1.
Il treno si era fermato a un centinaio di metri dalla stazione. Una voce annunciò un leggero ritardo. Le persone attorno a me borbottavano, allungando il collo fuori dai finestrini e domandandosi per quanto tempo saremmo rimasti bloccati lì. Chiusi gli occhi, inspirai profondamente e cercai di distrarmi, sgranchendo le dita e soffiando sul palmo delle mani doloranti. Mi resi conto che avevo stretto i pugni per tutto il tragitto da Paddington e le unghie avevano lasciato un solco sulla pelle.
Il paesaggio, fuori, mi era familiare: case vittoriane cresciute in modo disordinato; una lingua di terreno incolto che si estendeva parallelamente alla fila di abitazioni. I ragazzi un tempo si sfidavano in prove di coraggio sui binari; alcuni teppisti avevano acceso un fuoco sul terrapieno. Ora la linea ferroviaria era protetta da una recinzione. Dei sacchetti di plastica erano rimasti impigliati nelle siepi e l’erba era punteggiata di bottiglie vuote. Era autunno, tuttavia non ce n’era alcun segno: sugli alberi niente foglie color del rame né tonalità dorate. Il posto era spoglio. Deprimente e silenzioso.
Alcuni giorni prima ero ad Atene, bevevo caffè nel sole di ottobre. Il mio cellulare aveva squillato, una voce aveva parlato e avevo riconosciuto Rita, la migliore amica di mia madre. Era stato il modo in cui aveva pronunciato il mio nome – Anna Flores – il modo in cui aveva arrotato la R, il modo in cui aveva abbassato la voce mentre mi spiegava come era morta la mamma. Un ictus. Quando sarei potuta tornare a casa?
Rita si era già fatta carico dell’organizzazione del funerale e aveva chiesto il mio parere su cibo e inni: uova e crescione o salmone e cetriolo, Lord of All Hopefulness o Abide With Me. Le sue parole si erano mescolate all’odore del souvlaki proveniente da un ristorante nella piazza e al suono di una voce solitaria che cantava in un bar. Dopo ero rimasta seduta a piangere per un’eternità, e quella musica mi era sembrata la più triste del mondo.
Il treno ripartì con uno scossone, trascinandosi in avanti. I passeggeri si ricomposero, sospirando sollevati. Mi rimisi la giacca di jeans, armeggiai con la mia sacca e controllai che tutto fosse ancora dove doveva essere: portafogli, telefono, rossetto, flacone di Givenchy, foto di mia madre. Foto di Gabriella. Un uomo con l’impermeabile si allungò per prendere la sua valigia. Seguii il suo esempio e recuperai la mia.
Una manciata di persone scese con me. Le osservai affrettarsi su per la scala e al di là del sovrappassaggio, indaffarate con i biglietti e i bagagli. Appoggiai a terra la valigia, estrassi il manico e mi fermai per guardarmi attorno. Non era cambiato un granché. La sala d’attesa vuota. La panchina rotta. Le telecamere a circuito chiuso. Quando le avevano installate? Troppo tardi per poter riprendere Gabriella che se ne andava o per stabilire la differenza tra un avvistamento e una bugia.
Erano passati tre anni dall’ultima volta che ero stata lì: una visita lampo prima di partire per la Grecia, anche se da allora avevo comunque rivisto mia madre, quando era venuta a Londra il giorno prima che salissi sull’aereo. Ora, ripensando a quell’ultimo incontro in un bar di Harrods con la mamma che piluccava uno scone, sentii un nodo allo stomaco. Tre anni. Nel mezzo, solo telefonate. Come potevo pensare che sarebbe andata avanti per sempre? Avrei dovuto sapere meglio di chiunque altro che le cose possono cambiare all’improvviso.
Una guardia sbucò da una porta sulla banchina opposta e lanciò un’occhiata dalla mia parte. Mi osservò attentamente, analizzandomi dalla testa ai piedi. Gli feci un mezzo sorriso, piegando le dita come se la valigia fosse pesante e mi fossi fermata a riposare un po’. Raddrizzai la schiena e mi avviai verso la scalinata, trascinandomi dietro lo sgargiante trolley viola. Mi muovevo percependo i suoi occhi su di me. L’avevo riconosciuto, anche se avevo finto il contrario. Lavorava da anni alla stazione. Un tempo portava i calzoni attillati, corti abbastanza da mettere in mostra i calzini colorati; ora i pantaloni gli arrivavano giù fino ai lacci delle scarpe, con una precisione dimessa. Le cose al villaggio andavano così: le persone rimanevano – tranne me. Mi domandai se si ricordasse chi fossi.
Fuori, per strada, il cielo sembrava danneggiato, bendato di nuvole scure. Gli alberi portavano rami spogli come fossero armi e i marciapiedi erano sommersi di foglie. Presto sarebbero state raccolte da uomini in casacca gialla. Uomini come Tom. Trattenni il respiro per un istante e rimasi in ascolto, aspettandomi quasi di sentire il rumore spettrale del suo carrello. In giornate come questa sarebbe stato in giro, a capo chino, tutto preso dal suo lavoro. Indifferente al mondo.
Scossi la testa. Pensare al passato non sarebbe servito a niente. Tornai invece a concentrarmi sulla via da percorrere, imboccando le stradine secondarie con le loro villette a schiera e le file di macchine parcheggiate e notando un nuovo fast-food, un pub che aveva cambiato nome e un edificio restaurato.
Le strade si fecero più ampie, e all’improvviso ecco la casa di mia madre, una malridotta villetta vittoriana bifamiliare. Riuscii a resistere all’impulso di fermarmi per assimilare meglio quel momento, per fingere che si trattasse di una visita normale. Proseguii e svoltai nel vialetto, con lo stomaco che si rivoltava al consueto rumore del cancello. La porta era nera, con la vernice scrostata e una crepa sottile che attraversava il vetro. Una peonia si arrampicava su per il muro e, per un attimo, ricordai dei petali rosso sangue che emergevano dal bocciolo; Gabriella che mi infilava un fiore tra i capelli. Cercai di trattenere quell’istantanea nella mia mente, finché non scivolò ai margini e si dissolse, come una foto che si sviluppa al contrario.
La porta si spalancò prima che trovassi le mie chiavi e Rita riempì la soglia. «Anna», disse con calore. Una parte di me aveva pensato che la sua bellezza si fosse ormai attenuata e che ora somigliasse a mia madre: esile come un uccellino, i capelli sottili e gli occhi annebbiati dalla cataratta. Invece era prosperosa, portava un vestito di lana blu navy e i capelli chiari tagliati a caschetto. Sul viso c’era qualche ruga, ma lei era ancora splendida, con gli zigomi alti e gli occhiali verdi con la montatura a farfalla.
Mi afferrò la mano – una presa vigorosa – e un attimo dopo avevo già superato la soglia e stavo posando la valigia. Mi fece strada lungo il corridoio mentre si scusava, mi dava il benvenuto e mi offriva il tè, come se fossi io l’estranea in quella casa. Ci fermammo prima di entrare in salotto. «Non fare caso alle vecchie signore», sussurrò avvicinandosi a me. «Sono venute questa mattina apposta per vederti.»
«Grazie», risposi. «Per tutto. Non ce l’avrei mai fatta senza di te.»
«Ma certo che sì», fece Rita, stringendomi il braccio. «Mento all’insù, e via che si va.»
La stanza, notai con una stretta al cuore, non era quasi cambiata. La scatola del cucito di mia madre e la borsa con l’occorrente per il lavoro a maglia appoggiata sopra; i ferri che mio padre usava per rintuzzare il fuoco; la sedia con lo schienale rigido dove amava sedersi la nonna Grace.
Le vecchie signore, incipriate e ben vestite, si voltarono a guardarmi con un unico movimento legnoso. Rivolsi loro un sorriso, sapendo che non dovevo piangere. Non volevo mettere in imbarazzo quelle brave persone che erano venute per mia madre. Raddrizzai le spalle, consapevole di quella responsabilità, e attraversai la stanza. Non mi sentivo a mio agio, con addosso quel vestito nero che avevo ripescato dall’armadio, e rimpiangevo di aver scelto gli anfibi Doctor Martens. Mi appoggiai al bracciolo di una poltrona e, per compensare, mi tolsi la giacca e cercai di nasconderla, appallottolandola e spingendola all’indietro con i talloni.
Rita prese posto sulla sedia con lo schienale rigido, e il suo sedere si espanse come una torta lievitata che straborda dalla teglia. Si mise a braccia conserte e parlò del tempo e della probabilità che piovesse. Le signore annuirono e sorrisero, e io feci lo stesso. Quando scese il silenzio, concentrai il mio sguardo sull’orologio a pendolo immobile, sul camino vuoto, su qualsiasi cosa tranne le facce comprensive delle persone che c’erano in casa.
Il campanello suonò e Rita scattò in piedi prima che avessi la possibilità di muovermi. Fece ritorno con il parroco: Nicholas, un giovane magrolino con lo zainetto e un casco da moto sotto il braccio. «Lei deve essere Anna», mi disse, chinandosi per stringermi la mano. «Mi dispiace molto. È un momento difficile.» Lo ringraziai, consapevole che le parole mi si strozzavano in gola. Lui si sistemò all’estremità del divano, come se fosse di casa. Poi proseguì, parlando sinceramente, con schiettezza. Era arrivato da poco in parrocchia, ma aveva avuto occasione di conoscere mia madre. «Era gentile, socievole, molto rispettata all’interno della comunità.»
Davvero? Mia madre era una persona silenziosa. Riservata. Sempre più isolata a mano a mano che passavano gli anni. O almeno io la vedevo così. Pensavo avesse smesso di andare in chiesa da anni.
«Esther era una vera credente», intervenne Rita.
“Prima di decidere che Dio l’aveva abbandonata.”
Nicholas mi lanciò un’occhiata compita. L’avevo detto a voce alta? Se anche l’avevo fatto, non reagì. Invece, si mise a frugare nel suo zaino, tirando fuori una scaletta della cerimonia funebre che cominciò a illustrarmi.
Mentre lui parlava, Rita versò il tè nel servizio buono della mamma, quello con le tazze dal bordo dorato. Presi un dolcetto al limone dal piatto che mi porse e assaporai le giornate della mia infanzia. Biscotti appiccicosi e lattine di bibite Lilt alla frutta. Lampi di sole tra le foglie d’autunno. Ecco Gabriella che corre davanti a me nei boschi, con i capelli scompigliati e la sciarpa che si impiglia qua e là mentre lei si muove a zigzag tra gli alberi, superando con un balzo i rami spezzati e atterrando come un gatto.
«C’è qualcosa che le piacerebbe aggiungere?» chiese Nicholas intromettendosi nei miei pensieri. «Alla celebrazione...»
Si sporse in avanti, il viso affilato segnato dalla premura nei miei confronti. Scossi il capo e gli rivolsi un altro sorriso forzato. «Mi sembra tutto perfetto. Grazie.»
Rita si schiarì la voce e mi guardò. «Posso leggere un saluto?»
«Ma certo», risposi. Ci fu una pausa, l’atmosfera si caricò di aspettativa. Deglutii. «Anche se non sono sicura...»
«Va tutto bene», disse Nicholas, dandomi un colpetto sul ginocchio. «La maggior parte delle persone lo trova troppo difficile.»
Quando se ne furono andati, mi misi a vagare per la casa, riabituandomi all’idea di essere tornata. Il silenzio mi avvolgeva. Armeggiai con la caldaia in cucina, e il riscaldamento si rianimò borbottando. Una volta salita al piano superiore, mi fermai davanti alla prima porta chiusa. La camera di Gabriella. Toccando il legno, sentii il battito della memoria. Non entrai, ma sapevo che la stanza sarebbe stata esattamente come lei l’aveva lasciata – pronta per quando sarebbe tornata a casa.
La camera successiva era quella della mamma, e questa volta aprii la porta. Vidi il letto sfatto. Un paio di occhiali appoggiati sul comodino. Una vestaglia trapuntata abbandonata su una seggiola e sotto, sul tappeto, delle pantofole color granata. Era come se lei dovesse tornarci; a rifare il letto, a prendere gli occhiali, a infilarsi la vestaglia. Mi misi a sedere sul materasso. Non sarebbe successo. Non sarebbe mai successo. Mia madre se n’era andata, insieme al resto della mia famiglia, e ora, a parte me, non rimaneva più nessuno.
Respirai profondamente per scacciare l’autocommiserazione e tirai fuori la foto che tenevo nella borsa. Mia madre: Esther. La nonna Grace l’aveva scattata così tanti anni fa... il giorno in cui i miei genitori si erano incontrati. Era il 1966, quando un temporale estivo aveva rovesciato tegole e spezzato rami; quando Grace Button aveva letto gli annunci dal giornalaio locale e, dopo averli scorsi col dito, si era fermata su quello di Albert Flores.
Nella fotografia, mia madre era all’aperto. Era una giornata burrascosa. Il vento le aveva spinto i riccioli chiari sul viso. Aveva la medesima bellezza fragile di Gabriella, ma c’era qualcos’altro che non si riusciva a identificare facilmente, qualcosa che si perdeva in quei grandi occhi grigi. Ho passato molto tempo a fissare quel ritratto, scandagliando l’immagine sgranata, domandandomi cos’era che mancava a mia madre, persino allora.
Sul comò c’era un orologio. Era d’oro, con inserti di madreperla e le lancette che segnavano mezzanotte. O era mezzogiorno? Girai la chiavetta delicatamente e lo rimisi a posto, lasciando correre la punta delle dita sull’oscurità del legno di ciliegio del comò, giù fino all’unico cassetto. Lo aprii. Senza fare rumore. Era vuoto, a parte un libro. Si trattava di un album di ricordi, come quelli che avevo riempito con le cartoline delle vacanze nel Galles. Lo aprii, continuando a sorridere ripensando a quei tempi, e una ragazza ricambiò il mio sguardo. Inspirai, e l’aria si fece fredda dentro di me. Gabriella con la divisa della scuola, gli occhi che nascondevano le risate. Assorbii ogni dettaglio: il sorriso segreto, la fossetta sul mento. Le accarezzai i capelli, le guance, la curva del collo. Era un articolo di giornale: la storia della ragazza scomparsa.
Il dolore mi pervase, risalendo fino a serrarmi la gola. Richiusi il volume e mi distesi, affondando la faccia nel cuscino. Lily of the Valley. Il profumo di mia madre. Pensai a lei, che ritagliava fotografie e articoli anno dopo anno, creando un album dei ricordi di Gabriella. Lei che seguiva i bordi con le forbici. Applicava la colla. Appiattiva la carta. Cercai di scacciare quelle immagini, ma non se ne andavano. E poi la storia ritornò a galla, come sapevo sarebbe accaduto. Come succedeva sempre. E il dolore e la perdita si abbatterono a ondate sulla mia coscienza.