il pollice e l’indice, lo rimisi al suo posto e riposi la scatola nella buca. La tomba che avevo disturbato mi guardava a bocca spalancata. Ora avrei dovuto riempire di nuovo la fossa: Martha sarebbe potuta tornare. Ma mi girava la testa. Mi appoggiai sul fianco e vomitai.
Mentre mi rialzavo tremando, mi pulii la bocca col dorso della mano. Arretrai di un passo. Non avevo intenzione di toccare ancora quella sepoltura. E comunque Martha doveva sapere che era stata scoperta. Perché mai avrebbe dovuto pensare che il suo segreto fosse al sicuro? Risalii la china della conca domandandomi cosa avrebbe detto Gabriella se avesse saputo. Avrebbe disprezzato Martha tanto quanto me?