21.

La mattina dopo chiamai David. «Sono io», dissi.

«Chi?» Parlò cercando di sovrastare il motore del furgone.

«Anna.»

«Aspetta.» Imprecò in sottofondo, poi la sua voce tornò. «Anna. Non ho tanto tempo per parlare. Ci sei ancora? Che cosa c’è? È successo qualcosa?»

La mia sicurezza si sgretolò. Avevo intenzione di raccontare a David del ritratto, ma non sapevo da che parte cominciare.

Stava imprecando di nuovo. «Sto per entrare in una galleria. Ascolta, sto andando nello Yorkshire. Uno di quei lavori occasionali. Tornerò questa sera tardi. Posso richiamarti a quell’ora?» La linea cadde. Mi sentii stupidamente delusa, ma subito la sensazione si trasformò in sollievo. Sarebbe stato ridicolo confidarsi con qualcuno appena conosciuto.

Cosa avrei dovuto fare? Chiamare la polizia? Il ritratto avrebbe senz’altro destato sospetti, ma sarebbe stato sufficiente per far riaprire un’indagine vecchia di trent’anni? Pensai a Rita. Se c’era qualcuno che sapeva cosa fare, quella era lei. Era sempre piena di idee e consigli. Il giorno prima ero troppo scioccata per parlarle del ritratto, ma ora, con la mente più lucida, mi sembrava ovvio che lei era la persona con cui parlare.

Presi la borsa con dentro il disegno, infilai la giacca e le Doctor Martens e aprii la porta. Faceva freddo e cadeva una pioggerella fine. Afferrai un vecchio ombrello in corridoio e uscii. Sul lato opposto della strada vidi una figura. No. Ancora lei. Maledetta Martha. Cosa diavolo ci faceva lì? Da come guardava, chiunque avrebbe detto che mi stesse aspettando. Indossava l’impermeabile ma non aveva il cappuccio e, sebbene la pioggia stesse aumentando, lei non sembrava farci caso.

Per un attimo fui trasportata indietro nel tempo. Noi due in piedi una di fronte all’altra sulla strada. Martha aveva pianto. Cosa aveva detto? Qualcosa a proposito di biscotti. Proprio così. Un ricordo bizzarro. Provai a completarlo con uno sfondo, ma tutto ciò che vidi fu una folla di persone. Era il giorno della ricostruzione? Chiusi gli occhi. Non volevo pensarci, ora. Non volevo parlare con Martha. Rientrai in casa e mi chiusi la porta alle spalle.

Se non fosse stato così presto, mi sarei scolata una bottiglia di vino. Oltretutto non avevo mangiato. Tirai fuori una padella e una confezione di uova e, mentre mi accingevo a prepararmi una frittata, qualcuno bussò alla porta. Se era Martha, non volevo neanche saperlo. Continuai quello che stavo facendo, sbattei le uova, feci scaldare l’olio. Si sentì ancora bussare, questa volta più forte. E ancora lo ignorai, chiunque fosse.

Quando mi sedetti per mangiare mi accorsi di non avere appetito. Spostai il piatto da una parte e misi sul fuoco il caffè. Mentre aspettavo sentii il rumore della casella della posta, così mi diressi nell’ingresso cercando di non farmi vedere. Davanti alla porta non c’era nessuno. Vidi solo un paio di lettere sul tappeto. Altre due cartoline di persone che non conoscevo, che mi facevano le condoglianze.

Le portai in salotto e le appoggiai sulla mensola sopra il caminetto. Mi cadde lo sguardo sulle buste con i certificati. Avrei fatto meglio ad archiviarli prima che andassero persi. Li tirai fuori e diedi una scorsa ai certificati di nascita e di morte di papà. Non c’era niente che non sapessi già: nome dei genitori, luogo e data di nascita, causa della morte. Mi fermai un istante a ricordare il giorno del suo funerale. Le immagini scorrevano nella mia mente, fotogrammi dello zio Thomas e di Donald vestiti di nero, mia madre, pallida e fragile, un frammento di quella che era stata. E poi io: dodici anni, incerta e piccola, appollaiata su una panca che odorava di lucido, che guardavo la bara chiara attraverso le dita poste a reticolo, mentre la gente intorno a me pregava per l’anima di mio padre e nelle mie orecchie risuonavano ancora le parole di Gabriella: Che senso ha pregare, se Dio non risponde?

Dov’erano i certificati che avevo trovato in soffitta? Guardandomi intorno nella stanza ancora ingombra della roba da buttare che avevo tirato fuori da scaffali e credenze, mi dissi che dovevano essere lì da qualche parte. Sarebbero saltati fuori. Ero troppo impaziente per aspettare.

Esaminai il certificato di matrimonio. Lo sposo. Albert Flores. La sposa. Esther Button. I testimoni, il nome della chiesa, gli indirizzi. E la data: ottobre 1966. E mi fermai.

Ripensai alla storia, quella raccontata più e più volte dalla nonna Grace. Era stata la storia d’amore dell’anno, diceva. Il temporale estivo, mio padre chiamato a pulire il giardino. Amore a prima vista. Il matrimonio era stato celebrato sei settimane dopo. Conoscevo quella storia quasi a memoria, ma non avevo mai saputo la data. Non la data esatta delle nozze. Solo l’anno. Ci pensai. I miei genitori avevano mai festeggiato il loro anniversario? Se l’avevano fatto non lo ricordavo. Forse gli avevano dato poca importanza, l’avevano celebrato in privato, non volevano attirare l’attenzione.

Sentii il gelo pervadermi lentamente. Dita ghiacciate sulla schiena. Ottobre 1966. La data era certa, scritta nero su bianco davanti a me. Tuttavia Gabriella era nata nel marzo del 1967. Non potevo dimenticarlo. Quindici anni di compleanni: filmini con torte e candeline, mucchi di regali, visi paffuti che cambiavano via via che crescevamo. E poi altri trent’anni a immaginare come avrebbero potuto essere i compleanni seguenti, a chiedermi come sarebbero cambiati il volto e il corpo di Gabriella, con chi avrebbe festeggiato, quali doni le avrei portato.

Contavo e ricontavo, la mente paralizzata. La mamma doveva essere incinta di alcuni mesi quando si era sposata. Ma conosceva papà soltanto da sei settimane. Era stata una storia d’amore tanto rapida e selvaggia quanto la tempesta che li aveva fatti incontrare – così diceva sempre la nonna Grace. Ed ero sicura che Gabriella non era nata prematura. Tutti dicevano sempre quant’era bella, che non le mancava niente.

La mamma era rimasta incinta prima di conoscere mio padre. Il pensiero era comparso nella mia mente senza che potessi fermarlo, lo scatto di un’idea che lasciai insinuare nel mio cervello. Presi in considerazione alcune alternative più razionali. L’unica spiegazione verosimile era che la nonna Grace si fosse confusa. Il corteggiamento era durato più di sei settimane, magari sei mesi. Forse il temporale era stato in primavera, non in estate. Si erano sposati perché la mamma era incinta. Ecco com’era andata. Un matrimonio riparatore. I ricordi della nonna Grace erano sbagliati. Oppure aveva mentito. Ma perché l’avrebbe fatto? In ogni caso, che fossero le farneticazioni di una donna anziana o un inganno deliberato, qualcuno l’avrebbe fatto sicuramente notare. Invece nessuno aveva mai detto che la tempesta non era avvenuta d’estate. Né che la durata della storia d’amore era sbagliata.

Con il certificato stretto in mano salii le scale. Avevo la bocca secca e la mente in subbuglio quando mi bloccai davanti alla camera di Gabriella. Non volevo più pensarci. Volevo riavvolgere ogni nuova teoria. Tuttavia restava quel dato di fatto iniziale. «Mio padre non era il padre di mia sorella.» Lo dissi ad alta voce. Due, tre volte. Ogni volta più forte. Restando in ascolto del suono prodotto da ogni parola che si diffondeva nella casa, sperando di cogliere la falsità di una menzogna, e invece sentendo solo lo squillo della certezza.

Perché i miei genitori avevano mentito? Perché avevano negato a Gabriella la possibilità di conoscere la verità su suo padre? Perché non avevano detto niente a me? Entrambe avevamo il diritto sacrosanto di sapere quale rapporto c’era tra noi. Non che avrebbe fatto una qualche differenza. Niente avrebbe potuto cambiare quello che provavo. Gabriella era mia sorella. Questo non poteva togliermelo nessuno.

Aprii la porta. La stanza era rimasta esattamente come l’ultima volta che ci ero entrata, poco prima di partire per la Grecia. La mamma, negli anni, si era rifiutata di modificarla, anche se non mi aveva mai proibito di andarci e teneva sempre tutto pulito. Lo zio Thomas diceva che faceva così perché non aveva mai voluto perdere la speranza. Se avesse messo via la roba di Gabriella sarebbe stato come ammettere che non sarebbe mai tornata.

Mi inginocchiai sul tappeto. La valigia era sotto il letto. La mamma aveva lasciato lì anche quella, in attesa che Gabriella tornasse a casa a disfarla. Mi coricai, mi raggomitolai su un fianco rivivendo la tristezza che avevo provato il giorno del nostro litigio, la spirale di terrore quando mi aveva detto che se ne sarebbe andata. Avevo cercato di fermarla mentre preparava i bagagli, ma lei non mi aveva ascoltata e mi aveva scacciata. Dopo, mi aveva messo un braccio attorno alle spalle. Ricordavo le sue parole con precisione: «Sei mia sorella. Niente potrà cambiare questo».

Poi mi sedetti sul letto, fissando il certificato che stringevo in mano. Ma certo che ero sua sorella. E, di colpo, capii. Le discussioni, i rancori tra Gabriella e i miei genitori, quella volta che era scappata fuori dal salotto mentre la nonna Grace raccontava per l’ennesima volta quella vecchia storia trita e ritrita... la storia d’amore... la bugia. Gabriella sapeva che eravamo sorellastre. L’aveva scoperto, e forse quel giorno mi aveva accennato la verità, aveva cercato di farmi sapere che avere padri differenti era qualcosa che non ci toccava. Eravamo sorelle. Niente avrebbe cambiato questo. Se solo l’avessi incalzata perché mi dicesse che cosa intendeva davvero... Se solo le avessi chiesto di spiegare...

Cercai di sgombrare il campo dai preconcetti su mia madre, mio padre, mia sorella e su me stessa. Volevo ricominciare da capo, disporre davanti a me pensieri e ricordi come su una tela bianca e osservarli con uno sguardo nuovo. Ma ero frastornata da quella consapevolezza che, lentamente, cominciava a crescere in me. E lasciai la stanza in cerca di prove.

Nella camera di mia madre studiai con attenzione ogni mobile, ogni quadro, fotografia e soprammobile. Cosa c’era, nascosto lì? Quali segreti avrebbero fatto luce sui miei sospetti? Seduta al tavolino da toilette, fissai il mio riflesso nello specchio. Qualche capello grigio faceva capolino tra quelli scuri, ricordandomi che ero più vecchia di quanto lo fosse la mamma quando Gabriella era scomparsa. Che aspetto avrebbe avuto mia sorella, dopo tutto quel tempo? I disegnatori della polizia potevano invecchiare i bambini scomparsi utilizzando software complicati e la fisionomia dei familiari. Come avrebbero invecchiato Gabriella? Avrebbero finito per farla somigliare a una versione di me con i capelli chiari? Oppure le differenze che c’erano tra noi, la diversità dei nostri geni, ci avrebbero rese ancora più lontane?

Aprii e chiusi i cassetti. Cosa stavo cercando? Cosa potevo sperare di scoprire, che non fosse già stato trovato? Rovistando nel portagioie, presi il ciondolo con lo smeraldo. Mi ricordava l’anello della mamma, quello che di tanto in tanto tirava fuori e ammirava, senza però indossarlo mai. Avevo sempre pensato che facesse così perché era molto prezioso e non voleva perderlo.

Dov’era quell’anello? Non l’avevo visto, da quando ero tornata a casa. La mamma era stata sepolta con la fede: non immaginavo che mi sarei mai sposata e, comunque, sarebbe dovuta passare a Gabriella, visto che era la maggiore. Ma l’anello di smeraldo, quello mi sarebbe piaciuto averlo.

Svuotai il portagioie e sparpagliai tutto sul piano della toilette. Niente anello. Aprii di nuovo i cassetti, desiderando disperatamente di trovarlo. E poi eccolo, in una scatolina racchiusa in un sacchetto di raso legato con un nastrino. Me lo infilai al dito. Era largo, avevo sempre avuto le dita sottili. La mamma era diventata così magra dopo la scomparsa di Gabriella, non mangiava quasi niente. Forse l’anello era diventato troppo largo anche per lei.

Mi avvicinai alla finestra e ammirai la pietra alla luce. Fuori, le persone camminavano sotto la pioggia, reggendo gli ombrelli con diverse angolazioni, come in un dipinto di Renoir. Cercai Martha, ma se n’era andata. Mattie passava di lì. Si fermò e tirò fuori il cellulare con un’espressione concentrata – mi ricordava Rita. Vide che lo stavo guardando, sorrise e mi salutò tracciando un ampio arco con la mano. Era uno dei gesti di Rita.

Tornai a sedermi alla toilette. L’anello mi scivolò dal dito e sbatacchiò sul legno. L’avrei fatto sistemare ma, nel frattempo, l’avrei infilato nella collana. Sembravano fatti per stare insieme. La mamma li avrà comprati nello stesso posto? Sollevai la scatolina, la girai ed esaminai la scritta. Lettere dorate, troppo piccole perché riuscissi a leggerle. Frugai nella borsa e tirai fuori gli occhiali. Ora potevo distinguere le parole. LA PLATA, CALLE PÁJARO, SEVILLA.

I ricordi tambureggiarono nella mia testa. Cercai di concentrarmi su quello che avevo letto, ma una nuvola nera era scesa ad avvolgermi il cervello, rallentandomi, impedendomi di pensare. Con uno sforzo immane mi scrollai quella sensazione di dosso e fissai intensamente le parole. Le avevo già lette prima. Dovevo spremermi ancora un po’ le meningi e mi sarei ricordata dove.

E poi mi fu chiaro. Avevo visto l’indirizzo su una delle fatture a casa di Edward Lily. Lasciai che quell’idea mi permeasse la mente. Perché mia madre aveva comprato dei gioielli in quel negozio? O era stato mio padre a prenderle dei regali? Passai di nuovo in rassegna il contenuto del portagioie, osservando le scatole, ma erano tutte marchiate con nomi di negozi di Londra. Era solo una coincidenza? Proprio quella collana e quell’anello?

Dall’esterno filtrarono dei rumori. Una donna, per la strada, chiamava suo figlio. Il suono di una tromba. Esercizi musicali. In lontananza, un camion annunciò di aver inserito la retromarcia. Erano rumori normali. Vita normale. Mi attirarono di nuovo alla finestra. Mattie era ancora lì, parlava con un amico, gesticolava mentre raccontava una storia. Ancora Rita. La riconoscevo nel modo di muoversi di suo nipote.

Scesi le scale. Resistetti all’impulso di aprire quella bottiglia di vino. Invece mi sedetti al tavolo della cucina e feci scorrere le dita sul legno, percependo i graffi del tempo. La cucina non era cambiata molto. Guardandomi intorno posai gli occhi sul cibo che avevo preso dalla credenza. Scatole di zuppa Campbell’s: la dieta di mia madre negli ultimi anni. Vecchi pacchi di riso. Una confezione dimenticata di curry. E barattoli di marmellata coperti di polvere, le scritte sulle etichette sbavate e sbiadite.

Non avevo bisogno di guardare per sapere che le date sulle etichette erano tutte antecedenti il 1982. Dopo la scomparsa di Gabriella la mamma non aveva più fatto la marmellata. Nessuno aveva più raccolto la frutta in giardino. Anno dopo anno era caduta e marcita, una poltiglia rancida che filtrava nel terreno. Io non ero più andata alla fiera, non senza mia sorella. Solo una volta, poco prima di lasciare il villaggio per trasferirmi a Londra, mi ero incamminata giù per Devil’s Lane, fermandomi poco prima della scaletta. Avevo sentito la musichetta della giostra ed ero tornata indietro.

Ora mi costrinsi a ricordare quell’ultima fiera. La giornata guastata dall’incidente di papà. Si era fatto male alla mano, in una rissa. Quella, almeno, era stata la mia supposizione, anche se Gabriella non ci aveva creduto. E c’era stata un’altra rissa, in cui era stato coinvolto il signor Ellis. E Gabriella mi aveva abbandonata sulla giostra. E che dire della valigia, e dei sospetti della mamma, che mi aveva chiesto di spiare mia sorella? Oppure quello era successo prima? Mi strofinai gli occhi, nel tentativo di riordinare i ricordi.

Allungando una mano, sparsi le fotografie sul tavolo. Edward Lily. Tutto riconduceva a lui. Eppure i miei genitori erano convinti che non avesse niente a che vedere con la scomparsa di Gabriella. Collocai il suo arrivo al villaggio nell’arco temporale che stavo esaminando. L’estate del 1982. Pochi mesi prima che mia sorella sparisse. Quando la nostra famiglia cominciò a disintegrarsi.

E Lydia, che ragazza strana. Sarei ingenerosa se dicessi che era matta. Adotterei lo stesso linguaggio usato dalla gente del villaggio. Tutti la definivano così. Tutti, tranne i miei genitori. Loro non spettegolavano come gli altri.

Osservai la foto di Lydia in Spagna e la sollevai portandola a poca distanza dal mio volto: i capelli, l’aspetto, quel sorriso segreto. Era una ragazza bella, misteriosa. Presi il ritratto di Gabriella dalla borsa e glielo posai accanto. L’artista aveva dimostrato del talento nel catturare i capelli di Gabriella, l’aspetto, quel sorriso segreto.

Mi mancò il fiato.

Avevo pensato che Edward Lily fosse ossessionato da Gabriella, anche se lei era abbastanza giovane da poter essere sua figlia. E ora capivo. Spostai lo sguardo dal ritratto alla fotografia. Sorelle. Non c’era da stupirsi se così tante volte mi ero sentita attratta da Lydia. Non c’era da stupirsi se avevo sentito un legame con quella foto. Una volta avevo persino scambiato Lydia per Gabriella, quel giorno nel bosco, quando stavo cercando mia sorella.

Edward Lily e mia madre erano stati innamorati. Abbastanza innamorati da scambiarsi dei regali. Una collana con un ciondolo di smeraldo. Un anello di smeraldo. Lydia era la sorellastra di Gabriella. Edward Lily era il padre di Gabriella.

E mio padre lo sapeva. Ne ero sicura. E aveva cercato di recuperare, amando Gabriella quanto me, o forse addirittura più di me. Lavorava sodo ogni giorno, per tessere l’immagine perfetta: noi quattro. L’arazzo ideale della vita in famiglia. Quanto doveva essersi disperato quando Edward Lily era arrivato al villaggio, minacciando di disfare quel tessuto ricamato, punto per punto. Che cosa sarebbe stato disposto a fare, pur di impedire a Edward Lily di prendersi quello che amava?

E fin dove sarebbe arrivato Edward Lily per avere Gabriella?