20.
1982
La domenica il detective Sayers arrivò da solo. Era più giovane del mio poliziotto. Aveva i capelli neri, unti, e un mento appuntito, rasato di fresco. «Ricominciamo dall’inizio», mi disse, accavallando le gambe e sfogliando un fascicolo. «Prenditi tutto il tempo che ti serve.»
Ripercorremmo i movimenti di Gabriella, parlando e parlando finché la mia testa non cominciò a vorticare. Incespicavo nei pensieri e mi scordavo i dettagli. E mi sembrò – di nuovo – che avrei dovuto sapere qualcosa, che ero io a possedere la risposta su dove Gabriella fosse finita.
Il detective Sayers fece una pausa, si inumidì il polpastrello con la punta della lingua e rigirò le pagine del dossier tornando al principio. «Tom», disse. «Avete visto Tom. Avete parlato con lui?» Scossi la testa. «Niente di niente? L’avete salutato con la mano, l’avete chiamato, qualcosa del genere?»
Chiusi gli occhi, sforzandomi di ricordare. «Lei ha sorriso», dissi alla fine.
«Sorriso?» ribatté subito lui. «Gabriella, intendi?» Annuii. «E Tom ha ricambiato il sorriso?»
«No, non credo. Tom non sorride mai.»
Il detective Sayers lanciò un’occhiata ai miei genitori. «E quando l’avete lasciato... che cosa ha fatto?»
Cercai di rimettere a fuoco la scena, ma non me la ricordavo. Eppure questo poliziotto pensava che quello che aveva fatto Tom fosse importante. Contava su di me per saperlo e io non ero capace di spiegarglielo. Se solo avessi potuto dirgli che non avevamo mai incontrato Tom, forse allora Gabriella sarebbe stata ancora lì.
«C’è qualcos’altro che ti viene in mente?» domandò il detective, sospirando leggermente. «Hai parlato di una lettera, vero? L’hai detto all’agente Atkins.» Fece una pausa e tamburellò con la matita sui suoi piccoli denti aguzzi. «Ti viene in mente qualcosa che si possa collegare a questo? Hai visto tua sorella parlare, per esempio, con un ragazzo o con un uomo che non conoscevi?»
Aggrottai le sopracciglia. La mia mente andava a ritroso, vagliando ogni persona che avevo visto con Gabriella.
«Forse non li hai visti parlare», mi incalzò. «Forse ti sei solo accorta che la guardavano.» Distese le gambe. «Quello che voglio dire è che potrebbe esserci qualcuno di nuovo da queste parti... magari negli ultimi giorni... o settimane.» Mi spostai a disagio sulla sedia e lui si sporse in avanti. «Anna?»
«C’è qualcuno», sussurrai.
«Un uomo?»
Annuii. «Vive al Lemon Tree Cottage. Ha guardato Gabriella, ma non sono sicura che...» Mi bloccai e rivolsi lo sguardo verso i miei genitori. I loro visi erano impietriti.
Il detective Sayers sbatté le palpebre e accavallò di nuovo le gambe. «Tanto per esserne sicuri... che aspetto ha quest’uomo?»
«Porta il cappello.» Guardai di nuovo i miei genitori, ma entrambi continuarono a rimanere in silenzio e, all’improvviso, non ero più sicura di cosa avrebbero voluto che facessi. Chinai il capo per la disperazione e cercai di ricacciare indietro le lacrime, ma sgorgarono lo stesso e mi rotolarono giù per le guance. «Si chiama Edward Lily.»
Nella stanza scese il gelo, come se la temperatura fosse precipitata all’improvviso. Papà si alzò in piedi. «Basta così», disse.
«C’è qualcosa che vorrebbe aggiungere, signor Flores?» fece il poliziotto con sguardo indagatore.
«Annie», disse papà, allungando la mano verso di me. «Non c’è bisogno che tu rimanga.» Mi accompagnò nella mia stanza. Ecco quello che volevo: stare da sola, stendermi sul letto e far riapparire Gabriella con la forza della mia immaginazione. Ma dopo mi sentii ancora peggio perché papà mi diede un bacio sulla fronte e mi accarezzò i capelli, poi mi lasciò sola. E, indipendentemente da quanto cercassi di trattenerla nella mia mente, non riuscii a riportare indietro Gabriella.
Il lunedì le ricerche si allargarono fino ai boschi, ma anche nei giardini della gente e nelle loro dépendance esterne: capanni, serre, persino i pollai.
Gli uomini col treppiedi erano ancora lì, ma a loro se ne erano aggiunti molti altri; fumavano, o chiacchieravano a bassa voce con le mani in tasca. Attorno, le case erano silenziose, le finestre e le porte sprangate, le tende tirate, le luci spente, quasi l’intera via si fosse calcificata come una fila di fossili di Donald.
I giornalisti erano rimasti tutta la notte, avevano fumato ancora, illuminati dalla luce del lampione, e le loro voci erano filtrate dalla finestra socchiusa. Di tanto in tanto un vicino – l’uomo con la figlia appena nata – li affrontava. Una volta uscì anche sua moglie. I capelli sciolti sulle spalle, era in vestaglia e stringeva la bambina, avvolta in una copertina rosa. Gridò qualcosa a proposito del pubblico decoro e del rispetto, ma tutto quello che fecero fu scattarle una foto e sbraitarle dietro quando rientrò.
La casa era diversa senza Gabriella. Rimasi coricata a letto ad ascoltare i sospiri e i borbottii delle tubature dentro i muri. C’era un vuoto, un’immobilità. Gabriella creava suoni. Mi mancava parlare con lei, i suoi commenti divertenti a tavola mentre facevamo colazione, il modo in cui punzecchiava la mamma e lusingava papà per averla vinta
Cercai la lettera, ma non c’era da nessuna parte. Forse i poliziotti l’avevano già trovata? Non me ne avrebbero parlato? Non mi avrebbero chiesto se fosse quella a cui avevo fatto cenno? Cercai anche il walkman di Gabriella ma non trovai neppure quello. Doveva averlo portato a scuola, nascosto nello zaino. Avrebbe ascoltato le sue canzoni preferite mentre camminava per la strada, per venire da me. Se mai si era messa in moto per venire da me. Andai a stendermi sul suo letto, pensando a tutto questo, tentando di adattarmi alla conca sul materasso, esattamente come faceva lei, poi misi su i suoi dischi, piano, in modo che la mamma non sentisse, e provai a riempire il silenzio che Gabriella aveva lasciato nella mia testa.
Una settimana dopo la scomparsa, le ricerche erano rallentate. Trovai un giornale abbandonato sul tavolo della cucina. Sulla prima pagina c’era una fotografia di Gabriella, una foto della scuola, scattata l’anno prima. Le accarezzai il viso, col fiato che usciva a singulti brevi. C’era anche una foto di Tom, senza il suo carrello, e una della signora Ellis con un foulard avvolto attorno al collo.
La signora Ellis era una testimone. Era per strada alle cinque, il giorno in cui Gabriella era sparita. Stava aspettando che sua figlia tornasse a casa da scuola dopo una lezione del pomeriggio. E mentre era davanti a casa sua aveva visto Tom e Gabriella che parlavano. «Lì per lì non ci ho pensato», aveva detto nell’intervista. E ora Tom era un sospettato.
Rimisi giù il giornale. Era tutto sbagliato. Avevo visto Tom spostare il carrello sulla strada per evitare una lumaca e l’avevo visto piangere mentre raccoglieva un riccio investito. L’avevo visto rimanere fermo per dieci minuti ad ascoltare il canto di un merlo. Tom non avrebbe mai fatto del male a Gabriella. Non avrebbe mai fatto del male a nessuno.
Nei giorni successivi cercai di raccogliere più informazioni possibile. Origliavo dietro le porte quando la polizia aggiornava i miei genitori e leggevo i giornali che trovavo incastrati fra i cuscini del divano o nascosti nei cassetti.
Tom aveva ammesso di aver visto Gabriella in Acer Street verso le cinque. Era da sola, in quel momento. Pensava che lei l’avesse salutato, ma non ne era del tutto sicuro. Gli sembrava che Gabriella fosse con un’amica, una ragazza della stessa età, ma poteva anche essere un uomo, non lo sapeva proprio. Era confuso. Spesso si dimenticava le cose. Una volta aveva scordato la strada di casa: sua madre aveva chiamato la polizia e l’avevano trovato che vagava nei boschi. Un’altra volta si era dimenticato il suo carrello, l’aveva lasciato sul ciglio della strada. Qualcuno l’aveva rubato ed era andato a farsi un giro. L’avevano ritrovato nel lago. Tutte queste storie erano scritte sui giornali.
Le cose cambiarono nuovamente. Il signor Sullivan, un ottantacinquenne conosciuto da tutti al villaggio, un membro della chiesa che aveva sempre vissuto nella casa di fianco a quella di Tom, si fece avanti. Era un uomo rispettato e nel quale tutti nutrivano fiducia, solo un po’ smemorato, e questo era il motivo per cui non era andato prima alla polizia. Ora ricordò che il giorno della scomparsa di Gabriella, mentre andava in farmacia, aveva incontrato Tom in High Street subito dopo che la signora Ellis l’aveva visto vicino a casa sua. Significava che Tom non avrebbe avuto il tempo di fare nulla a Gabriella (non che l’avessi mai creduto possibile). E non solo. La signora Ellis ampliò la sua dichiarazione, ricordando all’improvviso di aver visto Tom che si congedava da Gabriella per continuare sulla sua strada.
L’agente Atkins spiegò la storia. Disse che c’erano troppi testimoni inaffidabili. Troppi avvistamenti e orari contraddittori. E nessuna prova contro Tom. Nemmeno una traccia di sangue umano, o saliva, o seme, o nessun altro tipo di fluido corporeo che fosse stato trovato addosso a lui o sul suo carrello, solo una macchiolina di piscio di topo sulle setole della scopa. Ecco che cosa si diceva, più o meno.
E ora Tom non era più un sospettato.
Nessuno lo era. Nemmeno Edward Lily. E non sapevo perché. Il detective Sayers era rimasto incuriosito quando avevo parlato di lui. Perché ora non veniva più menzionato?