16.

1982

«Che cos’hai fatto?» La voce della mamma vibrava di rabbia.

Alzai di scatto la testa dal libro. Gabriella era in piedi sulla porta della cucina, sembrava fosse uscita dalle pagine di «Smash Hits». I capelli pettinati all’indietro, di un nero corvino. Aprii la bocca per dirle che era fantastica, ma poi ci ripensai. Forse stava per esplodere lo scontro peggiore nella guerra tra lei e la mamma, e non volevo immischiarmi.

«Vai di sopra e lavatela via.»

«È permanente», ribatté Gabriella, picchiettandosi il mento con un dito con aria di sfida.

La mamma serrò le labbra e posò la zuppiera che stava asciugando. Scosse la testa e si voltò. Gabriella uscì dalla cucina.

Era domenica, il giorno dopo il compleanno di papà. Io avevo in programma di andare in chiesa con la mamma, come al solito. Gabriella sarebbe rimasta a casa. Papà era uscito presto, per andare non so dove. Ma l’avevo sentito dire che sarebbe tornato prima che noi uscissimo.

I programmi cambiarono. La mamma non accennò a prepararsi per la messa. Al contrario, cominciò a trafficare in vista del pranzo: aromatizzò la carne, sbatté la pastella per lo yorkshire pudding. Lavorava lentamente, affrontando ogni compito come se richiedesse tutta la sua concentrazione.

«Gabriella si è tinta i capelli», disse quando papà arrivò a casa. Lui andò di sopra senza fare commenti.

Più tardi, per la prima volta da secoli, Gabriella mangiò insieme a noi. Si era data una sistemata ai capelli e li aveva raccolti all’indietro. Immaginavo che fosse stato papà a convincerla a farlo. Forse pensava che avrebbe smorzato l’effetto, ma non c’era modo di nascondere quel cordone di capelli neri che le scivolava lungo la schiena come la coda di una pantera. Non c’era nemmeno modo di mascherare la rabbia della mamma, che si era insinuata nelle pareti e nel pavimento e contagiava tutti noi.

Durante la settimana seguente il tempo si fece nebbioso e freddo. Tutto il calore rimasto nella casa veniva risucchiato nel baratro che si era spalancato tra la mamma e Gabriella. Eppure sentivo che almeno la mamma voleva fare pace. Il suo umore stava cambiando. Si stava ammorbidendo e dimostrava i suoi sentimenti con dei piccoli doni che depositava nel piatto di Gabriella. Del burro in più sul suo toast. La schiuma del latte arricciolata nel suo porridge.

La domenica il tempo cambiò di nuovo. Ora il cielo era di un azzurro limpido, e offriva promesse che – tutti quanti lo sapevamo – non avrebbe potuto mantenere. In giardino, i rami di prugni e susini erano carichi e pesanti. E con quel cambiamento migliorò anche l’umore di Gabriella.

Eravamo fuori in giardino a raccogliere la frutta, saltavamo per tirare giù i rami, ridendo quando quelli più spessi saettavano di nuovo per aria, spedendo proiettili maturi dall’altra parte dello steccato. Correvo a piedi nudi, strillando per la sensazione data dai frutti caduti che mi si spiaccicavano tra le dita, mentre Gabriella si piegava in due dalle risate.

La mamma era grata per i nostri doni. Cinse Gabriella con un braccio e le bisbigliò all’orecchio. Gabriella si trattenne dal rispondere, ma evitò anche di divincolarsi.

Qualche giorno più tardi eravamo scese, al mattino, e avevamo trovato la marmellata che bolliva sul fuoco; la sua dolcezza appiccicosa si infiltrava fin nelle fessure e nelle cavità della casa. La mamma era al lavello, con le maniche arrotolate. Ci notò a malapena, quando passammo lì vicino per prendere i nostri zaini e qualche fetta di toast dalla griglia.

Le foglie, per strada, avevano cambiato d’abito: dal verde al marrone brunito. E il vento, indifferente alla loro bellezza, le stuzzicava fra i rami, facendole vorticare fino a posarsi sul terreno.

Oltrepassammo Tom, che spingeva il suo carrello e spazzava le foglie, muovendo le labbra in una silenziosa conversazione con sé stesso. Gabriella gli sorrise come faceva sempre. Mi precedeva, il corpo ingobbito da qualcosa di triste – i suoi segreti, immaginavo. Se solo fossi riuscita a capire di cosa si trattava! Io ciondolavo dietro di lei, ascoltando il canto degli uccelli. Mi fermai per esaminare una piuma di gazza che giaceva sul marciapiede. Quando mi chinai mi scivolarono gli occhiali, e nel raccoglierli mi resi conto che una stanghetta si era staccata. «Madre mía!» esclamai, e Gabriella sorrise una seconda volta sentendomi parlare spagnolo. Quando arrivammo al cancello decisi di approfittare del suo umore addolcito e le proposi di vederci dopo la scuola.

«Non posso», fece lei, allontanandosi.

«Perché?» le gridai, sentendo montare la delusione. Avevo desiderato così tanto che tutto tornasse come prima e il suo sorriso mi aveva fatto ben sperare.

Lei si voltò e mi rispose camminando all’indietro. «Devo vedere gente.»

Mi accigliai. Chi doveva vedere? Che progetti aveva? Restai in silenzio. Si sarebbe scocciata se avessi cominciato a fare domande. Invece mi misi a mani giunte e la pregai, sgranando gli occhi per farla ridere. Funzionò.

«Allora va bene, piccoletta. Più tardi.»

Illuminandomi in viso mi sentii pervadere dal sollievo, che mi sciolse il groppo in gola. «Dove? Al negozio? Sono secoli che non ci andiamo.»

Un’ombra passò sul viso di Gabriella. Pensavo stesse per dire di no. Invece sorrise di nuovo, anche se con fare più triste, e con mia grande sorpresa accettò.

«A che ora?» urlai, ma non mi sentì. Mi riparai gli occhi dal sole e la guardai finché non scomparve.

Dopo la scuola camminai da sola fino alla Casa di Flores. Faceva ancora caldo per essere ottobre, abbastanza caldo per togliermi il cappotto e legarmelo in vita. Detestavo il cappotto. Era di lana blu, uno scarto di Gabriella. Lei aveva un parka. Non vedevo l’ora che ne avesse abbastanza anche di quello e me lo passasse.

Quando arrivai, Rita era in piedi vicino al bancone con un nuovo taglio corto di capelli, e fui colpita da quanto sembrava più giovane della mamma. Aveva il viso liscio, mentre quello della mamma era segnato dalle rughe. «Rughe di preoccupazione», diceva lei ridendo. «Questa si chiama Anna. E questa si chiama Gabriella. Diventano più profonde a mano a mano che crescete.»

Rita mi rivolse un gran sorriso e mi salutò allegramente. «Reni», annunciò, sollevando un perfetto pacchettino bianco e agitandolo verso di me. «Lo porti tu alla tua mamma, vero?» Le risposi aggrottando le sopracciglia. Papà non se ne accorse. Aveva alzato a malapena la testa. Stava lucidando un coltello d’argento dal manico a forma di cobra. Rita se ne andò e lui rimase in silenzio, sbuffando quando gli feci delle domande a proposito del coltello.

Mentre aspettavo Gabriella mi provai un cappello di velluto con la piuma e aggiunsi uno scialle – seta nera con le nappine –, pavoneggiandomi davanti allo specchio. Ma senza Gabriella non era divertente e ormai il tramonto si stava trasformando in oscurità, i lampioni cominciavano ad accendersi. Camminai avanti e indietro per il negozio, giocherellai con i soprammobili, caricai un orologio, me lo avvicinai all’orecchio e ascoltai il ticchettio. Dov’era Gabriella? E se alla fine avesse deciso di andarsene, di scappare di casa?

Dopo un po’ uscii, bofonchiando una scusa a papà. Guardai di sfuggita nella vetrina del macellaio mentre passavo: c’era Rita, che ora indossava il grembiule e serviva dietro il bancone. Mi salutò con la mano e io la ignorai, restando a testa china e affrettandomi con le mani affondate nelle tasche del cappotto. Per tutto il tempo non feci che pensare alla valigia, mi immaginavo Gabriella che abbandonava la nostra casa.

Spalancai la porta e non trovai che silenzio. Niente sbatacchiamenti in cucina. Nessun allegro «Siete voi ragazze?». Niente, a parte il ticchettio dell’orologio a pendolo in salotto. Lasciai cadere lo zaino, aspettai che i battiti del cuore si riassestassero e mi dissi di non essere stupida. La mamma e Gabriella erano uscite. Forse c’era stato un problema a scuola oppure erano andate a fare delle compere dell’ultimo minuto. Deglutii. Le mie convinzioni erano poco solide e lo sapevo bene ma, anche se così non fosse stato, non c’era motivo di preoccuparsi. Era meglio che non ci fosse nessuna delle due, piuttosto che mancasse solo Gabriella. Controllai in cucina per accertarmene. La pentola della marmellata era sul fornello, fredda. Non c’erano segni dei preparativi per la cena. Il piano era ingombro di stoviglie sporche. Nel lavello c’erano i piatti da lavare. Che cos’aveva fatto la mamma tutto il giorno?

Era in salotto, fissava il televisore spento. C’era un odore che aleggiava nell’aria. Tabacco. Ma non quello di papà. Era più dolce. Una pipa. E il posacenere sul tavolino era stato usato. Forse lo zio Thomas e Donald erano passati a trovarla. Ma non erano lì, e non riuscivo a immaginare che fossero venuti e andati così in fretta, e senza aspettare papà. D’altra parte, la mamma sembrava troppo triste per aver parlato con uno di loro due.

«Che cos’è successo?» chiesi, inginocchiandomi accanto a lei. «Dov’è Gabriella?»

Mi guardò come se non mi riconoscesse, finché il suo viso si rasserenò e mi sorrise debolmente. «Niente, cara. Non mi sentivo molto bene. Tutto qui. Che sciocca che sono, vero?»

Le presi la mano, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Era rimasta seduta lì da sola? Lanciai un’occhiata al posacenere. No. Qualcuno era stato lì. Chi? Un vicino che aveva portato cattive notizie? Il medico che le aveva comunicato che era malata? Ricacciai indietro i miei pensieri, dicendomi di non essere sciocca. La mamma aveva di nuovo mal di testa. Tutto qui. «Ti prendo un’aspirina?» mi offrii, stringendole le dita. «O un bicchiere d’acqua?»

Lei scosse il capo e, alzandosi, mi diede un buffetto sulla spalla. «Va tutto bene. Preparerò la cena fra un momento.»

«Hai bisogno che ti aiuti?»

«No. Corri su a cambiarti. Ce la faccio.»

La porta di Gabriella era socchiusa. La spalancai. Le tende erano tirate e la stanza era buia e soffocante. Il letto era sfatto, il pigiama appallottolato sul pavimento. Mi inginocchiai col cuore che batteva forte e infilai le mani sotto il letto. Tastai nell’oscurità senza riuscire ad afferrare nulla, ma quando mi allungai un po’ di più le mie dita toccarono la superficie dura della valigia.

Grazie al cielo. Mi sedetti sui talloni, sorridendo sollevata. Gabriella non era scappata. Naturalmente. «Sei mia sorella», mi aveva detto. «Niente potrà cambiare questo.» Le sorelle rimangono unite. Qualunque problema avesse, Gabriella non mi avrebbe mai abbandonata. Probabilmente aveva telefonato alla mamma per avvisarla che avrebbe tardato, e poi era rimasta a scuola a fare qualche compito extra oppure ad aiutare un’insegnante, o magari era andata a casa di un’amica. Mi avvicinai alle scale per tornare di sotto. La mamma avrebbe saputo di sicuro dov’era. E nel frattempo mi era venuta fame e volevo cenare.

La mamma era ferma ai piedi delle scale e mi guardava da sotto in su. L’espressione assente era scomparsa. «Che cosa intendi con “dov’è Gabriella”?» chiese.

Il mio sorriso svanì. La porta di casa si aprì e la mamma si voltò. Non era Gabriella. Era papà, pallido in volto e con l’aria stanca. «Charlie Ellis», disse. «Era al pub a sbraitare. Ha perso il lavoro. Morte di un commesso viaggiatore, letteralmente.» Stringeva il pacchetto con i reni. «Ti sei scordata questo, Anna. Reni, da Rita.»

La mamma guardò dietro di lui. «È con te?» domandò.

Lui chiuse la porta. «Chi? Rita?»

Lei gli afferrò un braccio. «Gabriella. Dov’è Gabriella?»

Una ruga di preoccupazione gli increspò il viso. «Non è qui?»

«No», disse la mamma. Il tono della sua voce si stava alzando. «Anna è tornata da sola.»

Mi fissarono entrambi. «Dovevamo incontrarci al negozio», spiegai, col cuore che cominciava a battere forte.

«Quando?» fece la mamma.

«Dopo la scuola.»

«Perché non avete fatto la strada insieme?»

Esitai. «Doveva andare in un posto, prima.»

«Dove? Dove doveva andare?»

«Non lo so», risposi con un filo di voce.

«Devi saperlo, Anna. Pensaci. Rispondimi!»

«Lascia perdere, Esther», intervenne papà. «È ancora presto. Salterà fuori.»

«Ma potrebbe...»

«No. Smettila, Esther. Non serve a niente. Tornerà. Non è tardi. Pensa ad Anna.» Mi guardarono di nuovo.

Passarono alcuni istanti, poi la mamma disse: «Ho avuto visite». La sua voce era attutita, come se stesse parlando sotto il peso dei pensieri.

Il silenzio era rotto solo dalla pendola e dal pulsare del sangue nelle mie orecchie. Avevo ragione. Qualcuno era stato lì. Chi? Papà non l’aveva chiesto e immaginai lo sapesse. Facendomi segno di seguirlo, spinse delicatamente la mamma verso il salotto. «Siediti», disse. «Faccio un panino ad Anna.»

Andai con lui in cucina. Papà posò i reni sul tavolo. Il sangue filtrò dall’incarto come inchiostro rosso sulla carta assorbente. Jasper annusava l’aria, girando in tondo mentre papà si destreggiava nella confusione lasciata dal mattino, cercando qualcosa che potessi mangiare. Niente pane. Mi preparò un’omelette ma la fece cuocere troppo; era gommosa, e un pezzo di guscio mi scrocchiò sotto i denti. Smisi di mangiare e chiesi il permesso di allontanarmi da tavola. Lui non mi rispose, quindi uscii dalla cucina.

La mamma era al telefono, in corridoio, si arrotolava il filo attorno alla mano. «Esatto, Phyllis», stava dicendo. «Mi chiedevo se Bernadette sapesse se era stata trattenuta a scuola un po’ più a lungo.» Pausa. «Capisco. Va bene, allora. Grazie. Proverò con la madre di Nicola. Se senti qualcosa, però, mi dai un colpo di telefono? Sì. Credo che dovesse vedersi con qualcuno. Esatto. Grazie. Grazie. Ti faccio sapere.»

Mi sedetti sul primo gradino mentre lei componeva un altro numero: sentivo il mio corpo raggelarsi di fronte all’allarme nella voce della mamma. Nella mia testa c’era solo una domanda. Dov’era Gabriella?

I colpi alla porta mi svegliarono. Lottai per liberarmi dal sogno che stavo facendo e guardai l’orologio. Le dieci di sera. Avevo freddo. Mi ero addormentata sopra le coperte con ancora indosso l’uniforme della scuola. Perché la mamma non era venuta da me, a dirmi di prepararmi per andare a dormire? Non ero mai stata abbandonata così, prima d’allora. E poi ricordai. Gabriella non era tornata a casa. Forse ora c’era, ed erano tutti troppo occupati a discutere per venirmi a cercare. Rovistai finché trovai i miei occhiali rotti e me li infilai. Le tende erano aperte. Vedevo il cielo luminoso e limpido, la luna quasi piena, ne mancava solo uno spicchietto.

Di soppiatto uscii sul pianerottolo. La porta di Gabriella era spalancata, come l’avevo lasciata, il che voleva dire che non poteva essere tornata, a meno che non fosse ancora di sotto. Però c’erano delle voci: mio padre, un altro uomo, e poi il suono di una ricetrasmittente, qualcuno parlava e l’uomo rispondeva. Mi sporsi dalla ringhiera. Nell’ingresso c’era un agente con il berretto sotto il braccio. Era il poliziotto di quartiere. L’avevo visto a volte chiacchierare con i ragazzi al parco o camminare su e giù per strada. Con casa nostra non c’entrava niente.

Sollevò lo sguardo e io lo fissai a mia volta, con gli occhi incrostati di sonno. E poi papà venne a prendermi, camminando lentamente, grigio in volto: sembrava più preoccupato di quanto l’avessi mai visto. «Gabriella non è ancora tornata a casa», mi sussurrò mentre mi prendeva per mano e mi portava di sotto.

«Dov’è?» chiesi, ma papà non rispose alla mia domanda.

«Questo è l’agente Atkins», disse.

Il poliziotto mi rivolse un sorriso amichevole. «Ciao, Anna. Mi dispiace disturbarti. Devo solo farti qualche domanda. Va bene?»

Annuii e mi pizzicai il dorso della mano, nel tentativo di stabilire se si trattasse della realtà o di un sogno.

In salotto, mi sedetti sul divano vicino alla mamma. Lei mi prese la mano e la sua pelle era fredda. Come il ghiaccio. L’agente Atkins si accomodò, composto, sulla sedia dallo schienale rigido, con il berretto ancora sotto il braccio. Si sporse in avanti, massiccio nella pesante uniforme blu, e parlò con gentilezza, mentre papà rimase in piedi in silenzio alle sue spalle, con lo sguardo fisso sulla mia faccia.

Io risposi a monosillabi. E poi, quando il poliziotto cominciò a insistere e la mia sonnolenza si dissipò, i monosillabi si espansero fino a diventare frasi, periodi, paragrafi.

Voleva sapere che cos’era successo esattamente quella mattina, quindi gli raccontai della marmellata, della piuma e delle foglie. Gli dissi che mi si erano rotti gli occhiali, e lo dimostrai facendogli vedere come avevo riparato la stanghetta con lo scotch. Lui prese gli occhiali, analizzò il danno, annuì gravemente e me li restituì.

L’agente Atkins era più vecchio di mio padre. Aveva il viso lungo, gli occhi grandi e la pelle cadente e pieghettata. E un mento enorme. L’avrei detto a Gabriella. L’avrebbe fatta ridere. Ma poi mi resi conto di non poterle dire proprio niente. Lei non c’era. Soffocai un singhiozzo e mi accartocciai sul divano.

Risposi ad altre domande. Avevamo visto Tom. Il poliziotto annuì con aria da saggio. Conosceva Tom. Mi chiese se gli avevamo parlato e gli dissi che non l’avevamo fatto. Tom era scomparso nella direzione opposta insieme al suo carrello. Gabriella e io eravamo arrivate a scuola, avevamo superato insieme il cancello e no, non mi era sembrata triste o depressa. Ci eravamo messe d’accordo per incontrarci alla Casa di Flores e, sì, avevamo stabilito di arrivarci ognuna per conto suo. No, non avevo visto nessun estraneo. E no, non l’avevo vista litigare con nessuno dei suoi amici. E non sapevo dove sarebbe andata dopo la scuola.

L’agente Atkins si schiarì la gola e spostò il berretto sotto l’altro braccio. Lo squadrai, domandandomi che cos’avrebbe detto dopo, ma lui si limitò a fissarmi con quegli occhi pieni di aspettativa e mi resi conto che mamma e papà mi stavano guardando allo stesso modo.

«Grazie, Anna», disse l’agente, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Sei stata di grande aiuto. Meglio dormire un po’ ora, eh?»

Papà mi prese per il gomito e mi riaccompagnò di sopra. Baciandomi sulla fronte, mi sussurrò che sarebbe venuto da me più tardi e poi uscì dalla stanza, tirandosi silenziosamente dietro la porta.

Passò qualche minuto e sentii dei passi sulle scale e dei bisbigli fuori dalla mia stanza. Mi avvicinai alla porta in punta di piedi e vi appoggiai l’orecchio. Sembrava che tutti e tre fossero andati nella stanza di Gabriella. Cassetti e ante si aprivano e si chiudevano, e immaginai l’agente Atkins che rovistava tra i vestiti di mia sorella, sfogliava le riviste, guardava sotto il letto e frugava nella valigia.

Dopo un po’ uscirono e li ascoltai mentre parlavano sul pianerottolo. Il poliziotto annunciò che sarebbe tornato alla centrale. Disse che il suo sergente aveva già allertato quelli del turno di notte. Un’adolescente era scomparsa. Le parole rimasero congelate a mezz’aria. Papà gli chiese se avrebbero setacciato il villaggio. «Ventiquattr’ore», fece l’agente Atkins.

Mi misi il pigiama e mi sedetti sul letto per pensare, ripercorrendo ancora e ancora il tragitto a piedi con Gabriella per arrivare a scuola. Era triste? Sembrava distaccata, ma era così da sempre. Spensi la luce e rimasi distesa nell’oscurità, fissando l’orologio digitale; il tempo si muoveva in avanti, ogni secondo in più era un altro momento senza Gabriella. Mi tirai su le coperte fin sotto il mento e tornai con i ricordi alla camminata verso la scuola.

Era successo qualcosa? Aggrottai la fronte per cercare di concentrarmi meglio, risalii a ogni passo che riuscivo a ricordare e a tutto quello che avevo visto. No. Niente di insolito, a parte i miei occhiali. Toccai la stanghetta rattoppata. Era confortante. Abbassando le palpebre riuscivo a rivedere la scena, gli occhiali che cadevano, la risata di mia sorella mentre camminava all’indietro verso la scuola.

Rimasi lì coricata a pensare per un’eternità, mentre la pioggia schizzava contro i vetri, aumentando di intensità via via che il tempo passava. E aspettavo papà, ma lui si scordò di venire.

La mattina seguente mi svegliai consapevole che era successo qualcosa di terribile. Restai lì distesa a pensare, finché con un conato nauseabondo ricordai che Gabriella non era tornata a casa. Scesi dal letto e corsi sul pianerottolo. La casa era immersa nel silenzio. La stanza di Gabriella era vuota. Il letto di papà e mamma intatto.

Spaventata, sgattaiolai di sotto in cerca dei miei genitori. Trovai papà stravaccato in una poltrona e la mamma sdraiata sul divano. Entrambi indossavano ancora gli abiti della sera prima. Mi sentii avvolgere dall’oscurità. Se erano rimasti alzati tutta la notte, la situazione doveva essere seria. Perché non stavano cercando Gabriella? Cosa stavano aspettando?

Percorsi il corridoio, fermandomi davanti allo specchio. “Dove sei?” dissi muovendo le labbra rivolta alla mia immagine riflessa. “Perché non mi hai detto che non saresti tornata a casa?” L’ansia lasciò il posto alla disperazione. Il mio sguardo cadde sul parka di Gabriella appeso all’attaccapanni. Il giorno prima faceva caldo e lei l’aveva lasciato lì. Ora le serviva, la temperatura era scesa, aveva cominciato a piovere. Me lo infilai e mi ci avvolsi dentro, tirando su il cappuccio. Ero una crisalide, fasciata nel giaccone di mia sorella; niente poteva toccarmi. Se i miei genitori non facevano niente, avrei agito da sola. Avrei perlustrato ogni singolo posto dove eravamo state finché non l’avessi trovata. E l’avrei riportata a casa.

Uscii, diretta verso Devil’s Lane. A causa della pioggia il terreno si era smosso, facendo riemergere spesse radici bianche, come ossa ritorte. La stradina si snodava davanti a me, infinita e tetra. Le siepi si infittivano, restringendo il sentiero. Cosa sarebbe successo se avessi incontrato un estraneo, un assassino? Non c’era altro posto dove andare, a parte la direzione da cui ero arrivata; procedetti correndo, mulinando le braccia, inciampando sui sassi, con il suono della paura che mi rombava nelle orecchie.

Mi strinsi ancora di più nel parka di Gabriella, superai la massicciata e mi ritrovai nel parco. Il terreno era come una palude. Evitavo le pozzanghere con un salto, ma l’orlo dei pantaloni si infradiciò presto e l’acqua mi filtrò nelle scarpe. Passai vicino alle altalene, sciaguattando, cercando di non pensare ai vermi che si affacciavano in superficie. Una coppia di corvi era impegnata a rovistare nel terriccio vicino al cancello.

Un ragazzo, più grande di me, sedeva di sghimbescio su un’altalena nel parco giochi, bevendo da una lattina. Altri due erano stravaccati sulla giostra, a fumare. Erano stati lì tutta la notte? Il cuore cominciò a battere all’impazzata quando mi lanciarono un’occhiata tagliente e pigra. Cambiai bruscamente direzione, aumentando il passo e avviandomi verso il varco tra gli alberi.

I gradini erano scivolosi e coperti di foglie bagnate, perciò mi aggrappai saldamente alla ringhiera. Le piante che costeggiavano il declivio avevano un odore rancido, come di verdura marcia. In estate ci nascondevamo sotto il salice al limitare dell’acqua per spiare i passanti. Ora i rami somigliavano a ossa scheletriche: scuri, filiformi e spogli.

Il lago era abbastanza profondo da poterci affogare. Era successo a una ragazza, un inverno, quando l’acqua era gelata e lei era andata a pattinare. Non era stata l’unica a uscire sul ghiaccio, ma si era spinta più lontano di tutti e la superficie si era spaccata sotto il suo peso. Le mamme usavano quella tragedia per spaventare i loro figli, per tenerci lontani. Con Gabriella non aveva funzionato. Riuscivo a rivederla: si allontanava, raggiungeva il centro del lago, sorrideva, faceva nuvole di fiato, salutava trionfante con la mano, tracciando un ampio semicerchio nell’aria freddissima, mentre io rimanevo dietro la ringhiera, a pensare come avrei fatto a salvarla. Diedi un calcio a un sasso sul sentiero. Perché aveva sempre corso tanti rischi? Qual era il senso?

Mi trascinai lungo il sentiero, facendo sprofondare le mani nelle tasche di Gabriella, giocherellando con i pezzetti di carta e la polvere che ci trovai dentro, insieme a un sassolino e a un Bazooka Joe. Scartai la cicca e me la ficcai in bocca, tirai fuori un biglietto dell’autobus e lo esaminai. Era un biglietto di ritorno dalla città. Mi immaginai Gabriella da Our Price che rimuginava sul ragazzo dagli occhi assonnati.

Mettendo da parte i miei pensieri mi allontanai dal lago e pianificai il mio percorso: attraverso il bosco e oltre il Lemon Tree Cottage, giù per il sentiero e di ritorno al villaggio. Tra gli alberi procedetti con attenzione, seguendo la strada che facevo sempre con Gabriella. Il terreno era soffice sotto i miei piedi, un letto cedevole di felci, e tutto attorno i rami penzolavano come se si allungassero verso di me per afferrarmi. Resistetti all’istinto di fermarmi e lasciarmi prendere; invece andai avanti, scrutando tra le piante, in cerca di mia sorella.

Una volta mi sembrò di vederla correre più avanti, zigzagando fra i tronchi, ma era solo la luce del sole che scintillava attraverso i rami, e il movimento era dato dal vento che accarezzava le foglie con le sue dita. Poi pensai di aver udito la sua voce, il suono della sua risata, ma era solo l’acqua che scorreva sui sassi del torrente o uccelli silenziosi che ritrovavano all’improvviso la voce.

Vedevo fantasmi, spiriti dei boschi. Le fate di Titania. Tutte cose nella mia immaginazione. Perché Gabriella avrebbe dovuto essere lì? Era stupido da parte mia ipotizzare che si stesse nascondendo nel bosco. Stringendomi sempre più nel parka, continuai incespicando finché non imboccai il sentiero che portava alla stradina.

C’era qualcuno. Questa volta ne ero certa. Una ragazza. Capelli biondi che le fluttuavano attorno alle spalle. Cercai di chiamarla, ma le parole mi rimasero impigliate nella gola. Avanzai rapidamente, seguendo quella figura dal vestito chiaro che svolazzava mentre lei correva.

Raggiunto il viottolo, si fermò e si voltò con un movimento improvviso. Restai senza fiato. Per un istante pensai che fosse Gabriella. Il suo viso era pallido, i lineamenti sottili. Mi fissava con occhi grandi. E mentre ci guardavamo l’un l’altra, il mondo si placò. Il fruscio delle foglie. Il suono del mio respiro. Persino gli uccelli si dimenticarono di cantare.

«Gabriella», dissi, ma lei non mi sentì perché avevo parlato così piano che le sillabe si erano dissolte nella brezza. Rimasi lì a osservarla, paralizzata dalla speranza, senza osare emettere un suono per paura di farla fuggire spaventata.

La ragazza fu la prima a scuotersi, ruotando su sé stessa e continuando per la sua strada. La vidi scomparire all’interno del Lemon Tree Cottage, con un nodo allo stomaco per la disperazione.

Naturalmente non era Gabriella. Era Lydia. I capelli di mia sorella adesso erano neri. E poi era più giovane. E non avrebbe mai indossato un vestito che svolazzava intorno a lei come un velo.

Continuai a camminare e superai il cottage, lanciando solo una rapida occhiata ai suoi muri scuri. E quando raggiunsi la strada e le lacrime mi accecarono pungenti, stesi le braccia alla maniera dei sonnambuli, come per afferrare tutto quello che mi veniva incontro prima che scomparisse.