PROLOGO

Sparisti nell’autunno del 1982, quando le foglie cambiavano d’abito passando dal verde al marrone brunito e nostra madre preparava i suoi pentoloni di marmellata con la frutta che raccoglievamo in giardino. Io avevo dodici anni, dei vestiti goffi e un paio di occhiali forniti dal servizio sanitario nazionale. Tu avevi quindici anni, una chioma da pazza e la figura slanciata.

All’inizio ero convinta che saresti tornata. Si trattava solo di aspettare, nel fitto del bosco dove gli uccelli erano silenziosi quanto me, come se anche loro sentissero la tua mancanza. Avevo preso l’abitudine di mettermi il tuo giaccone e, con le mani affondate nelle tasche, giocherellavo con i biglietti dell’autobus e le caramelle rinsecchite che ci trovavo dentro. A volte mi sembrava di vederti: mi precedevi di corsa, zigzagando tra gli alberi. Ma si trattava soltanto della luce del sole che scintillava tra i rami o del vento che accarezzava le foglie con la punta delle dita. Altre volte ti sentivo ridere, ma erano solo l’acqua che scorreva sui sassi del torrente o gli uccelli che ritrovavano all’improvviso la voce. Era come se non fossi mai esistita, o come se ti fossi disintegrata e dispersa nella brezza.

Era una delle mie teorie. Eri stata vittima di autocombustione. Eri esplosa in mille pezzi, senza lasciare traccia. Oppure eri stata trasportata verso l’alto, trascinata in un luogo diverso: in paradiso, come si diceva in chiesa. Ma quando alzavo lo sguardo verso il cielo vasto e scuro non riuscivo a immaginarti perduta lassù, quindi escogitai delle spiegazioni più elaborate: eri scappata in Russia per fare la ballerina. Ti nascondevi in un convento. Facevi la scienziata in Antartide.

Mi aggrappavo a ogni teoria perché mi aiutava a respingere quello che diceva la gente. Che eri stata rapita mentre tornavi da scuola, stuprata e ridotta in fin di vita. Ti avevano decapitata e smembrata, e i pezzi del tuo corpo erano stati disseminati per la campagna. Ogni giorno portava nuovi orrori con cui popolare i miei sogni. E dopo ogni sogno mi svegliavo in un bagno di sudore, urlando il tuo nome. Avrei voluto dire a quelle persone di smetterla. Saresti tornata. Non mi avresti lasciata da sola per sempre.

I pettegolezzi però continuarono a ribollire, diffondendosi nell’intera comunità. Gli amici si zittivano quando passavo, ma io riuscivo a sentire le loro parole sbocconcellate. Camminavo a testa alta e tenevo i miei pensieri per me, ripetendoli sottovoce come incantesimi: eri in Spagna a imparare il flamenco, a innamorarti di giovani gitani dagli occhi scuri. Qualsiasi cosa pur di evitare quelle paure raggelanti, l’idea di un’ombra silenziosa che cala in picchiata, ti avviluppa con le sue ali e ti trascina via. Perché, se pensavo al tuo presunto carceriere, questo è quello che immaginavo ti fosse accaduto: un demonio rinnegato che precipitava dai cieli, ghermiva la sua bellissima preda con fare indifferente e proseguiva la sua caduta verso le profondità dell’inferno.