24.
1982
Davanti ai cancelli della scuola si era radunata una folla, che indicava le telecamere e le luci come se la troupe fosse lì per girare un film. Mi tirai su il cappuccio. Odorava del profumo di Gabriella e dei suoi capelli.
La polizia stava ricostruendo una scena: gli ultimi spostamenti di Gabriella. I miei genitori dicevano che era troppo tardi, ormai era scomparsa da più di due mesi. La polizia era stata sviata, aveva seguito i sospetti sbagliati e il tempo era passato. Avevo lasciato la mamma a casa a sferruzzare una sciarpa con furibonda concentrazione e papà che lavorava in giardino, sradicando erbacce inesistenti.
La strada era bloccata. Niente macchine. Sulla folla era sceso il silenzio. Ora si sentiva soltanto il tramestio spettrale di un carrello da spazzino, mentre passava la controfigura di Tom. La gente seguiva a ruota la troupe che, a sua volta, seguiva e attorniava una ragazza. Somigliava a mia sorella. Indossava l’uniforme scolastica e aveva dei nastri nei capelli, ma era più alta e meno aggraziata di Gabriella, e si muoveva in maniera diversa.
Avrei voluto rincorrere l’impostora, posarle una mano sulla spalla e dirle: “No, lei non cammina così, fa così, e ha anche il passo più rapido”. Avrei voluto farglielo vedere, anche se sapevo che non sarei mai riuscita a imitare Gabriella. Lei si muoveva come una gazzella, dritta, distendendo le lunghe gambe. Ma la ragazza era troppo lontana da me e a separarci c’erano troppe persone che si agitavano, si spintonavano e allungavano il collo per vedere meglio, quindi mi feci da parte.
Mi cacciai le mani in tasca e sentii affiorare una lacrima. E quando gli ultimi spettatori si furono levati di mezzo, vidi Martha dall’altra parte della strada. Anche lei mi notò e dopo un attimo di esitazione si avvicinò quasi di corsa, le braccia protese come se stesse procedendo a tentoni nel buio. E quando mi raggiunse, con il volto rigato dalle lacrime, aprì la bocca per parlare ma non uscì nulla, solo un suono strozzato, come fosse un animale agonizzante.
Provai repulsione, disgusto e pietà allo stesso tempo, mentre stavamo lì in piedi una di fronte all’altra, senza sapere cosa dire.
«Biscotti», mormorò lei alla fine.
«Come?»
«Ho comprato i biscotti.»
Di cosa stava parlando? Pensava che volessi dei biscotti? Credeva che dei biscotti mi avrebbero fatta sentire meglio, un po’ come Rita, convinta che un tè avrebbe rincuorato la mamma, e la nonna Grace che pensava che le sue storie ci avrebbero fatto dimenticare tutto, e i vicini che ci portavano del cibo, pensando che riuscissimo a mangiare?
Martha credeva che, ora che Gabriella non c’era più, sarei diventata la sua nuova amica? Aveva ingannato mia sorella. Si era approfittata del suo buon cuore. Be’, io non ero una persona di buon cuore. Ero tremenda, e in quel momento una nuova emozione – qualcosa di bianco, incandescente e furioso – mi bruciava dentro.
Martha balbettava, la voce rotta. Indossava una sciarpa tra i capelli, e gliel’avrei voluta strappare via perché era di Gabriella e non mi andava di perdere nient’altro che fosse appartenuto a lei. Mi costrinsi a tenere le mani lungo i fianchi, ma le urlai comunque in faccia: «Ti odio, Martha Ellis! Ti odiano tutti. Non rivolgermi mai più la parola!».
Quella sera stavo guardando il telegiornale quando una fotografia di Gabriella apparve sullo schermo. Era la stessa foto che usavano sempre. E poi vennero mostrate le immagini di parecchie altre ragazze che erano scomparse nell’ultimo decennio. Una quattordicenne in Cornovaglia. Una sedicenne di Dundee. La ragazza di York. Un’altra di Glasgow che era sparita da un istituto per minori. Ma erano state trovate tutte. Ammazzate. I media cercavano di stabilire un nesso. Ipotizzavano che a Gabriella fosse successa la stessa cosa, e che fosse solo una questione di tempo prima che anche il suo corpo venisse ritrovato?
Mi conficcai con forza le unghie nei palmi delle mani, cercando di scacciare le mie fantasticherie. «Cazzate», disse papà apparendo sulla porta. «Stronzate del cazzo.» Spense il televisore e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Quella notte tornarono i sogni: demoni alati che ghermivano Gabriella con gli artigli e la trascinavano nelle profondità dell’inferno. Mi svegliai urlando. Non mi sentì nessuno. Non arrivò nessuno. Dormii con la luce accesa, ma le immagini non se ne volevano andare.
La ricostruzione non sortì alcun risultato, a parte un mucchio di telefonate di mitomani. Non si fece avanti nessun nuovo testimone e, dopo un po’, non uscirono più nemmeno gli articoli sui giornali. C’erano soltanto i fatti. Gabriella aveva quindici anni. Avrebbe dovuto incontrarsi con sua sorella al negozio di suo padre. Non era mai arrivata. Punto. Nessuno l’aveva vista mentre veniva legata e buttata in un furgone o trascinata in una casa. Nessuno l’aveva notata. Era come se fosse stata invisibile.
Il silenzio si prolungò. Il pendolo oscillava. E poi si fermò. Nessuno si era ricordato di caricare l’orologio. E, con quello, sembrava che anche il resto fosse stato dimenticato. Quando venne a trovarci la famiglia, Donald si dimenticò di riempire la pipa. Lo zio Thomas si dimenticò di fare battute o numeri di magia. La nonna Grace si dimenticò di parlare e il nonno si dimenticò persino di russare. Solo Jasper riusciva a migliorare le cose, strusciandosi contro di me, riempiendo la stanza con le sue fusa.
Rita veniva molto spesso, ma non portava più romanzi gialli o cartocci di carne sanguinolenta. Arrivava con biscotti al limone, scatole di cioccolatini Milk Tray, lokum e vasetti di miele. Voleva scacciare la tristezza a colpi di dolcezza, ma mia madre non mangiava nulla. E io pensavo a Martha coi suoi discorsi sui biscotti, e ricordavo quanto mi ero arrabbiata.
La mamma e Rita rimanevano sedute in silenzio. A volte, quando entravo in cucina pensando che non ci fosse nessuno, le trovavo lì, a capo chino, la mano di Rita posata su quella della mamma, sul piano del tavolo. Mi sentii di nuovo tagliata fuori. Solo che questa volta non erano i miei genitori e Gabriella che stavo guardando.
Se almeno fosse stato così... Avrei consegnato un milione di volantini della chiesa, avrei partecipato a un milione di funzioni religiose, avrei fatto un milione di volte il giro del villaggio...
E poi arrivò Natale. Lo zio Thomas e Donald vennero a trovarci, ma il nonno Bertrand era troppo malato per viaggiare, quindi lui e la nonna Grace rimasero a casa. I miei genitori ci provarono. Si dimenticarono le decorazioni, ma mi comprarono dei regali: libri, una maglietta, una videocassetta. Lo zio Thomas mi aveva preso un kit da prestigiatore e Donald una pepita di pirite grossa come il mio pugno. Riposi il kit di magia nel mio armadio e la pepita nella mia scatola degli oggetti speciali.
Lo zio Thomas e Donald cucinarono, ma il tacchino era troppo grosso e le patate troppo dure, e si scordarono il ripieno e la salsa di ribes. A nessuno importava. Nessuno mangiò. Nessuno fece scoppiare i cracker. Donald tolse di mezzo i piatti e buttò il cibo nella spazzatura.
Nel pomeriggio, Rita arrivò per il discorso della regina. Portò tre stelle di Natale rosso sangue e una ciotola di clementine. «Da parte delle signore della chiesa», disse. «Non farci caso. Vogliono solo dimostrare che si preoccupano per voi.»
E mentre guardavamo la regina che parlava di marinai che portavano in salvo le persone nelle Falkland, a ottomila miglia di distanza dall’altra parte dell’oceano, e mentre Donald prendeva le piante e le disponeva in giro per il salotto e lo zio Thomas sistemava le clementine sul tavolo, con l’arancione che cozzava con il centrotavola fucsia con le nappine, mi domandai perché, con tutti quei fucili e quelle navi a disposizione, nessuno si fosse preso la briga di andare a salvare Gabriella, ovunque fosse andata a finire.
A Capodanno, mentre ero ancora a letto, suonò il telefono. Papà corse a rispondere e sentii la sua voce che si alzava, diffondendosi per la casa, fino a riempire ogni spazio.
Guardai giù dalla ringhiera, la mamma era in piedi vicino a lui, aggrappata al suo braccio, e scuoteva la testa ogni volta che lo sentiva parlare.
«Arrivo», disse papà, e cinque minuti dopo se n’era già andato, sbattendosi la porta di casa alle spalle.
«Hanno detto di aver trovato la borsa di Gabriella», mi spiegò la mamma più tardi, quando venne a cercarmi. Si sedette sul letto e mi prese la mano, riusciva a malapena a guardarmi. Le sue dita erano strane, molli e leggere come se appartenessero a una bambola rotta.
«Dove?» domandai con un filo di voce.
La mamma si inumidì le labbra. «Alla stazione.» Feci una smorfia, e lei aggiunse: «Sì, lo so. Perché non l’hanno trovata prima?».
Più tardi papà ci disse che la borsa era nascosta dietro un cestino della spazzatura nella sala d’attesa. Non c’era il portafogli, quindi la spiegazione che diedero fu che aveva abbandonato la borsa ma preso i soldi per comprare un biglietto.
«Ma nessuno si ricorda di averle venduto un maledetto biglietto», sbottò papà andando avanti e indietro sul tappeto. «Perché cazzo la pensano così, allora?»
Alla fine il detective Atkins ci riportò la borsa, socchiudendo gli occhi malinconici mentre ce la porgeva con un sospiro. Tirò fuori una busta dalla sua tasca. Era la lettera scomparsa? Il poliziotto la diede alla mamma, che sbiancò quando la vide. Scambiò un’occhiata con papà, che annuì, allungò una mano e la posò sulla spalla della mamma. Solo quando furono sulla porta per accompagnare fuori l’agente Atkins parlarono di nuovo, ma le voci erano talmente sommesse che era impossibile sentire cosa dicevano.
Più tardi tirammo fuori le sue cose e le sistemammo sul tavolo: libri di scuola, cassette, una copia di «NME», un rossetto rosso, dell’ombretto dorato, una sciarpa viola. Il walkman.
«Be’, questo risolve la questione», disse papà, sollevandolo trionfalmente. «Gabriella non è scappata. Non sarebbe mai partita senza la sua musica.»
Un brivido gelido mi corse lungo la schiena mentre lanciavo uno sguardo furtivo ai miei genitori. Gli occhi della mamma erano umidi. Le labbra dischiuse. E ora che papà aveva finito di parlare, il trionfo era scomparso dal suo volto ed era stato sostituito dalla paura. Pensava quello che pensavo io? Gabriella non sarebbe scappata senza la sua musica, ma non avrebbe fatto nient’altro. Senza, non avrebbe preso un treno né un autobus, né avrebbe fatto una passeggiata. Non ci avrebbe rinunciato per niente al mondo.