25.

I mobili più grandi erano già stati portati via. Rimanevano soltanto alcuni scatoloni e una pila di quadri appoggiati a una parete.

Lavoravo velocemente, cercando ancora. Volevo certezze. Non c’erano altri ritratti di Gabriella. E nemmeno strumenti per il disegno. Passai in rassegna i quadri. Erano stampe incorniciate, un misto fra tradizionali e moderne, e nulla che somigliasse al ritratto. Ora ero sicura che l’artista non fosse Edward Lily. Ma chi era? Come avrei fatto a scoprirlo?

Ero stata alla Casa di Flores dall’alba, e quando smisi di cercare e chiusi il negozio, il villaggio si era ormai svegliato. Uomini e donne aspettavano alla fermata dell’autobus o si affrettavano in direzione della stazione per andare al lavoro. Il caffè era affollato per la colazione. Ci andai anch’io, e ordinai un caffè alla ragazza con la ciocca di capelli del colore di una gazza.

La sera prima me n’ero andata dal pub lasciando lì David, anche se lui avrebbe voluto che rimanessi. Mi aveva fatto promettere che gli avrei telefonato in caso di bisogno ed ero contenta di poterlo fare. Arrivata a casa, avevo bevuto tutto il vino che c’era in cucina ed ero collassata sul letto di Gabriella.

Lo facevo sempre quando ero piccola: sgusciavo nella sua camera, in lacrime dopo aver avuto degli incubi. Ogni volta lei mi domandava che cosa riguardassero, ma non glielo dicevo mai. Come avrei potuto, visto che parlavano tutti di come la proteggevo, liberandola da pire funerarie e duellando con usurpatori a colpi di spada? Eppure, pensavo mentre ascoltavo il suo respiro e il mormorio della TV al piano di sotto, le cose non andavano al contrario? Gabriella era la più grande. Non avrebbe dovuto essere lei a proteggere me?

E se le avessi rivelato quei sogni, mi avrebbe ascoltata e sarebbe stata all’erta? Avrebbe potuto evitare qualsiasi cosa l’avesse presa ed essere qui con me, adesso, a bere caffè, a raccontarmi del suo lavoro, quello su cui fantasticava sempre: la giornalista per «NME» o «Time Out». Forse avrebbe avuto dei figli – una serie di mini-Gabrielle che saltellavano sul sentiero spinoso che lei aveva battuto per loro in modo spettacolare.

Finii il caffè. Dovevo muovermi. Cosa avrei fatto? Con chi altro avrei potuto parlare? Se lo zio Thomas fosse stato ancora vivo, sarei andata da lui. E poi c’era Donald, con la sua improvvisa sparizione in America. Era morto o era ancora un geologo? Mi ricordai di quando lo zio Thomas aveva trovato un articolo che aveva scritto sui ritrovamenti dei dinosauri nel Montana. Quindi dovevano essere rimasti in contatto per un po’. Forse sarei riuscita a rintracciarlo online.

Sospirai. Che quadretto solitario e patetico stavo dipingendo, lì seduta dietro la vetrina di un caffè mentre cercavo di riesumare i nomi delle persone del mio passato... Non riuscivo nemmeno a pensare ai compagni di scuola, almeno non a quelli che avrei potuto contattare senza sentirmi a disagio. Non mi ero solo allontanata, andando alla deriva; ero svanita, trascinata via da un maremoto.

Come per ricordarmelo, un gruppo di adolescenti sfrecciò sul marciapiede davanti alla vetrina. Una di loro inciampò e quasi cadde contro il vetro. I nostri sguardi si incrociarono quando si rimise in equilibrio sorridendo timidamente. Aveva i capelli scuri, raccolti in due trecce. Non somigliava per niente a Gabriella. Tuttavia il mio cuore accelerò mentre lei si affrettava a raggiungere le compagne.

Una donna con un impermeabile stretto in vita da una cintura passò davanti alla vetrina. Martha. Istintivamente mi tirai indietro, ancora convinta che mi stesse seguendo. Ma la donna si allontanò in fretta e mi resi conto che non era lei. Martha mi aveva detto quello che voleva dirmi. Avresti dovuto tenerti vicina tua sorella. Be’, su questo aveva ragione. Se solo avessi insistito per aspettare Gabriella quel giorno, dopo la scuola... Se solo non l’avessi lasciata sola...

Mi premetti i palmi contro gli occhi. Avevo tre possibilità di scelta: andare alla polizia, mostrare loro il ritratto e chiedere di riaprire le indagini; mollare tutto e tornare ad Atene; parlare con l’unica persona, tra quelle a cui potevo pensare, che aveva conosciuto mia sorella a scuola.

Scostai la seggiola e mi alzai, infilandomi la giacca. Avrei fatto ancora un tentativo di scoprire la verità, prima di andare alla polizia.

Bussai alla porta di Martha. Passarono alcuni istanti. Feci un passo indietro e scrutai attraverso le finestre in cerca di una sagoma, poi bussai di nuovo, con più forza, e suonai il campanello. Ancora nessuna risposta, e nessun movimento dall’interno.

Mi buttai la borsa sulla spalla e girai intorno alla casa. C’era un cancelletto che si aprì con un cigolio e un sentierino di ghiaia che portava al giardino, delimitato da cespugli di rose e di alberi dalle foglie scarlatte che esplodevano di colore. Picchiettai sulla porta posteriore e poi abbassai la maniglia. La porta si aprì, ma la richiusi velocemente, arretrai e per poco non caddi su un vaso di terracotta. Mentre mi rimettevo in equilibrio, una faccia apparve da sopra lo steccato, facendomi trasalire. Era l’anziana signora della casa accanto, i capelli bianchi e corti appiattiti sulla testa. Sorrisi, gentilmente. «Sto cercando Martha, ma sembra che non sia in casa.»

La donna mi osservò, inespressiva. «Che cosa vuoi da lei?»

«Solo farle visita. Ma non importa. Tornerò più tardi.» Feci per avviarmi, ma la sua voce mi bloccò.

«Sei un’assistente sociale?»

Mi fermai. «No. Perché?»

«Nessuno fa mai visita a Martha. Arrivano solo assistenti sociali.»

Annuii, come se sapessi di cosa stesse parlando. «Be’, non importa. Se vede Martha, potrebbe magari dirle che Anna Flores è passata a trovarla?»

«Anna Flores.» Il suo tono rivelava un rinnovato interesse. «Conosco tua madre. È sempre stata molto buona con me. Viene a trovarmi ogni tanto.»

«Mia madre...» Mi bloccai e distolsi lo sguardo, sconcertata. «Devo dirle, purtroppo, che è mancata.»

Il viso della donna si rabbuiò. «Oh, santo cielo! Mi dispiace. Mi dispiace davvero, davvero tanto. Sarei venuta al funerale se l’avessi saputo. Non so più niente, di questi tempi. Non parlo con la gente. Bloccata in casa.» Mi mostrò un bastone, come per darmi una prova.

«Martha lo sapeva», dissi cortesemente. «Avrebbe potuto dirglielo, magari.»

La sua espressione si inasprì. «Martha non parla né con me né con nessun altro. È strana, come sua madre.»

Il mio interesse si impennò. Mi avvicinai di qualche passo alla staccionata. «Da quanto tempo abita qui?»

«Da sempre. Ci sono nata.»

«Davvero? È incredibile.»

Mi sorrise. «Non lo è.»

«Mi scusi. Non so il suo nome.»

«Eliza Davidson.»

«Be’, piacere di conoscerla, signora Davidson.»

«Signorina. Ma chiamami pure Eliza.»

«Grazie.» Feci una pausa. Chi era quella donna? Il nome mi suonava familiare. Signorina Eliza Davidson.

«Tua sorella è stata una mia alunna.»

Mi venne la pelle d’oca. Ecco perché conoscevo quel nome. «Gabriella?»

«Sì. Geografia.»

«Quindi si ricorda di...» Esitai.

Tirò fuori un fazzoletto e si soffiò il naso. «Sì, certo. La tua povera mamma... Non so come ha fatto a sopravvivere.» Mi fissò. «O come hai fatto tu, mia cara. Anche tu.»

Sbattei le palpebre con forza e distolsi per un attimo lo sguardo. «Si ricorda di quel giorno?»

Sapeva che cosa intendevo. Si soffiò di nuovo il naso e si tamponò gli occhi. «Sì, mi ricordo. Me lo ricordo molto chiaramente, a dire il vero. Come potrei dimenticare una cosa così orribile?»

«La signora Ellis disse di aver visto Gabriella. L’ha vista anche lei?»

Scosse la testa. «No. Io no. E l’ho detto alla polizia quando mi hanno interrogata.»

«E Martha? L’ha vista?»

«Non in quel momento. Nemmeno dopo la scuola. Solo più tardi.»

«Più tardi?» la incalzai.

«Era sui gradini davanti a casa, piangeva. Credo fosse andata in qualche negozio. Aveva comprato qualcosa. Non ricordo cosa fosse.»

«Perché piangeva?»

La donna si strinse nelle spalle. «Chi lo sa? Era piuttosto normale vedere quella ragazzina seduta lì sui gradini. I suoi genitori la chiudevano fuori. Erano gente orribile. Tutti e due. Non c’è da stupirsi che Martha sia venuta su così. Ma quel giorno è rimasta lì più a lungo. Ricordo che era ormai buio quando la fecero entrare. Io stavo mettendo fuori la spazzatura. Era tardi. E lei era ancora lì. Gente orribile.» Si guardò intorno e lanciò un’occhiata oltre la mia spalla, come se potesse ancora vederli. «Le ha ammazzato il porcellino d’India.»

Sobbalzai. «Cosa?»

«Le ha ammazzato il porcellino d’India, l’ha preso a martellate. È successo dopo che aveva perso il lavoro da elettricista. Era arrabbiato. Più arrabbiato delle altre volte.»

«Oh, mio Dio, è terribile!» Mi misi una mano sulla bocca, mentre tutto mi tornava alla mente. La terra umida, l’odore di morte. Il sapore della bile che vomitai sul terreno. Ero convinta che fosse stata Martha. Non avevo lasciato margine all’idea che potesse essere stato qualcun altro.

«Gliel’ha visto fare?» chiesi.

«No, ma ho sentito Martha che urlava. Quel grido... Peggio delle urla di sua madre. Ho chiamato la polizia diverse volte, sai? Picchiava sua moglie, lo sapevano tutti. E lo sai che cos’ha fatto la polizia?»

Scossi la testa.

«Niente. Dissero che non poteva essere provato. A meno che non arrivasse una denuncia dalla signora Ellis, non si poteva fare nulla. Lei lo difendeva sempre. Mentiva. Diceva di essere caduta dalle scale. Le solite storie.» Eliza sospirò. «Lo vedevo anche con le ragazze, a scuola. Ce n’erano tante che facevano così. Avevano troppa paura. Pensavano che raccontarlo avrebbe peggiorato le cose.»

«Come Martha.»

«Proprio come Martha. Gli unici momenti in cui c’era un po’ di pace, in quella casa, era quando lui andava a lavorare.»

«Quei periodi dovevano essere un sollievo per la moglie. E per Martha.»

Annuì. «Esatto. Avrebbero dovuto approfittarne per lasciarlo. Ma non lo fecero. La casa restava tranquilla per qualche giorno, ma appena lui tornava, tutto ricominciava.» Restò in silenzio per qualche istante. «Bene, allora», disse alla fine. «Farò meglio a rientrare. Fai attenzione con Martha, se la vedi. Non è a posto. Non è colpa sua. Ma non è a posto. E, mia cara, mi dispiace così tanto per tua madre. Mi dispiace moltissimo.»

Aspettai finché la porta di Eliza non si fu richiusa con un colpo secco. Mi stavo domandando quanta rabbia, esattamente, covasse il signor Ellis. Abbastanza da picchiare sua moglie e sua figlia. Abbastanza da uccidere un animaletto. Di cos’altro era capace? Lanciai un’occhiata verso le finestre della casa di Martha. Aveva abbastanza rabbia da uccidere una ragazza? Feci un passo verso la porta, con la mente in subbuglio.