6.

1982

La domenica andammo in chiesa. Perdevamo la messa solo quando eravamo così malate da dover restare a letto. A volte Gabriella faceva finta (con il solito trucco di scaldare il termometro) ma non riusciva mai a fregare nostra madre. Papà era esentato per il fatto che suo padre, cattolico, originario del Cile, era morto quando lui era ancora nella pancia di sua mamma e lo zio Thomas aveva due anni. E la loro madre ebrea – i suoi genitori erano riusciti a sfuggire ai pogrom russi – aveva lasciato che i due figli facessero la loro scelta.

A Gabriella piaceva tirare fuori quel discorso. In un mondo equo avrebbe potuto seguire le orme di suo padre libero pensatore. Per dar voce ai propri sentimenti sfoderava alcune delle sue domande preferite: Che senso ha pregare, se Dio non risponde? Come fai a sapere che Dio esiste, se non lo puoi vedere? Come facciamo a sapere di avere un’anima, se non appare su una radiografia? La mamma le rispondeva all’incirca come rispondeva sempre quando lei voleva qualcosa e noi no. Quando Gabriella sarebbe stata adulta sarebbe stata libera di non avere un Dio. Ma ora doveva andare in chiesa. («E anche tu, Anna.»)

Non era un problema. La chiesa era okay. Mi piacevano i profumi: la cera delle candele mescolata ai fiori e all’incenso. Mi piaceva osservare le finestre policrome e immaginare i personaggi che prendevano vita quando il sole li attraversava. Li vedevo arrampicarsi fuori dalle vetrate per unirsi alla comunità, raccontando le loro storie in lingue che riuscivamo miracolosamente a capire.

Prima di uscire c’era sempre la solita scena. Gabriella scendeva al piano di sotto con un vestito che le lasciava le spalle scoperte e gli occhi cerchiati di trucco nero e dorato. La mamma le diceva che aveva un aspetto ridicolo e Gabriella le rispondeva che quella era la moda. Poi si passava all’inevitabile discussione («Perché non posso tingermi i capelli di nero?» «Quando sarai adulta sarai libera di rovinare il tuo aspetto. Ora fai come dico io.»). Alla fine Gabriella si appellava a papà, che suggeriva un compromesso. Il che comportava vederla risalire le scale e riapparire dieci minuti dopo con addosso una felpa strappata, sopra il vestito.

Arrivammo finalmente in chiesa a tre quarti della messa. L’organista suonava e il celebrante distribuiva la comunione. Nessuna di noi era stata cresimata; Gabriella aveva minacciato di fare lo sciopero della fame, se l’avessero costretta, ma io mi accostai all’altare con tutti gli altri, per ricevere la benedizione, e poi mi divertii a osservare l’assemblea. Riconobbi gente della scuola, tra cui Lucy Carlisle – che si era ritirata al quinto anno e ora indossava un grembiulone.

Di ritorno dalla comunione, la mamma si era chinata e aveva bisbigliato qualcosa alla mamma paonazza di Lucy, che era diventata ancora più rossa quando le persone si erano voltate a guardare. Gabriella, con gli occhi chiusi, sedeva vicino a me, attorcigliandosi i capelli attorno alle dita. Sapevo cosa stava facendo, cancellava la messa, riempiendo lo spazio con note musicali, battendo il piede a ritmo. Le diedi una gomitata. Lei aprì gli occhi. «Lucy Carlisle», mormorai.

Lei si strinse nelle spalle e sussurrò di rimando: «Chi se ne frega di Lucy Carlisle».

La mamma ci teneva a Lucy Carlisle. L’aveva scritto in faccia, e io pensavo di sapere che cosa aveva detto a sua madre. Aveva invitato Lucy al centro d’ascolto della chiesa. Quello per i drogati, le madri single e le mogli con i mariti che le picchiavano.

Quando tornammo da messa, la casa odorava di maiale arrosto e verze bollite. Ogni settimana papà aveva il compito di preparare il pranzo domenicale, e guai a lui se non lo faceva. Alla mattina, la mamma e le sue sguattere (Gabriella e io) gli lasciavamo il cibo pronto da cuocere prima di uscire. Una volta si era dimenticato di accendere il forno: era troppo occupato a stare a pancia all’aria, immerso in un libro che aveva trovato in negozio. Tornate a casa eravamo state accolte da carne e patate crude e da papà che faceva citazioni sbagliate di Dickens. («È molto, molto meglio leggere un libro che cucinare», aveva detto.)

La mamma si limitava a dire la preghiera di ringraziamento solo di domenica e, dopo aver distribuito i piatti e lasciato che papà si occupasse del taglio, recitò la sua orazione, ringraziando per il cibo che avevamo davanti e anche per tutto il resto. Sollevai una palpebra per vedere che cosa stesse facendo Gabriella: mi fissava con gli occhi fuori dalle orbite e le guance gonfie. Soffocai le risate e mi concentrai sulla mamma, che ora stava parlando dell’importanza di perdonare le trasgressioni.

Più tardi domandai che cosa fosse una trasgressione. «Chiedilo a Lucy Carlisle», fece Gabriella prima che la mamma potesse rispondermi.

Nel pomeriggio papà ci disse che sarebbe andato a fare una passeggiata. Mi offrii volontaria per accompagnarlo, dichiarando che sarebbe stato un tour padre-figlia minore in giro per il villaggio. Gabriella alzò gli occhi al cielo, ma io la ignorai. Avevo intenzione di prolungare quella gita il più possibile.

Spesso, quando eravamo soli, papà mi raccontava storie del suo passato, e mi parlava del legame speciale che aveva con lo zio Thomas. Erano una coppia inarrestabile, che combatteva fianco a fianco i bulli a cui non piaceva il loro cognome straniero. «Nulla è più speciale dell’amore tra fratelli», diceva. E io annuivo con veemenza, pensando a Gabriella e immaginando uno scenario in cui la salvavo dai cattivi ragazzi del villaggio.

Papà si fermò alla Casa di Flores per prendere un vaso che aveva promesso a un’anziana signora che viveva in un ospizio. Bussammo alla sua porta e io rimasi ad aspettare sulla soglia mentre lui lo portava dentro e lo sistemava secondo le indicazioni della donna. Passai il tempo a guardare il mio riflesso in una finestra, ammirando l’ultimo scarto ricevuto da Gabriella: un fiocco nero che somigliava a una falena gigante posata tra i miei capelli.

Papà uscì dopo aver gentilmente rifiutato la tazza di tè che gli era stata offerta. Lo presi sottobraccio e mi misi a camminare lentamente, costringendolo al mio ritmo. Superammo l’Eagle, dove papà andava a bere il venerdì sera; quando tornava a casa sapeva di birra e tabacco, portava in dono delle bottiglie di Babycham per la mamma e patatine per tutti, dall’ultima frittura della nottata.

«Non mangiamo le patatine da secoli», dissi.

«Hai ragione, Annie. Non abbiamo più fatto un granché, in generale, vero?»

«Le possiamo mangiare presto?»

Non ci fu tempo per la risposta. Delle urla si riversarono fuori dal pub. In un attimo papà mi aveva detto di rimanere dov’ero ed era scomparso dentro. Le grida continuavano. Contai fino a tre, poi aprii lentamente la porta, sbirciando attraverso il fumo. Un uomo stava puntando il dito in faccia al barista, che aveva alzato le mani in un gesto di resa dicendo: «Desolato, amico. Non posso». Riconobbi l’ubriaco: era il signor Ellis, un uomo basso e tozzo che indossava una giacca di pelle marrone, con la faccia quadrata e i capelli scuri con la riga in mezzo. L’avevo visto in precedenza barcollare per strada, sbraitando contro sua moglie. La mamma diceva che era un prepotente. E anche se «non c’erano molti elementi a favore della moglie», lei non si meritava «un uomo del genere». E quanto alla povera Martha... la mamma non riusciva nemmeno a immaginare come potesse essere la sua vita «in mezzo a tutti quei battibecchi».

Papà si diresse dritto verso il signor Ellis, e pensai che da un momento all’altro quell’uomo si sarebbe girato e l’avrebbe preso a pugni in faccia, o avrebbe afferrato una bottiglia per spaccargliela sul cranio come in uno di quei telefilm polizieschi che guardavo alla TV. Ma non avrei dovuto preoccuparmi. Nel giro di cinque minuti, papà aveva calmato il signor Ellis che uscì dal pub malfermo sulle gambe. Lo seguii con lo sguardo mentre zigzagava lungo la strada.

Il barista ci propose un drink – «Offre la casa» –, ma papà scosse la testa e disse che dovevamo andare a casa. Ero delusa. Mi sarebbe piaciuto restare lì una mezz’ora a bere limonata e mangiare noccioline, mentre papà faceva giochi di prestigio con i tappi della birra e mi raccontava delle storie – un prolungamento della nostra gita.

«Certe persone non sanno neanche di essere al mondo», borbottò sulla strada verso casa. «Quel tizio dovrebbe passare più tempo a badare a sua moglie e a sua figlia e meno a fare queste robe.» Gesticolò in direzione del pub.

Mi aggrappai al suo braccio. Ero orgogliosa che, a parte i venerdì, il mio papà passasse tutto il suo tempo a badare a sua moglie e alle sue figlie, e neanche un po’ di tempo a fare quelle robe.

Il sabato successivo la mamma ci disse che avremmo dovuto occuparci della distribuzione. Sbuffai, mentre Gabriella protestava dicendo che aveva troppi compiti da fare. Sapevamo bene cosa significava distribuire. Voleva dire andare a casa della gente a infilare volantini sotto la porta a proposito di messe, mercatini e vendite di beneficenza. A volte comportava anche entrare e stare sedute in silenzio mentre la gente – solitamente i più vecchi – blaterava di malattie e vacanze e parrucchieri e della piega che stavano prendendo i giovani.

La mamma raccolse i capelli con cura in uno chignon. Indossò un vestito beige, un cardigan beige e un giro di perle bianche. Il beige era un buon colore per le faccende della chiesa, ci disse. Era neutro come nostro Signore. Non ero sicura di aver capito che cosa intendesse, perché mi sembrava che il Signore non fosse per nulla neutrale. Aveva delle preferenze molto chiare. Non amava forse i peccatori e, più di tutti, chi si pentiva?

Dopo la consueta litigata sull’abbigliamento di Gabriella e sul trucco in stile egizio (io, con i miei jeans e una maglietta gialla con stampata sopra la fotografia di un’isola caraibica, passai inosservata), uscimmo di casa.

Cominciammo come al solito dalla periferia del villaggio e procedemmo a ritroso, superando la chiesa e la scuola fino ad arrivare a High Street. Per fortuna non entrammo in nessuna casa, anche se, quando giungemmo in Acer Street, era chiaro che mia madre fremeva dal desiderio di spingere qualche persona ignara a partecipare a una vendita di beneficenza, a un tè con le signore della chiesa o addirittura alla messa domenicale. Lo si capiva dal suo incedere deciso a grandi falcate, talmente veloce che dovevo quasi correre per starle dietro.

Alla mamma serviva una scusa, che trovò al numero venticinque. Mentre stava per infilare il volantino nella buca delle lettere, la porta si aprì e comparve la signora Ellis con in mano una bottiglia di latte vuota. «Ah», esclamò la mamma con il viso radioso per l’opportunità che le si presentava. «Sto visitando il quartiere per conto della chiesa. Le andrebbero due chiacchiere?»

La signora Ellis la guardò spalancando gli occhi. «Non credo...»

«Le parlerei volentieri dei nostri progetti per l’estate», la interruppe la mamma sorridendo. Prese la bottiglia dalle mani della signora Ellis e la depose a terra davanti alla porta.

La signora Ellis aprì la bocca ma non ne uscì nulla. Le sue mani si spostarono con un movimento rapido sulla sciarpa che aveva al collo, grigia, come il suo cardigan troppo largo. Indossava un sudicio grembiule bianco annodato in vita che le arrivava fino all’orlo della pesante gonna marrone. Riluttante, fece un passo indietro e noi la seguimmo all’interno.

L’angusto ingresso era buio. C’erano dei cappotti sull’appendiabiti, scarpe sparpagliate sotto e una pila di scatole di cartone appoggiate al muro. La casa odorava di vestiti umidi e di qualcos’altro, dolciastro e malaticcio. Mi ricordava la chiesa.

Per qualche istante nessuno parlò. Spostai lo sguardo dalla mamma alla signora Ellis, e poi su Gabriella. Gabriella fissava la sciarpa. Si era spostata, e sulla pelle della signora Ellis c’erano dei piccoli lividi. La donna la risistemò con uno sfarfallio di mani.

Ci guidò in salotto. Era piccolo e ingombro di mobili. E faceva caldo. Il fuoco scoppiettava nel caminetto. C’erano un vecchio divano marrone e due poltrone coordinate, rivolti verso la TV in bianco e nero con il volume al minimo. L’odore stomachevole lì era opprimente. Proveniva da decine di fiori rosa contenuti in vasi sparsi per tutta la stanza. Il signor Ellis era sprofondato in una delle poltrone. Russava a gambe distese, con i piedi appoggiati a un malridotto pouf di plastica. Aveva la camicia aperta e il bottone dei pantaloni e la cintura slacciati, mettendo in mostra la pancia bianca e pelosa.

La mamma si bloccò, come se si stesse pentendo di essere entrata, ma ormai era troppo tardi. La signora Ellis stava levando dal divano un mucchio di rotocalchi, lasciandoli cadere sul pavimento. Osservai i titoli a caratteri cubitali e le fotografie di navi da guerra in prima pagina. Il signor Ellis si svegliò per il rumore. Un filo di bava gli era sceso dall’angolo della bocca fin sulla barba corta sul mento.

«Abbiamo visite», disse la signora Ellis con una vocina piagnucolosa. «Non è meraviglioso, Charlie?»

Lui non rispose, ma continuò a fissare noi tre. La mamma si era seduta sul bordo del divano, con un sorriso tirato. La signora Ellis ci chiese se gradivamo un tè e, senza attendere una risposta, uscì in fretta dalla stanza, ciabattando con le infradito sul pavimento di legno del corridoio. Ci fu silenzio finché il signor Ellis si alzò e seguì sua moglie.

Le voci si alzarono. Noi ci lanciammo un’occhiata, ma restammo in silenzio.

La padrona di casa riapparve con un’unica tazza di tè. La allungò alla mamma, che la prese con delicatezza. «Ci ho messo lo zucchero», disse sedendosi sull’altra poltrona.

La mamma ne bevve un sorso con una smorfia. Poi si schiarì la voce. «Mi chiedevo se le potrebbe far piacere venire al nostro tè della chiesa. Lo teniamo regolarmente tutti i venerdì pomeriggio alle due. Non c’è bisogno di portare nulla, le signore preparano dolci deliziosi: victoria sponge, rotoli farciti, scones.» Tacque. Nessuna risposta dalla signora Ellis.

Annoiata, mi concentrai sul quadro appeso alla parete di fronte a me: una stampa con vari insetti, file di scarafaggi, mosche e formiche. Li stavo contando, cercando di scoprire quante volte ogni insetto era ripetuto, lasciando che la conversazione aleggiasse sullo sfondo, finché qualcosa che la mamma disse mi fece distogliere lo sguardo. «Tutti sono i benvenuti ai gruppi di ascolto, e c’è la massima discrezione.» Lanciò un’occhiata alla porta. Gabriella si chinò, raccolse un giornale e si mise a sfogliarlo, come se la conversazione non la interessasse. Sapevo che non era così. Sapevo che non si stava perdendo una parola.

A disagio, mi agitai sul divano. «Devi andare al bagno, Anna?» chiese la mamma in modo sbrigativo. Non ci dovevo andare. Lei mi rivolse uno sguardo eloquente. «Sono sicura che la signora Ellis ti farà usare il loro.»

La signora Ellis inclinò il capo, come se stesse concedendo il suo permesso.

«Di sopra, immagino», fece la mamma guardando la padrona di casa in cerca di una conferma. Lei annuì di nuovo.

Non avendo altra scelta, uscii dalla stanza con passo pesante e mi bloccai ai piedi delle scale. Alla fine del corridoio vidi la porta aperta della cucina. Anche la porta sul retro era aperta: sentivo filtrare la brezza. Se me ne fossi andata da quella casa e fossi scomparsa sarebbe servito alla mamma da lezione. Sarei rimasta via per qualche ora buona. Così ci avrebbe pensato due volte prima di escludermi di nuovo.

Invece, imboccai le scale, mettendo una mano vicino all’altra sul corrimano come se stessi facendo il tiro alla fune. Speravo che Martha non fosse in casa, visto che non avevo la minima intenzione di stare a sentire la sua vocetta lamentosa. Peggio ancora, avrebbe potuto dire ai miei amici che ero passata a casa sua. Sarei diventata lo zimbello della scuola.

Sul pianerottolo c’erano tre porte, tutte quante socchiuse. Incapace di trattenermi, infilai la testa nella prima camera. Era quella di Martha. Per fortuna di lei non c’era traccia. Analizzai quel misero locale con le sue pareti spoglie. Non c’era granché di più di un tappeto sbiadito, un letto singolo, una piccola cassettiera e un armadio. Dov’erano i dischi e le cassette, i libri e i poster? Ero tentata di sbirciare nell’armadio a muro, ma riuscii a resistere.

La seconda camera da letto era un casino. Lasciai correre lo sguardo dal frusto tappeto di pecora buttato sul pavimento come un animale morto vicino al guardaroba, al letto matrimoniale sfatto e alle montagne di riviste e agli scatoloni impilati, simili a quelli nell’ingresso. Nella stanza c’era un odore stantio, come di pelle non lavata. Arricciando il naso, arretrai, cercando di non soffermarmi sui pigiami spiegazzati sul letto.

In bagno, uno stendino aperto, ricoperto di calze e mutande umide, occupava la vasca rosa pallido. Lì rimasi concentrata per non appoggiarmi alla tavoletta del water o per non vedere le macchie sul tappetino. Una sensazione di nausea mi annodava lo stomaco; cercai di ignorarla e ringraziai rapidamente Dio (e mia madre) perché casa nostra non aveva quell’aspetto. Finii alla svelta, tirai la catena e mi lavai le mani con del sapone carbolico. Pensai a Martha, in piedi dove mi trovavo ora, che si guardava nello specchio incrinato, preparandosi per andare a dormire. Era una casa orribile. Fredda, buia e avvilente. Asciugandomi le mani sui jeans, uscii nell’istante in cui sbatté la porta d’ingresso. Bene. Il signor Ellis era uscito.

Dal salotto giungeva ancora il mormorio delle voci, perciò sgattaiolai in cucina, tanto per vedere com’era. Appariva ingombra, con armadietti dipinti di verde e coperti di macchie. C’era un tavolo pieghevole con due sedie e i resti della colazione: ciotole sporche, un pezzo di toast freddo sulla griglia. Appoggiato alla parete c’era un mocio consumato, in un secchio di metallo.

Uscii. Era una giornata calda, umida e afosa. Anche lì si sentiva un forte odore di fiori, attorno agli alberi e lungo il perimetro: lavanda, caprifoglio e digitale. Li riconobbi grazie ai libri di giardinaggio che leggeva la mamma, peccato che lei non riuscisse mai a far crescere i fiori, non come succedeva lì. Vicino alla porta notai una gabbia. Mi chinai per vedere cosa contenesse. Sentii uno scalpiccio mentre una creatura scompariva nella paglia. Spaventata, mi raddrizzai troppo in fretta e il sangue mi arrivò alla testa frastornandomi. Sentii un rumore. Il signor Ellis stava uscendo dal capanno con una cassetta degli attrezzi. Dunque non era uscito come avevo pensato, e ora si era fermato sul prato, la luce del sole gli colpiva la fibbia della cintura e i piedi nudi, delle fette di carne pallida sull’erba.

Mi fece segno di avvicinarmi. Mi avviai, trascinando i piedi. Avrei voluto essere tornata direttamente dalla mamma.

«Vuoi dare un’occhiata?» mi chiese accovacciandosi e aprendo la cassetta.

Guardai educatamente l’accozzaglia di attrezzi, le bobine di filo arrugginito e le spine rotte. Tirò fuori un paio di pinze e me le mise davanti, aprendo il morsetto a coccodrillo. «Lo sai a cosa servono queste?» Sogghignò.

«Per aggiustare le cose», dissi. «Ne ha qualcuna anche mio padre.»

Scosse la testa lentamente, senza smettere di sorridere. «Le mie servono a strappare il naso alle bambine ficcanaso.» Prese un martello. «E questo», aggiunse agitandolo nell’aria, «serve a rompere loro le dita quando mi rubano i soldi dal portafogli.» Infine sollevò il fil di ferro e me lo mostrò. «E con questo lego loro le mani e le faccio smettere di agitarsi.»

Arretrai, ma lui si fece più vicino, allungando la testa verso di me finché non sentii l’odore stantio del suo alito. La porta sul retro cigolò. Martha era lì che ci fissava. Il signor Ellis si accorse di lei e fece un altro dei suoi ghigni. «Ah, Martha, appena in tempo!» esclamò, aprendo e chiudendo le pinze. Colsi l’opportunità al volo e le sgusciai accanto in fretta, rientrai in casa e tornai in salotto.

«Garofani», disse nostra madre mentre ce ne andavamo. «Avete visto quei garofani rosa, nei vasi? Splendidi, vero? Di loro si può dire tutto, ma quella famiglia ha proprio il pollice verde.»

Sulla strada verso casa, la mamma camminava spedita come quando aveva qualcosa in mente. «Di cosa hanno parlato?» sibilai a Gabriella mentre le ciondolavamo dietro.

«Niente di che», disse lei. «Chiesa.»

«Allora perché la mamma voleva sbarazzarsi di me?»

«Tu sei paranoica.»

«Non sono paranoica. Mi ha mandato al gabinetto. Perché tu sei potuta rimanere?»

«Perché io sono più grande di te, piccoletta. Io capisco queste cose.»

«Quali cose?»

Lei fece spallucce e staccò una foglia da una siepe d’alloro del giardino di qualcuno. La mamma, là davanti, era ormai arrivata. La signora Henderson uscì dal cancello della casa accanto e immaginai cosa potesse pensare mia madre. Lei non amava i pettegolezzi. «Chi è senza peccato...» diceva sempre. «Nessuno è perfetto. La pagliuzza e la trave.»

Gabriella si prese gioco della signora Henderson: «Oh, Dio!» disse strattonandomi il braccio. «Aspettiamo finché la vecchia strega non se ne sarà andata.»

Ci sedemmo su un muretto. «Quali cose?» ripetei.

Gabriella sospirò e strappò una striscia dalla foglia di alloro. «Niente.»

Strizzai gli occhi. «Perché nessuno mi dice la verità?»

«È solo che sei troppo piccola», ribatté facendo a sua volta una smorfia.

Volevo raccontarle del signor Ellis e della sua cassetta degli attrezzi, anche se non sapevo bene cosa dire. Quell’uomo mi dava i brividi con quei suoi occhietti cattivi, il sorriso misterioso e le strane cose che diceva.

«Cosa pensi del signor Ellis?» cominciai. «A me non piace. Lui è...»

Gabriella mi interruppe. «Non deve piacerti. Tu non vivi con lui. Come Martha.»

Mi accigliai. La conversazione aveva preso la piega sbagliata. Sapevo che avrei dovuto essere dispiaciuta per Martha. Ma non lo ero. Gabriella era più gentile di me, si preoccupava dei sentimenti delle persone. Era dispiaciuta persino per il figlio della signora Henderson, Brian, che aveva le ciglia così pallide che non si vedevano e che stava sempre a guardarci dalla finestra. Sua madre diceva che era delicato ed «estremamente intelligente». Non sapevo se fosse vero, dato che lui non parlava mai e non esprimeva opinioni su nulla.

Lanciai un’occhiata in fondo alla strada per vedere cosa faceva la mamma. Lei e la signora Henderson stavano parlando, anche se la mamma era avanzata di qualche passo, come se volesse allontanarsi, e ora si stava tirando i capelli in quel suo solito modo nervoso. Poi riuscì a sfuggire e si affrettò in casa.

Io restai immobile. Non avevo ancora voglia di rientrare. Volevo parlare con Gabriella, ma lei stava sminuzzando la foglia d’alloro con lo sguardo fisso in lontananza e batteva il piede sul terreno. Si era dimenticata di me. Aveva una canzone conficcata in testa e ne seguiva il ritmo.

Quando entrammo in casa, papà e mamma erano in cucina e dalle espressioni sulle loro facce era chiaro che c’era qualcosa che non andava. Papà era stravaccato sulla sedia. La mamma era pallida e i capelli con cui poco prima giocherellava erano sfuggiti allo chignon.

«Che c’è?» chiese Gabriella, facendo scorrere lo sguardo dall’uno all’altra.

«Niente», rispose la mamma calma. «Niente di cui dobbiate preoccuparvi.»

Non poteva ingannarci. Stava succedendo qualcosa. Esaminai le varie possibilità. Jasper? No, lui era in un angolo e si godeva il suo latte. La nonna Grace e il nonno? Erano malati? Il nonno prendeva un raffreddore dietro l’altro e spesso era costretto a letto, e la nonna Grace soffriva di artrite. O forse si trattava dello zio Thomas, o del negozio. Guardai papà in cerca di un indizio, ma lui sembrava non essersi nemmeno accorto di noi.

La mamma si appoggiò al lavello. «Andate nelle vostre stanze», disse con voce alterata. «Vi chiamo quando la cena è pronta.»

Non eravamo così ingenue da protestare. Appena uscimmo dalla cucina i nostri genitori ricominciarono a parlare, sussurrando e con tono di urgenza; le loro parole restavano indistinte, ma udimmo il tono alzarsi via via che salivamo le scale. Mi appoggiai al corrimano. «Questo cambia tutto», disse la mamma.

Volevo restare sola. Attraversando il pianerottolo mentre mi dirigevo verso la mia stanza passai in rassegna altre possibilità. Forse aveva qualcosa a che fare con la famiglia Ellis. La mamma era sembrata a disagio quando avevamo lasciato la loro casa. Gabriella era stata evasiva su ciò di cui lei e la signora Ellis avevano parlato. Oppure c’entrava la signora Henderson? Aveva dato delle notizie alla mamma? Forse Brian era scappato, oppure era malato. Tentai di provare compassione per lui, ma senza riuscirci.

Mi sedetti sul letto dondolando i piedi e mangiandomi le unghie. Questo cambia tutto. Così aveva detto la mamma. Ma cos’era questo, e perché era così importante?

Cercando di ignorare quelle domande, tirai fuori il mio ultimo libro di Enid Blyton e mi immersi nelle sue pagine. Trascorse un’ora. Il mio stomaco brontolava. Come mai la mamma non ci aveva chiamate per la cena? Posai il volume, andai sul pianerottolo e infilai la testa dietro la porta di Gabriella. Ancora vestita, si era messa a dormire ascoltando il walkman. Entrai in punta di piedi, osservando il suo petto andare su e giù. Le palpebre tremolavano, indicando che stava sognando. Feci per toccarla, ma poi cambiai idea. “Se la sveglio, si arrabbierà.”

Giunta al piano di sotto, appoggiai l’orecchio alla porta del salotto e sentii le voci dei miei genitori. E di Rita. Quando era arrivata? E cosa poteva essere talmente importante che la mamma aveva dimenticato di darci da mangiare? Stavo morendo di fame.

In cucina mi preparai due panini giganti, ficcandoci dentro Edam e maionese. Tornai ad ascoltare le voci dal salotto, ma non riuscii a capire cosa dicevano. Un movimento vicino alla porta mi fece sussultare. Scappai via, precipitandomi su per le scale. Dopo aver posato uno dei panini accanto a mia sorella addormentata, mi rifugiai in camera mia.

Masticando lentamente e sbriciolando, riflettei su quanto stava accadendo. Segreti. Tra adulti. Ne avrebbero parlato a Gabriella? Dubitavo che chiunque si sarebbe preoccupato di parlarne a me.