2.

1982

Avevo sentito dire che un tizio che veniva dalla Spagna si sarebbe trasferito nel nostro villaggio insieme alla moglie pazza, e la curiosità mi divorava. Avevano comprato il Lemon Tree Cottage, una casa al limitare del bosco, vuota da anni. Il fatto che la moglie fosse pazza era soltanto un pettegolezzo, però l’idea mi piaceva. Le mogli pazze sono materiale da romanzo, e ora ne avremmo avuta una vera a un tiro di schioppo.

Sarebbero arrivati quel sabato, e avevo intenzione di sgattaiolare fuori per spiarli. Ma la mamma aveva altri piani. Mi aveva svegliata chiamando Gabriella a gran voce. Sarebbe stata una giornata calda, perfetta per lavorare in giardino. Afferrando gli occhiali, arrivai nella camera di mia sorella giusto in tempo per assistere alle sue recriminazioni.

«Dobbiamo proprio?» disse, tirandosi le coperte sopra la testa.

«Sì, Gabriella», rispose la mamma, spalancando le tende. «Dopodiché potrai rimettere in ordine la tua stanza. Sembra che qui dentro sia passato un bulldozer.»

«Ma devo fare i compiti!» si lamentò lei. «Ho gli esami!»

«Quelli li avrai il prossimo anno», tagliò corto la mamma. «Il prossimo anno sarai giustificata. Quest’anno ti darai da fare in giardino. Anche tu, Anna.» Uscì dalla stanza e la sentimmo scendere pesantemente le scale.

«Cristo santissimo e Dio onnipotente!» sbottò Gabriella, che negli ultimi tempi tendeva a essere blasfema. «Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?»

Mi lasciai cadere di peso sul suo letto e incrociai le braccia, colpendomi il petto. Il giardinaggio non corrispondeva granché nemmeno alla mia idea di divertimento, e aveva rovinato i miei programmi per la giornata. Diedi uno sguardo alla stanza investita dal bulldozer. Il pavimento era un’unica massa di vestiti, trucchi, cassette rovinate e dischi senza custodia. Raccolsi dal mucchio un rossetto viola, ruotai il tubetto e lo provai sulla mano. Poi chiusi gli occhi e mi immaginai con quel rossetto sulle labbra. Ero Kate Bush. Mi vedevo piroettare con indosso uno degli abiti di Gabriella, lanciarmi nella break dance e fare un windmill sul palcoscenico.

«Lo so cosa stai facendo», fece lei da sotto le coperte. Si mise a sedere d’improvviso, gli occhi scuri per il trucco del giorno prima, i capelli sparati all’insù come un’onda elettrica. Sogghignai impacciata e le allungai il rossetto. «Tienilo», disse con un tono eccessivamente enfatico. «È tutto tuo.»

«Sul serio?»

«Già. In cambio della prossima faccenda domestica.»

«Ragazze!» La voce della mamma fluttuò su per le scale. «La colazione non si prepara da sola!»

Gabriella mi fece l’occhiolino, afferrò il suo walkman e si rimise comoda sotto le coperte, mentre io mi trascinavo fuori dalla stanza, stringendo il rossetto.

Trascorremmo la mattinata al sole, a strappare le erbacce mentre la mamma falciava il prato. Per sbrigare quel lavoro si era messa una vestaglietta rosa e un paio di stivali marroni di papà. «Rischiare le dita dei piedi non ha alcun senso», aveva detto. Osservavo la sua sagoma esile che spingeva avanti e indietro il pesante macchinario, lasciandosi alle spalle una scia d’erba. Nel capanno c’era un Flymo che papà aveva comprato sei mesi prima. Lei l’aveva portato in giardino ed eravamo rimasti lì in piedi, in fila, tutti e tre, a guardarla che ci girava intorno, annusando l’aria e dichiarando che preferiva quello che aveva già.

La mamma finì il lavoro e scomparve dentro casa, lasciandoci il compito di rastrellare. Balzammo in piedi, ben felici di allontanarci da erbacce e vermi, e facemmo a turno per rastrellare, raccogliere, sommergerci d’erba a vicenda e ridere a crepapelle prima di trasportare tutto quanto sulla pila degli scarti da bruciare. Nessuna delle due era vestita in maniera adeguata. Gabriella con gli stivali e il vestito nero con le maniche a rete, che attiravano il calore e s’impigliavano nei rovi, io con i jeans e una pesante felpa gialla che la mamma aveva comprato per dieci pence alla vendita di beneficenza. A un certo punto persino ridere diventò troppo faticoso; raccogliemmo gli ultimi rimasugli d’erba e ricacciammo il tosaerba nel capanno, sperando che nessuno si accorgesse che non era stato pulito.

Ci stendemmo sul prato ispido, sotto il susino, con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto come se fossimo morte. Il profumo dell’erba tagliata e della lavanda permeava l’aria. Un piccolo aeroplano ronzava in lontananza e un insetto mi si posò in faccia. Sentivo il battito pigro delle sue ali ma non avevo voglia di cacciarlo via con la mano.

Quando riaprii gli occhi c’era un nibbio reale che volava temerariamente in tondo, le ali spalancate, volteggiando nel cielo senza fine. Lo osservai finché non si tuffò in picchiata, scomparendo dal mio campo visivo. “Povero topo”, pensai. O il topo era già morto? Erano i nibbi che mangiavano le carogne? Oppure cacciavano carne viva? Allontanai il pensiero di un uccello che lacerava una creatura con gli artigli e mi voltai verso Gabriella. Era sdraiata perfettamente immobile, la pelle pallida in aperto contrasto con il trucco e il vestito. Una Morticia dai capelli chiari (o una vampira, come diceva papà). Il torace si muoveva ancora?

«Gabriella», dissi. Nessuna risposta. «Gabriella», ripetei più forte, con la voce velata d’angoscia mentre la pungolavo con l’alluce.

Ci fu una lunga pausa e poi un «Sì?».

I battiti del mio cuore rallentarono. «Niente», ribattei, cercando di apparire tranquilla.

Aprì un occhio. «Pensavi che fossi morta?»

«Certo che no.»

Mi girai, in modo che non mi vedesse la verità stampata in faccia. Ero convinta che se immaginavi delle cose orribili non sarebbero successe davvero. Non potevano succedere perché, altrimenti, significava che eri capace di predire il futuro, e quello non poteva farlo nessuno. A quel punto cercai di concentrarmi su qualcos’altro. L’immagine del Lemon Tree Cottage mi balenò davanti e si dissolse silenziosamente. Gabriella non ci sarebbe mai venuta. Spiare non faceva per lei. Proposi di andare a trovare papà.

Mia sorella sospirò. «Ancora? Deve pur esserci qualcosa di meglio da fare.»

«Tipo?»

«Ascoltare musica, guardare la TV...»

«Riordinare la tua stanza...» Feci partire un conto alla rovescia silenzioso. Quando arrivai a cinque aveva già accettato di seguirmi.

La Casa di Flores era un edificio lungo e angusto, addossato agli altri negozi di High Street. Nella mia fantasia lo vedevo come fosse un anziano, ingobbito e puntellato com’era, e pensavo che dentro ci fossero tutti i pensieri rimescolati di quel vecchio: i tavolini e le seggiole instabili, le stoviglie e le decorazioni sbeccate, i quadri appesi a casaccio sulle pareti. Una delle stampe somigliava a Gabriella – ma senza la capigliatura disordinata. Un Modigliani. Era il ritratto di una ragazza col viso stretto e gli occhi a mandorla.

Papà, di solito, stava al bancone, curvo sull’articolo che era impegnato a valutare, concentrato sul suo compito. Ce l’avrebbe descritto: epoca, destinazione d’uso, materiale. Di tanto in tanto ci chiedeva di indovinare. («È il ritratto di una regina. Sono perle per una principessa.» «No, no. Quella è una duchessa e queste non sono perle vere, sono sintetiche.») Altre volte sfilavamo, provandoci i vestiti – abiti di velluto e mantelli, sciarpe di seta e cappelli –, agghindandoci come personaggi del passato.

Ma quando quel giorno aprimmo la porta e il tintinnio della campanella annunciò il nostro arrivo, di papà non c’era traccia. Rimanemmo in ascolto nel silenzio polveroso finché non giunsero dei rumori dal retro: strascichii e grugniti, mobili trascinati sul pavimento di legno, il tonfo improvviso di qualcosa che cadeva. E poi la sua voce: «Madre mía!».

«Sgombero», aveva mormorato Gabriella.

Sapevamo entrambe che cosa significava: papà avrebbe passato ore e ore a frugare nella vita di una persona morta. Sarebbe tornato a casa tardi portandoci dei regali e sommergendoci di racconti su quello che aveva trovato: una copia rilegata del Paradiso perduto, un piatto di porcellana con un drago dipinto, un plico di fotografie, l’intera esistenza di qualcuno, dall’infanzia all’età adulta, legata con un nastrino sbiadito. Gli sgomberi erano una scommessa. Ecco che cosa ci diceva. Tutte quelle ore passate a scegliere storie. Di solito gli oggetti che trovava non valevano niente per nessuno, a parte lui. Altre volte, spingendosi più in profondità, scopriva un fossile. Qualcosa di valore. E, se eravamo sfortunate, coinvolgeva anche noi negli scavi.

Gabriella si mise l’indice davanti alla bocca e poi cominciammo ad arretrare, guardandoci negli occhi, sperando che il tintinnio della campanella coincidesse con i rumori prodotti da papà. «Ragazze, siete voi?» Sentimmo filtrare la sua voce. La porta si richiuse sbattendo ed eccoci fuori, di corsa lungo High Street e su per Chestnut Hill, mentre dentro di me esplodevano risate gorgoglianti e una fitta mi azzannava il fianco.

«Fermati! Fermati!» esclamai, svoltando in Devil’s Lane e buttandomi a terra. Gabriella si mise a sedere vicino a me e si appoggiò alla mia spalla. Ascoltavo il suono del suo respiro e il silenzio che ci circondava. Devil’s Lane era una scorciatoia per raggiungere il parco. Scura e sassosa, delimitata da alte siepi, con una fila di case il cui retro dava sui boschi. Nessuno sapeva di preciso perché si chiamasse così, anche se una leggenda raccontava di un ragazzo la cui innamorata era morta di febbre. E lui aveva stretto un patto col diavolo: la propria anima per un’altra giornata da passare insieme a lei.

A volte, quando non rincorrevamo i fantasmi nel viottolo, giocavamo a «Che cosa faresti se ti rimanesse soltanto un giorno?». A Gabriella sarebbe piaciuto gironzolare nel reparto musica di Our Price e rubare un bacio al ragazzo dallo sguardo assonnato che lavorava lì. Per me era più difficile decidere. Alla fine avevo pensato che sarei andata dove andava Gabriella. Niente sarebbe stato meglio.

Lei si frugò nelle tasche e tirò fuori un pacchetto di tabacco Old Holborn. Io lo osservai con sospetto. «È di papà?» chiesi.

Gabriella sogghignò mentre riempiva una Rizla, arrotolando la carta e leccando il bordo con la punta della lingua. «Problemi?» Mi strinsi nelle spalle. L’avevo vista fumare un sacco di volte, quindi non era una sorpresa. «Tranquilla», aggiunse, «non è suo.»

«Da dove viene?»

«L’ho comprato, naturalmente.» Accese la sigaretta sottile con uno Zippo d’argento che senza ombra di dubbio apparteneva a papà.

La osservai mentre inspirava togliendosi dai denti dei filamenti di tabacco. Portava un rossetto rosso. Macchiava la sigaretta, facendola sembrare accesa su entrambe le estremità. Le immaginai bruciare e scoppiettare fino a scontrarsi nel mezzo, esplodendole in faccia come un fuoco d’artificio. «Non dovresti fumare», la rimproverai.

«Per te è facile dirlo, piccoletta. Aspetta di avere la mia età. Scommetto che allora proverai.»

«No, non lo farò. E comunque non dovresti incoraggiarmi.»

Piegò la testa di lato. «Signorina Perfettina.»

Mi voltai dall’altra parte. Odiavo quando mi chiamava così. Lei allungò la mano e mi arruffò i capelli. «Sto scherzando. Sono felice che te ne freghi qualcosa, sul serio. Anche a me importa di quello che fai. Se mai ti vedrò fumare, ti darò uno schiaffo sulla mano facendoti cadere la sigaretta a terra.» E, come per offrirmi una dimostrazione, schiacciò con forza la cicca sul selciato e la pestò con lo stivale.

Alla fine del viottolo saltammo su una scaletta malandata, poi attraversammo il prato per raggiungere il parco giochi ricoperto di graffiti. C’erano alcuni ragazzi con i capelli a punta che fumavano e bevevano dalle lattine. Ci guardarono passare, gli occhi fissi su Gabriella. Le lanciai un’occhiata di sbieco e, dal suo sorriso, capii che sapeva di essere osservata. Tracannava la loro ammirazione come io tracannavo le mie lattine di Lilt, e all’improvviso fui investita dal vertiginoso presentimento che sarebbe scivolata via. Le misi una mano sul braccio e la tirai verso di me. Lei non fece resistenza. I ragazzi erano dietro di noi e sentii il calore del suo fianco contro il mio.

Una volta giunte al limitare del prato, mi riapparve l’idea del Lemon Tree Cottage, e questa volta proposi di andarci.

«Perché?» domandò Gabriella.

«Perché ci abita gente nuova.»

«E quindi?»

Mi strinsi nelle spalle, cercando di escogitare una risposta che potesse piacerle. «Non abbiamo nient’altro da fare, a parte aiutare papà con l’inventario dello sgombero o la mamma con la cena.»

«Aiutali tu, se vuoi.»

«Io ho preparato la colazione.»

Aggrottò le sopracciglia. «E io ti ho dato il rossetto.»

Imitai la sua smorfia. «Quello era per una faccenda. E comunque la mamma non te la farebbe passare liscia.» Sapevamo entrambe quanto nostra madre fosse pignola in fatto di turni e quanto ci tenesse a prepararci alla vita domestica.

Vedendo che Gabriella si arrendeva, sogghignai e la guidai lontano dal prato e su per Chestnut Hill.

All’inizio la strada era stretta, quasi a una sola corsia; attraversava il villaggio serpeggiando, costeggiando file di cottage e ripiegandosi su sé stessa per superare la chiesa. Poi diventava più larga, sfociando bruscamente nella campagna, e le auto scorrevano più rapide, sollevando la ghiaia. Le siepi, qui, crescevano come frange incolte lungo entrambi i lati dell’asfalto, anch’esso malridotto, pieno di buche e di cunette. C’era un campo isolato pieno di mucche che ciondolavano i testoni contro la staccionata. E una montagna di terra rivoltata, da cui emergevano gli scheletri delle case che facevano parte del nuovo complesso residenziale.

Giunte alla sommità della collina, svoltammo in un sentierino pietroso che portava al bosco e superammo un cottage con il tetto rovinato: alcune strisce di paglia erano rovesciate e ingiallite nella parte sottostante. Erano state beccate dalle taccole. Mi ricordavo l’articolo, sul giornale locale. L’avevano definita la cosa più bizzarra accaduta nel villaggio negli ultimi anni. Ora il fumo usciva dal comignolo – nonostante il caldo – e una donna stendeva il bucato a fianco della casa, mentre un bambino piccolo giocherellava ai suoi piedi. La donna ci guardò mentre passavamo. Poi uscì un uomo in tuta da lavoro e si fermò sulla soglia a fumare, appoggiato allo stipite.

La seconda casa era il Lemon Tree Cottage. Quel posto non aveva una storia particolare, era soltanto vuoto e si trovava vicino alla villetta delle taccole. Ma, al pensiero di una matta rinchiusa in soffitta, lo osservavo con rinnovato interesse.

La costruzione incombeva come un’ombra dietro un intrico di verde profondo. Dal cancello, un vialetto di ghiaia si faceva faticosamente largo attraverso il giardino, srotolandosi intorno a una fila di vasi di terracotta rotti. Una pianta dai fiori viola scuro a forma di stella si arrampicava di traverso sulla porta e scendeva come una cascata lungo i muri. Non c’era alcun segno di vita, niente persone o rumori, solo una cupa immobilità che gravava nell’aria, come per risucchiarne il respiro.

Stavo osservando la trama a rombi delle vetrate, quando all’improvviso una sagoma guizzò dietro una delle finestre del pianterreno. Fissai lo sguardo in quella direzione, ipnotizzata. Si era mossa con leggerezza e si era volatilizzata alla svelta, scomparendo nell’ombra.

«Di sopra», sibilò Gabriella dandomi una gomitata.

Una ragazza. Nella cornice della finestra. I capelli chiari che le fluttuavano attorno alle spalle.

Poi lo scricchiolio dei passi sul ghiaietto. Un uomo che poteva avere all’incirca l’età di papà sbucò da dietro l’angolo della casa. Rabbrividii come un animale in trappola. Era pallido – lo erano il viso e i capelli, addirittura i vestiti – e guardò Gabriella dritto negli occhi. «Andiamocene», bisbigliai prendendola per un braccio. Per un istante lei oppose resistenza. Tirai più forte finché non cedette. E poi la trascinai con me di corsa giù per la strada, voltandomi una sola volta per guardare l’uomo che ci fissava da dietro il cancello.