5.

La porta si aprì, facendo tintinnare la campanella. Lettere e giornali scivolarono sul pavimento. Avanzai, chiudendomela alle spalle. L’oscurità mi avvolgeva come un sudario.

La Casa di Flores: un nome pomposo per un negozio di oggetti di seconda mano. L’aveva scelto papà, orgoglioso dell’impresa che aveva costruito da zero. Aveva cominciato a diciotto anni, risparmiando per acquistare il camioncino arrugginito con cui trasportava in discarica la spazzatura della gente.

Ora il negozio odorava di polvere e di chiuso, con qualche traccia di tabacco. Odorava di mio padre e di mia sorella, di sogni perduti e di dolore. Sollevai la tendina della porta e la luce filtrò. Il locale era disordinato come sempre; le pareti apparivano come un mosaico di quadri appesi a casaccio, senza badare al tema. Il Modigliani era ancora lì. Invenduto. La ragazza con gli occhi a mandorla. Per un istante un brivido percorse l’aria, mentre mia sorella mi passava accanto piroettando. Rievocai il suo viso e lei che ballava, ridendo, mentre papà dietro il bancone puliva una lampada a olio con precisione maniacale, trattandola come un calice sacro.

Affrontare i fantasmi, i demoni e il resto del loro seguito era il modo migliore per esorcizzarli. Ci provai, dunque, esaminando cautamente ogni parte del negozio: il bancone con il computer datato e il telefono datato; la porta che dava sul retrobottega; le sedie – all’apparenza antiche – impilate contro il muro; i tavolini elaborati che invadevano il tappeto; gli animali impagliati e gli specchi con il bordo dorato appesi alle pareti. E la vetrina, con i vasi e gli oggetti di vetro impolverati, le posate d’argento ossidato, le lampade sbeccate e i candelabri. Era come ritrovarsi in una chiesa o in una cripta: la stessa immobilità, lo stesso silenzio.

Dopodiché tornai alla porta d’ingresso, raccolsi la montagna di lettere e giornali e appoggiai tutto sul bancone. Scelsi una busta a caso. E mi fece sentire peggio. Era una bolletta della luce. Rossa. Significava che ci avevano tagliato la corrente? Ci? A noi? Ma di che cosa stavo parlando? Non c’era nessun noi. C’ero solo io. Tirai fuori gli occhiali da lettura, aprii altra posta e la organizzai in mucchietti: bollette, pattume, fatture.

Fuori si fermò una Mini rossa e bianca. Rita sgusciò fuori e marciò verso l’entrata. Sembrava pronta a mettersi all’opera e all’improvviso mi assalì il timore che si aspettasse che aprissi il negozio: gli affari sono affari, come al solito. «Buongiorno», mi disse entrando. «Hai dormito bene?» E, prima che potessi rispondere, proseguì, incupendosi. «Ma certo che no. Che domanda stupida.»

Rita era il genere di persona che si sarebbe accampata sul divano, se avesse pensato anche solo per un secondo che era quello di cui avevo bisogno. Le dissi che avevo dormito bene.

Sembrò soddisfatta e si avvicinò alla posta sul bancone. «Martin e Martin», commentò, tamburellando con le dita su un mucchietto. «Ecco di chi hai bisogno. Gli avvocati di High Street.»

Sentii il cappio della responsabilità farsi più stretto: il testamento, la casa, il negozio e tutto quello che conteneva. Come avrei fatto a occuparmene? Quel disordine, quella quantità colossale di roba... Sentivo la mancanza del mio semplice appartamento di Atene, del mio lavoro di insegnante di inglese, per nulla complicato. Delle persone che non sapevano niente del mio passato. “Tre o quattro giorni”, continuavo a ripetere nella mia testa.

«Comunque sia», riprese Rita, prendendo una busta e rigirandosela fra le dita. «Ho pensato fosse meglio dirtelo.» Si fermò, aggrottando le sopracciglia. Mi lanciò un’occhiata e distolse lo sguardo prima di proseguire. «Come stanno le cose.»

«Ho un lavoro ad Atene», replicai rapidamente. «Degli allievi. E un appartamento. Devo tornare là. L’idea di trasferirmi qui al villaggio o di tenere aperto il negozio è del tutto fuori questione. Venderò, senza ombra di dubbio. A proposito, mi domandavo...»

«Ma certo», mi interruppe lei. «Sapevo che avresti detto così. No, stavo pensando più allo...» Nel suo tono c’era un nervosismo che non avevo mai sentito prima. «...sgombero della casa.» Posò la busta e si spostò vicino alla finestra.

«Lo sgombero della casa?»

Fece una pausa. «Edward Lily.»

La luce fuori si abbassò di colpo. «Che cosa intendi?»

«Edward Lily», ripeté lei, allungandosi per prendere un vaso dalla vetrina. «Le sue cose dovrebbero arrivare qui fra qualche giorno.» Si voltò verso di me, con un’espressione al contempo dispiaciuta e colpevole. «Vedi, è morto qualche mese prima di tua madre. Il suo legale ha disposto che il contenuto del Lemon Tree Cottage venisse portato qui. A quanto pare se ne sta occupando la sorella di Lily, ma i contatti con noi li tiene lo studio Martin e Martin. Credo che lei abbia preso le cose che le interessavano, e del resto dovremmo... occuparcene noi. Sembra che tua madre si fosse già accordata con Edward Lily. Voglio dire... prima di morire.» Si fermò. «Va tutto bene?» Ora sembrava preoccupata.

Scossi il capo. No, non andava tutto bene. Edward Lily. Un altro nome dal passato. E, come Tom, un altro uomo indagato per la scomparsa di mia sorella. Per qualche tempo ero stata ossessionata da lui e avevo spiato la sua casa, sua figlia. Una volta mi ero persino intrufolata dentro. E la mamma... Sapeva che lui era un sospettato. Perché mai avrebbe accettato l’incarico di sgomberare la sua casa? Perché mai avrebbe voluto rivangare quei ricordi? Perché di certo questo è ciò che sarebbe successo, se si fosse immersa nelle cose appartenute a quell’uomo. E poi lei aveva sempre odiato gli sgomberi perché avevano portato via così tanto tempo a papà.

Rita mi fissava, in attesa di una risposta. «Non capisco perché la mamma avrebbe dovuto accettare questo lavoro», sbottai alla fine. «E comunque, pensavo di sbarazzarmi della Casa di Flores, non di ritrovarmi con del lavoro in più.»

Il sorriso mesto di Rita mi fece sentire colpevole, nonostante tutto. «Va bene», disse. «Lo capisco.»

Corrucciata, mi immersi nei ricordi. Edward Lily se n’era andato dal villaggio un anno dopo la scomparsa di Gabriella. O erano diciotto mesi? In ogni caso non avevo idea che fosse tornato. «Pensavo che il Lemon Tree Cottage fosse vuoto», dissi, pensando a voce alta.

«Lily si trasferì», rispose Rita, «ma non vendette né svuotò mai il cottage. È tornato, circa un anno fa, per stabilirsi qui definitivamente.» Fece una pausa e giocherellò con il vaso. «So di chiederti molto, ma era qualcosa che tua madre voleva fare, e... be’, le avevo promesso di aiutarla.»

«Ma non capisco che interesse potesse avere.» Fissai impotente l’orologio rotto di mio nonno come se potesse accelerare la mia capacità di comprensione. Il negozio era pieno di cose rotte. Cosa avrei dovuto fare con tutta quella roba? E, sapendo com’erano gli sgomberi, mi resi conto che per finire ci sarebbero voluti più di tre o quattro giorni. Avrei potuto restare bloccata al villaggio per settimane.

Quello era il momento di chiedere a Rita se fosse disponibile a supervisionare tutto quanto dietro compenso, ma mi stava osservando, le labbra schiuse come se stesse trattenendo il fiato, in attesa della mia risposta. Dubitavo che avrebbe acconsentito. Pensai che, se mia madre aveva accettato lo sgombero, il minimo che potevo fare era rispettare i suoi desideri. E Rita, naturalmente, era convinta che fosse importante. «Se la mamma ha accettato, immagino che...» attaccai cautamente.

Rita mise giù il vaso, visibilmente sollevata. «È una giusta decisione. Ti farò sapere esattamente quando andrà fatto. A tua madre avrebbe fatto piacere. Era molto fiera di te, Anna. Diceva che avevi un dono, un occhio per le cose belle.»

«Be’...» Mi bloccai, incerta sulla risposta da dare, anche se tendevo a non crederci e a domandarmi perché mia madre non me l’avesse mai detto di persona.

Rita mi lasciò dichiarando di dover andare a una lezione d’arte. La osservai dalla vetrina, mentre mandava su di giri il motore e mi salutava con un ampio gesto della mano, allontanandosi sulla sua auto. Nonostante l’affetto che provavo nei suoi confronti, mi domandai perché mi ero arresa. Rita era così. Risoluta. Persuasiva. Con il controllo della situazione. E con una punta di ricatto emotivo.

Sulla strada di casa mi fermai alla cooperativa e comprai un pasto preconfezionato – pollo jalfrezi – e una bottiglia di vino rosso. Mi ricordai solo alla cassa che il vecchio microonde della mamma aveva tirato le cuoia anni prima.

La casa era fredda, nonostante il riscaldamento. Buttai le borse in cucina, alzai il termostato di una tacca e mi avviai verso la stanza della mamma. Avrei potuto cominciare con le sue cose. Cercando di non pensare all’album di ritagli nel cassetto, mi misi a sedere al tavolino da toilette e aprii il suo portagioie. Mi soffermai sulle cose familiari: orecchini d’ambra a forma di lacrima, un braccialetto d’oro, un filo di perle. Una spilla di zaffiro.

In un astuccio di velluto c’era una collana con un ciondolo di smeraldo. La tirai fuori e la sollevai alla luce. Cercavo di ripensare al passato. L’avevo mai vista addosso alla mamma? Adoravo guardarla quando si preparava per andare in qualche posto speciale, ma questa non riuscivo a ricordarmela. Sospirai, domandandomi quante altre cose avessi dimenticato.

Fuori cominciava a fare buio e, anche se erano soltanto le cinque, scesi di sotto, scaldai il pollo in una padella e mi versai un bicchiere di vino. Mentre mangiavo in fretta, in piedi vicino al lavello, ripensai allo sgombero della casa. Il Lemon Tree Cottage. Cercai di figurarmelo, così com’era stato, ma i ricordi, a lungo abbandonati, erano confusi. Chiusi gli occhi e mi costrinsi a visualizzarli e, molto lentamente, riaffiorarono una sagoma e uno sfondo. Il giardino incolto pieno di creature striscianti; i vasi rotti; il cottage di pietra con le finestre scure, chiuse, e quella repentina macchia d’arancione. E infine io, dodicenne, che scappavo da lì. Il rimbombo dei miei passi rapidi sul terreno.

Più tardi sgombrai gli armadietti della cucina: tirai fuori lattine e pacchetti e li misi da una parte. In fondo c’era un barattolo di gelatina di mele fatta in casa. Rimasi a fissare la calligrafia di mia madre sull’etichetta finché lo sguardo non mi si annebbiò e il suono del ribollire in una pentola e il profumo terroso della frutta non riempirono la cucina.

Fui disturbata da un leggero bussare alla porta. Sbirciai dallo spioncino e vidi Rita. Il suo viso era serio e triste, con la bocca incurvata all’ingiù; aveva le braccia incrociate sul petto, si afferrava i gomiti, ripiegata su sé stessa. E compresi. Era una donna che aveva perso una buona amica, una donna in lutto.

Aprii la porta e la tristezza si trasformò in un sorriso. Sciolse le braccia in un gesto di benvenuto, come se sulla soglia ci fossi io, come se fossi io a farle visita. «Ho pensato che fosse meglio avvertirti che i traslocatori hanno chiamato. Il primo carico di cose di Edward Lily arriverà domattina in negozio.»

«Di già?»

«Lo so. Mi spiace per il poco preavviso.»

«Non c’è problema», dissi dopo un istante di esitazione. «Ci sarò.»

«Ne sei sicura?»

«Sì, certo.» Non si poteva tornare indietro.

Rimanemmo lì, a disagio, ancora per un momento. Avrei dovuto invitarla a entrare? Un volto amico. Una persona che conosceva il mio passato. Eppure, nonostante quell’eventualità mi attirasse, ripiegai i miei sentimenti e li misi via. Inoltre ero ben consapevole della bottiglia di vino vuota per tre quarti e del fatto che la mia testa si stesse annebbiando – un bicchiere in più avrebbe concluso la faccenda. Quindi, quando mi domandò se volevo un po’ di compagnia, la ringraziai, ma scossi il capo e rimasi a guardarla mentre si allontanava lungo il vialetto.

La notte era limpida e fredda, il cielo un velluto ricamato d’oro e argento. Il tessuto ricamato del cielo. Sorrisi ironicamente pensando a quanto Yeats mi avesse appassionato da giovane. Avevo fatto parecchia fatica a capire le sue poesie, e poi, all’improvviso, mi era sembrato tutto chiaro. “Se anche il resto potesse funzionare così!”

Un movimento oltre il vialetto, un brivido tra le foglie. Aguzzai la vista, in cerca di una sagoma fra le ombre. Era un sospiro o il rumore dei rami smossi? Diedi una voce. «C’è qualcuno?» Nessuno rispose. «Rita?» La notte era immobile. Un latrato. Una volpe. Qui le volpi un tempo dilagavano, si appostavano in cerca di cibo. La signora Henderson, nella casa accanto, aveva avuto dei polli finché, una notte, non li aveva ritrovati con la gola squarciata. Era corsa da noi gridando all’assassinio. Gabriella aveva detto sottovoce che era stata la signora Henderson stessa. Era una strega, no? Lo sapevano tutti. Io suggerii che fosse stato Brian, il suo figlio dall’aria losca.

Tornai agli armadietti, lavoravo cercando di chiudere la mente, di non pensare all’enormità del compito. «Un passo alla volta», ripeteva sempre papà quando era alle prese con lo sgombero di una casa. «Scegli una stanza. Dividila in sezioni. Scegli una sezione. Dividila in momenti che compongono una vita.»

Vuotai le ultime gocce di vino nel bicchiere e, quando finì anche quello, cercai finché non trovai una bottiglia mezza vuota di Cinzano nella credenza. Ne bevvi un po’, il gusto mi fece storcere la bocca, ma funzionò. Gli spigoli del mio conflitto si addolcirono.

A quel punto, indirizzai le mie energie all’armadio nel sottoscala. Frugai, tirando fuori giochi da tavolo e videocassette, nastri e rotoli di pellicola. Il proiettore era lì dietro, insieme al treppiedi e allo schermo arrotolato e avvolto nella plastica. D’impulso, presi tutto quanto e sistemai l’attrezzatura in salotto, caricando una pizza a caso e lasciando che il filmato scorresse in silenzio. Le immagini non erano in sequenza. Lì Gabriella scalciava in una carrozzina argentata, e un momento dopo eravamo più grandi, alla fiera del villaggio, poi davamo da mangiare ai piccioni in Trafalgar Square e infine eravamo di nuovo al parco a guardare un match di lotta su un ring improvvisato. La cinepresa saltava da mia madre che si sistemava una ciocca di capelli dietro l’orecchio al resto della folla con il suo tifo muto.

Riconobbi facce i cui nomi erano scomparsi dalla mia memoria da un’eternità. E poi c’eravamo io e Gabriella, abbracciate. Gabriella sogghignava imbronciata, facendo un movimento che somigliava a un inchino mentre io osservavo, impacciata, da dietro gli occhiali del servizio sanitario nazionale. Gabriella aveva i capelli lisci e non era truccata, quindi doveva essere prima che si innamorasse di Siouxsie. Un anno, magari due, prima che sparisse.

La cinepresa zumò, tagliandomi fuori dall’inquadratura. Gabriella aveva distolto lo sguardo e poi si era voltata di nuovo, con un sorriso timido e incerto. A quel punto mio padre doveva essersi allontanato, perché la cinepresa sobbalzava in una panoramica dell’erba. Aveva superato il cedro, sceso gli scalini, costeggiato il lago. Un cigno aveva spiccato il volo con un lento battito d’ali. Guardai i suoi volteggi in silenzio, avvolta dal ronzio della bobina finché il filmino non si interruppe di botto.

Girovagai negli anni della mia infanzia guardando e riguardando ogni scena, bloccando le immagini nel momento in cui papà si era concentrato su Gabriella. Mia sorella stava guardando lui o qualcun altro alle sue spalle che nessuno di noi poteva vedere? Mi sporsi in avanti e analizzai le persone tra la folla. Feci ripartire il filmino e poi lo fermai di nuovo e mi riaccomodai sulla sedia. Il silenzio della casa mi innervosiva. C’era solo il rumore del vento che scuoteva il chiavistello della finestra, e i tubi che sospiravano delicatamente.

Le tende erano aperte. Lasciai correre lo sguardo sulla grande fetta di oscurità al di fuori. Chiunque avrebbe potuto avvicinarsi al vetro e vedermi lì, raggomitolata sulla sedia. Il pensiero mi mise i brividi. Avrei dovuto tirare le tende. Ma non riuscivo a muovermi. Un gelo pesante si stava diffondendo nel mio corpo, schiacciandomi, inchiodandomi alla sedia. Tornai a osservare lo schermo. E se qualcuno in quella folla avesse saputo che cos’era successo a mia sorella? E se, persino in quel momento, stessero progettando di portarla via?

Il vento picchiettò sul vetro facendomi sobbalzare. Mi voltai a guardare. E un nuovo pensiero mi stritolò. Stavolta sarei rimasta al villaggio per il periodo più lungo mai trascorso lì da anni. Non avevo scelta. E se avessi smesso di opporre resistenza? Se avessi permesso a me stessa di ricominciare da capo, cercando di scoprire che cosa era accaduto? E se fosse stato quello il momento in cui avrei dovuto scoprire la verità?

Mi feci le stesse domande, ancora e ancora. E le respinsi ancora e ancora, ribattendo con argomentazioni che mi ripetevo da secoli: era passato troppo tempo, tutte le piste erano state battute, non aveva senso tornare indietro. Ancora e ancora, le domande e le risposte sfilarono finché le contraddizioni non mi lasciarono esausta. Finché, alla fine, non smisi di pensare. E, tornando al proiettore, riguardai il filmino per l’ennesima volta.