17.

Un pezzo di carbone si smosse e ruzzolò fuori dal camino. Lo osservai bruciare. Quanto ci avrebbe messo a incendiare il tappeto?

Se la casa fosse andata a fuoco, sarei tornata ad Atene, ignorando le mie responsabilità. Avrei dimenticato anche tutte quelle persone che si impicciavano, si intromettevano e volevano giudicare. Non c’era bisogno che mi dicessero cosa pensavano. Lo leggevo nei loro occhi. Come la signora Henderson. E Martha, che non aveva nemmeno cercato di nascondere la sua avversione nei miei confronti.

Passato il temporale, mi ero affrettata a tornare a casa, rabbrividendo; mi ero levata i vestiti bagnati e mi ero avvolta in una coperta. Nel secchio era rimasto un po’ di carbone, quindi l’avevo ammonticchiato nel camino e avevo acceso il fuoco. Poi ero andata a prendere una bottiglia di vino.

Ora, sorseggiandolo, ripensai alle parole di Martha, a come mi aveva fatto sentire. Aveva mostrato il suo vero volto – poco ma sicuro – dandomi la colpa per aver perso Gabriella. Era come se Martha non avesse mai smesso di pensare a lei. Forse era così. Ricordavo che aveva voluto così disperatamente essere amica di Gabriella. E per un po’ mia sorella l’aveva assecondata: incoraggiandola, trascorrendo del tempo con lei. E quella lettera? Chiusi gli occhi e la mia mente tornò indietro. Passai al setaccio i fatti, separandoli dalle emozioni.

La fiera del villaggio. Martha aveva parlato di un uomo che aveva dato una lettera a Gabriella. All’inizio non ci avevo creduto, preferivo pensare che volesse solo farmi imbestialire. Poi avevo visto la lettera in mano a Gabriella e non avevo più potuto negare l’evidenza.

Il tizzone bruciava. Trovai fra gli attrezzi le pinze di mio padre e lo ributtai nel fuoco. Papà. L’uomo con il cuore spezzato. Mi sarebbe piaciuto vederlo resistere un po’ più a lungo – almeno per me.

Più tardi uscii, chiudendomi delicatamente la porta alle spalle. Attraversai il villaggio, seguendo la luce fioca dei lampioni e della luna. Le cose avevano un aspetto diverso, ora. I colori erano stati sottratti dall’oscurità, restavano solo sfumature di nero e di grigio. Le case si ingobbivano come anziani spossati, gli alberi e le siepi tremavano nell’aria fredda. Mi ripiegai su me stessa, serrando le dita per oppormi al gelo, continuando ad avanzare. Erano i miei ricordi che avrei voluto congelare, incrinare e frantumare in mille pezzi che non sarei mai riuscita a ricomporre.

Mi ritrovai in Acer Street, con la mente che rimetteva a fuoco mentre mi guardavo intorno, ricordando Tom, un fantasma nella nebbia che si spostava sferragliando con il suo carrello da spazzino, o Gabriella, che gli sfrecciava accanto per tornare a casa.

Ora c’era soltanto il silenzio, e il lento frusciare del vento tra gli alberi.

Nella maggior parte delle case le luci erano accese. Quella di Martha era immersa nell’oscurità, un blocco di pietra incombente. Riuscivo soltanto a pensare all’odore che c’era all’interno: tabacco e fiori. Un giardino pieno di rose, digitale e garofani. Martha doveva aver ereditato il pollice verde di sua madre, perché nel piccolo fazzoletto di terra lì di fronte l’erba era tagliata, le bordure ordinate, la terra vangata; vasi di fiori freschi erano allineati lungo il vialetto.

Chissà dov’era: già a letto alle nove, o al piano di sotto al buio, a fissare la TV? Si era mosso qualcosa dietro il vetro al piano superiore, o era un’illusione ottica, uno sfarfallio del niente?

Per tutti quegli anni Martha era rimasta al villaggio, viveva la sua vita, il solito tran-tran, la sua piccola routine. Come mi era sembrato tutto patetico e miserabile... Ma ora, mentre tornavo a casa, mi chiedevo: la mia vita era stata forse migliore?

Avevo preferito tenermi alla larga per un po’ dal negozio, compatendomi da sola. Ricevetti altri biglietti di condoglianze da persone che non conoscevo e che mi dicevano quanto avevano voluto bene a mia madre. E poi arrivarono i certificati che avevo richiesto. Diedi loro un’occhiata e li posai sulla mensola del camino insieme ai biglietti: non mi sentivo in vena di dedicarmi agli alberi genealogici.

Alla fine tornai alla Casa di Flores e recuperai il tempo perduto, lavorando sodo con Rita e Mattie. Spostavamo le cose di Edward Lily, decidendo quali dare in beneficenza, quali vendere o tenere in negozio. Diversi oggetti erano inutilizzabili: soprammobili rotti, mobili graffiati, teiere con i coperchi sbeccati. Altri raccontavano di Edward Lily, dei suoi viaggi, del suo interesse nel collezionare cose. Mi soffermai su un samovar russo, l’ottone reso opaco dal tempo; un tappeto afghano sbiadito; una fila di elefanti indiani intagliati nell’ebano.

Si presentò Dawn, come le avevo suggerito. Rimase lì a lungo a tirare su col naso e ad asciugarsi gli occhi, facendo su e giù, prima di scegliere una fruttiera a forma di pesce. Ci scambiammo i numeri di telefono e la invitai a passare o chiamare se avesse desiderato prendere qualcos’altro. Quando stava per andarsene, comparve David. Si era cambiato e non indossava più i vestiti da lavoro, portava dei jeans puliti e una camicia blu che gli si spiegazzava di traverso sul busto. «Ultima controllata in giro?» disse, tirando fuori un mazzo di chiavi e facendomele tintinnare davanti.

«Cos’è rimasto?»

«Qualche attrezzo da giardino nel capanno e un paio di scatoloni messi insieme da Dawn. Oh, e la sedia.» Sorrise. «Potrei portarli qui, ma se vuoi venire a controllare che sia tutto in ordine...» Tacque e distolse timidamente lo sguardo. «Mi farebbe piacere la tua compagnia.» Sentii salire il rossore mentre annuivo e mi voltai, andando a sbattere contro un tavolino da gioco rivestito di panno verde. Imprecai tra me e me e mi avviai verso il retrobottega per dire a Rita e a Mattie dove stavo andando. Anche loro avrebbero fatto una pausa, così proposi di rivederci alle due.

Per qualche minuto David guidò in silenzio. Poi menzionò la Casa di Flores e mi sorpresi a rispondergli, parlando liberamente dell’attività di mio padre. Gli domandai della sua carriera di sgombratore di case. Aveva cominciato prima o dopo il Giappone?

Fece una pausa, poi precisò: «All’inizio ero un insegnante di storia».

«Perché hai cambiato lavoro?»

«Mia moglie è morta.»

«Oddio. Mi dispiace.»

«Non preoccuparti», disse, sterzando per evitare un fagiano. «È passato tanto tempo e non avevamo bambini.» Faceva differenza o era soltanto una cosa che si diceva, un diversivo, uno stratagemma per porre fine alle domande? Avevo più volte fatto lo stesso anch’io. Ma David stava ancora parlando, mi raccontava di sua moglie. «Beth è stata malata per parecchio tempo. Ho smesso di lavorare per prendermi cura di lei e, alla fine, non me la sono sentita di riprendere. Ho venduto la casa di Londra e me ne sono andato in Giappone – quella è stata la parte catartica che ti dicevo –, e quando sono tornato è saltata fuori questa opportunità, un conoscente di un conoscente, sai come vanno le cose. Siamo stati in affari per un po’ e poi mi sono messo in proprio.»

«Perché qui?»

«Dito sulla cartina, un po’ come per il Giappone.»

Ci fu un lungo silenzio. Cominciai ad arrotolare e srotolare la tracolla della borsa, finché David non mi domandò del mio lavoro. Gli parlai dell’insegnamento ad Atene e poi, come per giustificarmi con qualcosa di più interessante, degli articoli di viaggio che scrivevo.

«E in Inghilterra?» disse lui.

«Avevo un’attività. Un negozio a Paddington.»

«Che cosa vendevi?»

«Articoli da regalo, prevalentemente indiani.»

«Perché?»

«Viaggiavo, ho riportato a casa gioielli, sciarpe, cose del genere... Le ho vendute e poi mi sono allargata.»

Era stata un’idea di mia madre. Ero tornata da Delhi con orecchini d’argento e bracciali a forma di serpente con pietre preziose al posto degli occhi. «Bellissimi, Anna», mi aveva detto. «Potresti venderli.» E così avevo fatto. Ero tornata in India, avevo comprato arazzi e bassorilievi. Avevo affittato una bancarella al mercato e, quando si era liberato un negozio a Paddington, avevo fatto un giro in quel guscio trascurato e avevo avuto una visione.

La mamma mi aveva prestato i soldi. Sospettavo che lo zio Thomas l’avesse incoraggiata. Era preoccupato per la distanza che si era creata fra di noi. «Prova», mi diceva. «Valle un pochino incontro.» Aveva enfatizzato quel pochino, perché sapeva bene che, indipendentemente da quanto mi impegnassi per andare incontro a mia madre, non avevo comunque mai ricevuto nulla.

«Perché hai smesso?» chiese David, irrompendo nei miei pensieri.

«Soldi», feci io. «Nessuno a Paddington voleva articoli da regalo indiani. Troppo da hippy.» Lui rise. «Le cose sono andate avanti comunque per cinque anni, e il fallimento mi ha fornito una scusa per viaggiare ancora.»

«E la Casa di Flores? Pensi di tenerla aperta?»

«Oddio, no! Non potrei mai farlo.» Avevo parlato senza pensare e gli lanciai un’occhiata per vedere se se ne fosse accorto, ma guardava avanti, concentrato sulla strada. Ci riprovai. «Quello che voglio dire è che mi sembrerebbe un passo indietro.»

A quel punto si girò e mi squadrò rapidamente. «So cosa intendi. Non ha senso. Anche se tornare non è una cattiva idea, prima del commiato.» Si accigliò. «È la parola giusta?»

Mi strinsi nelle spalle. «Sì, probabilmente sì.»

Quando ci rimisi piede, il cottage mi sembrò solitario e freddo. Non ne fui sorpresa, però, visto che tutti gli averi di Edward Lily erano spariti. Avrei voluto chiedere a David come si sentiva quando lavorava nelle case vuote, dopo che anche l’ultimo ricordo era stato cancellato, ma si era avviato verso il salotto con il suo cruciverba e si era accomodato sulla sedia a dondolo.

Girovagai al piano di sopra, accarezzando le pareti con la punta delle dita. Le stanze erano vuote, come David aveva anticipato. Mi soffermai in ciascuna, assorbendo la loro malinconia. Mi immaginai Lydia, quando l’avevo vista per la prima volta dietro il vetro della finestra. Voleva fuggire o era contenta di stare là dentro a guardare fuori? Anni fa pensavo che Gabriella fosse lì, nascosta, o addirittura prigioniera. La mia mente era stata piena di aspettative, e ora quella speranza era svanita. Forse era proprio quello il senso: era l’ultimo addio, o il commiato, come aveva detto David. L’ultima visita a una casa che aveva avuto importanza per me per nessun’altra ragione se non la fantasia.

Di sotto, un paio di scatoloni erano abbandonati sul pavimento della cucina. Dovevano essere gli oggetti radunati da Dawn. I beni di Lydia, le cose che lei e la sorella di Edward Lily avevano lasciato. Mi accovacciai e sollevai il coperchio del primo. In cima c’era un pezzo di stoffa ripiegata. Aprendola scoprii che era uno scialle di raso nero con delle rose rosse. Era sbiadito e sfilacciato qua e là, e mancava qualche nappina, ma un tempo doveva essere stato magnifico. E poi mi ricordai di Lydia che indossava qualcosa di simile in una fotografia, in piedi su uno dei ponti di Plaza de España.

Mi accostai la stoffa al viso e ne respirai l’odore. Nessuna traccia di profumo, solo la fragranza stantia del passato. Tenendo lo scialle in grembo, guardai ancora nello scatolone. Altri vestiti. Ora mi parve imbarazzante frugare tra i vecchi abiti di Lydia. Erano molto femminili, a differenza di tutto quello che avevo mai avuto nel mio guardaroba: leggeri e fluttuanti, lunghi e di colore chiaro.

Nel secondo scatolone c’erano libri per bambini, gli stessi titoli che un tempo avevano riempito la libreria mia e di Gabriella. Tirai fuori Roald Dahl, Enid Blyton e alcuni classici: I figli della ferrovia, Piccole donne, L’isola del tesoro. Si vedeva che erano stati letti più volte, avevano le orecchie alle pagine e appunti nei margini. Ero sorpresa. Lydia non li aveva voluti. Anche se in fondo, pensai, avrebbe avuto senso tenerli? I miei erano in soffitta. Me ne ero dimenticata finché non ci avevo guardato. Viaggiare leggeri. Questo era il mio stile di vita. Tuttavia, mi feci un appunto mentale di controllare che questi non fossero rimasti lì per errore. Continuai, tirando fuori un ventaglio di legno con la figura di una ballerina di flamenco dipinta a mano, una sciarpa di seta, un fazzoletto ricamato. Sussurri dal passato. Scintille dalla vita di Lydia. Che accesero l’aria.

Un rumore di passi nel corridoio mi fece sobbalzare. Sentendomi in colpa, trattenni il respiro e restai in ascolto. La porta d’ingresso si aprì. Probabilmente era David che andava al furgone. Ora ero sola, il cottage sembrava stranamente silenzioso e tranquillo. Tornando a occuparmi degli scatoloni, immaginai le esortazioni di mio padre: “Se guardi con attenzione, troverai un fossile. E se lo estrai con delicatezza, scoprirai che è una gemma”. Accarezzai di nuovo lo scialle e me lo avvicinai al viso. Mi apparve una vivida immagine di Lydia e, tutto d’un tratto, capii perché papà si emozionava tanto ogni volta che sgomberava una casa. Riportava indietro le vite di quelle persone, per il più fugace degli istanti. Era un modo per prendersi gioco del tempo. E anche per riportare alla luce i segreti.

Esaminai il resto degli oggetti: flaconi di profumo mezzi vuoti, uno specchio con la cornice ammaccata, un portagioie a forma di cuore con dentro degli orecchini e braccialetti ossidati. Cose appartenute a un’adolescente e ora abbandonate nel cottage. Dawn mi aveva detto che Edward amava portare dei dolcetti a sua figlia. Cibo, perché lei non mangiava. Forse le portava anche dei regali. Un modo per suscitare in lei interesse per la vita.

Sentii fischiare e corsi alla finestra. David stava attraversando il prato con le mani in tasca. Mi salutò allegramente con la mano. Io gli sorrisi, e lo osservai farsi largo tra l’erba alta in fondo al giardino e infilarsi dietro un graticcio, scomparendo nella parte più lontana, dove probabilmente sorgeva il capanno. Sporgendomi, strizzai gli occhi, facendo un sospiro di sollievo quando lo intravidi.

Scuotendo la testa, mi rimproverai per essere stata melodrammatica e tornai al mio lavoro. La gran parte del contenuto del secondo scatolone era sparso sul pavimento, ma dentro c’erano ancora alcuni libri, due bambole di porcellana e dei souvenir dalla Spagna: un paio di nacchere di legno, una cartolina con la Vergine della Macarena. Tastai con la mano all’interno della scatola per controllare che non ci fosse altro, e trovai un pezzo di carta. Intonso. Punteggiato di macchioline marroni lasciate dal tempo.

Girai il foglietto senza aspettarmi di trovare niente, invece c’era un disegno. Un ritratto. Un volto. Fui attraversata da un brivido freddo. Poteva essere vero? Chiusi gli occhi e li riaprii.

Era Gabriella. Il viso era più pieno, la bocca non proprio precisa, i capelli troppo corti, ma era lei.

Mi sedetti sul pavimento. Sentii il freddo della pietra penetrare attraverso i jeans. Tremando, tenni stretto il disegno, fissandolo finché non mi si annebbiò la vista. Una domanda mi risuonava nella testa. Perché tra le cose di Lydia c’era un ritratto di Gabriella?

Sobbalzai quando udii bussare alla finestra. David mi stava sorridendo, e gesticolava indicando la porta sul retro. Mi alzai, cercando di mettere a fuoco, ma avevo le gambe molli e dovetti reggermi mentre raggiungevo la porta e giravo la chiave.

«Va tutto bene?» Il suo sorriso si trasformò in una smorfia preoccupata. «Non sembri molto in forma.»

«Sto bene», dissi, sforzandomi per rispondere. «Un po’ di mal di testa.» Mi strofinai la fronte, quasi per darne una prova.

«Ho dell’aspirina nel furgone.»

«È tutto a posto, grazie. Devo solo andare a casa.» Gli voltai le spalle e tornai allo scatolone. Stringevo ancora il disegno. Inginocchiandomi, lo riposi all’interno con mano tremante.

David indicò la scatola. «Vuoi che la porti io?»

«Ce la faccio», replicai frettolosamente. «Puoi prendere l’altra?»

«Certo.» Mi passò di fianco e il suo braccio sfregò il mio. Lo guardai. I nostri visi erano vicini, i suoi occhi scuri e interessati. Sentii il calore della sua pelle e provai un improvviso impulso a dirgli cosa avevo trovato. «Sicura di stare bene?» disse.

Quella sensazione passò. Annuii e dopo aver velocemente rimesso tutto nello scatolone mi rialzai. Ma sentivo lo sguardo di David su di me, e la sua delusione. Doveva aver capito che stavo nascondendo qualcosa. Rimettendo rumorosamente il coperchio, soffocai le mie emozioni. Sollevai la scatola e mi avviai fuori dalla casa. David mi seguì fino al furgone senza commenti.

Per tutto il viaggio di ritorno restai con il mento appoggiato alla mano. A suo tempo avevo cercato, senza sapere cos’avrei trovato. Avevo percorso il villaggio in lungo e in largo, fatto domande alle persone, controllato i loro alibi. Mi ero intrufolata nel Lemon Tree Cottage in cerca di Gabriella, convinta che Edward Lily l’avesse portata via. Ma avevo rinunciato. Anche questa volta, quando ero tornata, ero poco propensa a cercare ancora.

Com’ero stata stupida a dubitare di me stessa, a credere che gli indizi fossero ormai svaniti da tempo. Dovevo immaginarlo che c’era qualcosa che era sfuggito alla polizia. Che era sfuggito a me. Ed eccolo qua, sepolto in uno scatolone in casa di Edward Lily. Un ritratto di Gabriella.

Chiusi gli occhi, cercando di trovarvi un senso, ma la spiegazione non arrivò.