14.

1982

La minaccia di dover cambiare casa rese deprimenti gli ultimi giorni di vacanza. Gabriella si rifiutava di parlarne. «Non succederà e basta», continuava a ripetere. «Dicono sempre che faremo chissà cosa e poi non facciamo mai niente.» La ascoltavo, ma non ero d’accordo. Ero convinta del contrario. Quando prendevano una decisione, i nostri genitori la mettevano in atto. Forse non quest’anno, a causa degli esami di mia sorella, ma il prossimo sì.

Mi convinsi che il trasloco era una buona idea; elencavo tutto quello che trovavo sgradevole al villaggio e mi immaginavo, invece, di essere a Londra e di visitare il liceo di cui papà aveva parlato. Mi immaginavo una grande chiesa nuova da frequentare, come la cattedrale di St Paul. Avrei addirittura potuto imparare a suonare l’organo. Non ero certa del perché Londra avrebbe dovuto offrirmi quelle possibilità, ma l’idea mi piaceva e me la tenevo stretta.

Il primo giorno del quadrimestre autunnale feci il mio ingresso nel blocco di cemento della scuola, confortata dal pensiero che me ne sarei andata presto. Ero un’aliena che sgomitava in mezzo agli altri ragazzini riluttanti, lungo corridoi che puzzavano già di calzettoni da ginnastica sudati e della paura degli studenti del primo anno che cercavano di inserirsi.

Le lezioni erano il mio rifugio, mi nascondevo tra le pagine dei libri di testo. Avevamo una nuova insegnante di inglese, una donna magra con i capelli scuri e la pelle pallida, che aveva una vera passione per Joyce, Shaw e Yeats. Si chiamava signorina O’Dell ed era «irlandese fino al midollo», o almeno questo è quello che ci aveva detto quando era entrata in classe e aveva trovato le parole IRA FECCIA scarabocchiate sulla lavagna. Ci fece conoscere Shakespeare. «Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, un ebreo, organi, membra?» recitava, fissandoci con quel suo sguardo puntuto.

Il sabato successivo era la giornata della fiera, e in questo caso ero contenta di essere ancora al villaggio. Mi svegliai e corsi giù in cucina. La mamma e Rita stavano sistemando la marmellata nelle scatole di cartone, che papà avrebbe caricato sul camioncino e portato al parco. Il tavolo era ricoperto di vasetti: giallo lucente, rosso e nero, ognuno con in cima una chiusura a quadretti di diversi colori, coordinati con il colore del rispettivo contenuto.

Aspettai istruzioni. La mamma sembrava esausta. Mi lanciò un pacchetto di Rice Krispies e mi disse di sedermi a mangiare. Rimasi lì in silenzio, con un occhio sulle operazioni e l’altro sul libro di poesie che mi aveva prestato la signorina O’Dell, felice che la mamma avesse dimenticato la regola del non leggere a tavola. Di sopra, il rimbombo della musica di Gabriella ci segnalava che si era svegliata.

La mamma alzò lo sguardo al soffitto, ma non commentò. Chiuse una delle scatole. «Dov’è Albert?» domandò. «Dovrebbe essere già tornato.»

Ad apparire fu invece Jasper: guizzò dentro dalla porta posteriore rimasta aperta, saltò sul tavolo e si leccò le zampe. Rita lo spinse giù. «Scusa, micio», disse. Aggrottai le sopracciglia mentre finivo i miei cereali. Se lo facevamo noi non era un problema, ma Rita? Sorpreso e contrariato, Jasper mi balzò in grembo. Lo accarezzai, cercando di trattenerlo lì. Di tanto in tanto tentava di riconquistare la sua libertà. Sapevo che Rita gli avrebbe dato un alto spintone se fosse saltato di nuovo sul tavolo, perciò lo tenni fermo con forza, obbligandolo a sottomettersi con le parole gentili che avevo letto nel mio libro. «Cammina leggero, perché cammini sui miei sogni», recitai, mentre lui mi artigliava le cosce.

Continuarono a riempire le scatole, la mamma si stava spazientendo. Rita la invitò a stare calma, agitarsi così non serviva a nulla. «È soltanto una consegna locale», le disse.

«Se è lì che è andato», borbottò la mamma.

Sollevai lo sguardo dal libro e notai che si scambiavano occhiate. Dove poteva essere papà, se non stava lavorando?

Finalmente le scatole furono sigillate e la mamma si sedette al tavolo con un tonfo esagerato. Rigirava la sua fede, se la toglieva, la rimetteva al dito, mentre Rita cercava di distrarla, parlandole della sua ultima cena con delitto. «Da non crederci», le disse. «Il signor Henderson con il tubo di piombo, in biblioteca.» Io ci credevo. Stuart Henderson era basso e corpulento. Sua moglie somigliava a una bottiglia d’aceto, ma lui era una caraffa di birra.

La porta si aprì e si richiuse sbattendo. Passi pesanti nell’ingresso. Papà entrò in cucina, andò dritto al lavandino, aprì il rubinetto e cacciò una mano sotto l’acqua.

«Che cosa hai fatto?» chiese la mamma precipitandosi verso di lui, mentre Jasper balzò a terra con un gemito appena le mie mani istintivamente afferrarono la sua pelliccia.

Papà aveva il fiato corto, si sporgeva sul lavandino irrigidendo la schiena. «Niente che non avrei dovuto fare prima», ribatté. La sua voce era tesa, come se avesse la bocca piena di cose che non voleva dire. Non sembrava nemmeno la sua voce, e anche il suo viso pareva diverso quando si voltò a guardare la stanza, con occhi che sprizzavano rabbia. Ebbi un tuffo al cuore. Che cosa era successo?

«Ti avevo detto di stare alla larga», sibilò la mamma afferrandogli la mano ed esaminandone il dorso.

Lui non rispose. Lanciai un’occhiata a Rita. Stava lì in piedi con le labbra serrate e le mani intrecciate. Non parlò, ma il suo sguardo, gli occhi che traboccavano di consapevolezza mi fecero pensare che sapesse esattamente cos’era accaduto a mio padre. Aveva fatto a pugni? Era possibile? Papà era il negoziatore, il pacifista, così lo descriveva sempre la mamma.

Ora lei stava avvolgendo la sua mano in uno strofinaccio. Entrambi erano pallidi in volto e la mamma deglutiva, cercando di non piangere.

«Dobbiamo andare», disse papà all’improvviso. «Anna, vai a chiamare Gabriella.»

Mi alzai, avevo le gambe che tremavano mentre andavo verso la porta.

«Dovremmo restare a casa», replicò la mamma. Io mi fermai di colpo.

«No, Esther. Maledizione, no. Perché dovremmo cambiare le nostre abitudini?»

«Non abbiamo scelta. Prima dobbiamo parlare.»

«Non ancora.» Papà mi guardò. «Anna, ti ho detto di andare a chiamare Gabriella.»

Andai in corridoio e, appoggiando la fronte al muro, feci un respiro profondo. Stavano ancora parlando. La voce di papà era bassa e risoluta, quella della mamma insicura e preoccupata.

«Non succederà niente», disse papà.

«Non puoi saperlo. Non sai niente. È cambiato tutto. Prima dobbiamo parlare.»

«No. Fidati di me. Ho sistemato tutto.»

«Con le minacce? Con la violenza? A cosa servirà? Non farà che peggiorare le cose. Rita, diglielo!»

Rita disse qualcosa che non afferrai. Papà mise fine alla discussione. «Bene. Stasera. Ora andremo avanti come sempre. Per favore, Esther. Un giorno ancora.»

Sbirciai dalla porta socchiusa. La mamma annuì con un cenno rapido, prima di togliersi il grembiule e posarlo da un lato.

Faceva caldo per essere settembre e il parco pullulava di persone. Le donne, in ampi abiti stampati, passeggiavano; gli uomini, in maniche corte, erano riuniti a gruppetti; i bambini zigzagavano fra i tavoli e le bandierine. Il rumore si faceva più intenso a mano a mano che avanzavamo. Le persone gridavano, sovrastando il clangore della giostra e la musica dei banchetti. «È così che si fa!» gracchiò Punch dal teatro dei burattini.

Afferrai il braccio di Gabriella, temendo che si allontanasse. La mamma ci aveva detto di stare vicine e ora, dopo quello che era successo, avevo tutta l’intenzione di obbedire. Parlammo di quanto era accaduto a papà. Le descrissi la scena, ma ero certa che non mi stesse prendendo sul serio.

«Hai mai visto papà arrabbiato?» domandò. «Figurarsi prendere a cazzotti qualcuno...»

Aveva ragione, era difficile da credere. E quando ebbi passato in rassegna tutte le persone del villaggio con cui avrebbe potuto litigare, quell’ipotesi stava già svanendo. Gabriella non mi stava nemmeno ascoltando. Era troppo impegnata a guardarsi intorno per vedere se il tipo dagli occhi assonnati di Our Price fosse lì. Io speravo di no. C’erano già abbastanza ragazzi che le ronzavano intorno. Non c’era da stupirsi: Gabriella era stupenda, sembrava uscita dalla copertina di un disco, con quel vestito a pois e gli stivali, un filo di rosso sulle labbra.

Arrivammo al centro della fiera proprio quando la banda degli ottoni attaccò. Uomini con uniforme rossa e berretti con la visiera marciavano in formazione, suonando trombe e tromboni. Spuntò un gruppetto di amici di Gabriella; provarono a chiamarla, ma lei scosse la testa mentre io non mollavo la presa. E le fui grata per questo.

La banda si fermò e venne rimpiazzata da una compagnia di ballerini folk. Ci spostammo alla bancarella dei dolci – vasi pieni di caramelle al rabarbaro, alla crema e alla pera, gelée e treccine all’anice. Ne scegliemmo alcune e, sgranocchiando, tornammo indietro, verso il punto in cui si stavano radunando i concorrenti del tiro alla fune: uomini muscolosi che si arrotolavano le maniche della camicia e si tendevano all’indietro all’unisono, paonazzi.

Verso le tre, papà, che fino allora aveva passeggiato da solo, macinando giri su giri del parco, ci raggiunse al banchetto della marmellata. Si stava dirigendo al tendone della birra. La mamma gli lanciò un’occhiata e aprì la bocca come per obiettare, ma lui la fermò: «Lo facciamo ogni anno, e quest’anno non sarà diverso». Poi si rivolse a noi: «Restate insieme, voi due». Appena lui si allontanò, Gabriella alzò gli occhi al cielo.

Era vero che gli uomini, papà compreso, si ritrovavano sempre nel tendone della birra – pochi solitari, all’inizio, ma poi arrivavano a frotte, accalcandosi. C’erano urla e parecchie risate, e di tanto in tanto un litigio, che alzava di una tacca il livello di sfida via via che il pomeriggio si esauriva, come al gioco del martello e della campana.

Comprammo dello zucchero filato e ce lo mangiammo vicino al tiro a segno con le noci di cocco. Avevo appena convinto Gabriella a fare un giro sulla giostra quando apparve una figura. Aveva il sole alle spalle, ma sapevo che era Martha. Riuscivo a capirlo dal modo in cui si piegava in avanti, come se cercasse di non farsi vedere.

Speravo che Gabriella la ignorasse, invece lei iniziò a chiacchierare, le offrì dello zucchero filato e le propose di salire sulla giostra. Io digrignavo i denti in attesa della risposta di Martha. Per fortuna lei scosse la testa e rifiutò, anche se rimase lì ad armeggiare con la tasca del vestito, con l’aria di chi fosse sul punto di parlare, pur non avendo nulla da dire. Alla fine bofonchiò qualcosa a proposito del fatto che doveva incontrarsi con sua madre e scomparve. Gabriella mi lanciò un’occhiata, come se fosse tutta colpa mia, ma, per una volta, non me ne importava niente.

Era la stessa giostra dell’anno prima, di quello prima ancora e, probabilmente, di quello ancora precedente. Riconobbi la copertura rossa e gialla e il reticolo di lucine colorate, e la colonna al centro, decorata con canne d’organo e cupidi dorati. Anche l’addetto che la faceva funzionare era lo stesso: capelli neri, occhi scuri, con un grande sorriso e una strizzatina d’occhio per Gabriella. Pagammo e io salii per prima, scegliendo un cavallo bianco e blu con lo sguardo allarmato. Di fronte a me, una bambina piccola con un vestitino bianco e dei mutandoni di pizzo si stava arrampicando su un pony rosa. Sua madre, ansiosa, saltò giù all’ultimo momento, quando la musica partì e cominciammo a girare.

Mi voltai sulla sella, cercando Gabriella. Dietro di me c’era un uomo col cappello, che fumava tranquillamente la pipa. Vicino a lui un bambino con i pantaloni corti, abbarbicato al palo d’argento zigrinato. Mi guardai attorno con ansia. Dov’era andata Gabriella? Poi la vidi da un lato, che chiacchierava con il ragazzo dai capelli scuri. Deglutii e ricacciai indietro le lacrime. Aveva cambiato idea, o forse già dall’inizio non aveva avuto intenzione di salire con me.

La giostra girava sempre più veloce. La musica tintinnante aumentò di volume. Gabriella scomparve di nuovo. Allungai il collo per vedere dov’era andata e intravidi la sua sagoma che camminava attraverso il prato, nella direzione da cui eravamo arrivate, probabilmente in cerca del ragazzo di Our Price, pensai. Mi lasciava sempre da sola. Come quella volta che era andata da Martha.

Ora la musica era fortissima. I cavalli malconci sembravano più piccoli dell’anno precedente. La rotazione risultava monotona. La giostra era una cosa infantile. Non c’era da sorprendersi che Gabriella non si fosse presa la briga di salire. Quando la corsa finalmente finì, scivolai giù dal cavallo e barcollai fino al bordo della piattaforma, scansando la madre ansiosa. Ero una stupida. Quella giostra era per i bambini e i loro genitori.

L’atmosfera della fiera era cambiata. Le donne giovani sfilavano accanto al tendone della birra salutando con la mano gli uomini radunati all’interno. Le più anziane e i bambini sedevano sotto gli alberi sulle coperte, frugando nei cestini da picnic in cerca di uno spuntino dell’ultimo minuto. Più in là, un gruppo di ragazzi giocava a pallone. Gli adolescenti erano stesi sull’erba ad ascoltare musica dal ghetto blaster: Come on Eileen a tutto volume. Il frastuono scemò, così come le aspettative. La banda stava di nuovo facendo una pausa; i musicisti si riparavano dal sole sotto i rami del cedro, si erano tolti i cappelli e avevano appoggiato gli strumenti lì accanto. Persino la giostra aveva smesso di girare e un uomo in salopette gattonava in mezzo ai cavalli.

Scorsi papà nel tendone: non c’erano più segni della sua arrabbiatura. Mi avvicinai. Accanto all’entrata c’era Martha, che mi dava le spalle. La guardai storto. Sapeva dov’era mia sorella? Non volevo chiederglielo, ma non avevo scelta.

«Hai visto Gabriella?» domandai.

Lei si voltò. Sembrava diversa, in qualche modo. Teneva i capelli legati in modo maldestro con una sciarpa. Sollevò nervosamente una mano, prese una ciocca che era sfuggita e se la arrotolò sul dito. Riconobbi il gesto di Gabriella e la mia rabbia divampò. «Allora, dov’è?» insistetti brusca.

«E come faccio a saperlo?» ribatté lei ricambiando l’occhiataccia.

Non volevo darle la soddisfazione di pensare di essere in possesso di informazioni che desideravo. Stringendo i pugni, contai mentalmente. Non l’avrei chiesto di nuovo.

Dal tendone della birra si udivano delle grida. Il rumore aumentò quando si ruppe un vetro. Le donne si ammassarono nervose, alzandosi sulla punta dei piedi, premendo verso l’entrata. Comparve la signora Ellis, con quel vestito grigio che pareva appeso su di lei come su un manico di scopa, il viso tirato e pallido.

La discussione si riversò all’esterno. Per primo uscì un tizio magro che si stringeva il naso sanguinante e aveva gli occhiali storti. Barcollò e cadde a terra. Il signor Ellis lo seguì, le mani serrate in due enormi pugni. Una donna dai capelli scuri arrivò di corsa con un fazzoletto e tamponò la faccia della vittima. «Dovrebbe vergognarsi», urlò al signor Ellis, con un’aria di sfida dipinta sul piccolo viso. A quel punto papà fece il suo ingresso nell’arena e parlò sottovoce al signor Ellis. Altri uomini uscirono, protestando. Anche delle donne erano coinvolte. «Lui non ne vale la pena», gridò una. Non sapevo bene di chi stesse parlando.

Accanto a me, Martha osservò la scena di cui suo padre era protagonista senza cambiare espressione. Stavo per andarmene e riprendere la mia ricerca quando parlò. «Dovresti prenderti cura di tua sorella», disse. «Potrebbe essere un pervertito, per quel che ne sappiamo.»

«Chi?»

Lei restò in silenzio per qualche secondo, come se stesse decidendo se rispondere o no. «Quello con cui stava parlando.»

«Chi?» ripetei.

Distolse lo sguardo, poi tornò a fissarmi dritto negli occhi. La sua espressione si era fatta più dura. «Non sono affari tuoi», disse.

«Sono affari più miei che tuoi.» Provai a cambiare tattica. «Cosa le ha detto?»

«Non lo so, non ho sentito.» Fece una pausa e sul volto le comparve un sorriso malizioso. «Ma le ha dato qualcosa.»

«Che cosa?»

Martha si sporse verso di me finché non sentii il suo fiato caldo sul collo. «Una lettera.»

La fissai con la bocca spalancata. «Un uomo ha dato una lettera a mia sorella?» Lei annuì e io la guardai storto. Martha era una bugiarda, lo sapevano tutti. Alzai le spalle platealmente e mi guardai intorno con indifferenza, poi dissi: «Probabilmente è qualcuno della chiesa».

Lei scoppiò in una risata. «No, non lo è.»

Arrossii. «Be’, allora è nostro zio Thomas. È venuto oggi a trovarci.» Era una cosa stupida da dire, e Martha avrebbe capito subito che non era vero.

«Perché tuo zio dovrebbe dare una lettera a Gabriella?»

«Perché è quello che fa.» Bruciavo dal desiderio di sapere chi fosse l’uomo di cui parlava, ma non volevo darlo a vedere. E ora Martha stava fissando un punto dietro di me come se lui fosse proprio lì. Non mi sarei voltata a guardare. Non le avrei dato quella soddisfazione. Invece le scoccai un’altra occhiata sdegnosa e mi allontanai a grandi passi.

Qualche minuto dopo mi misi a scrutare il prato. Non c’era traccia di uomini sospetti, naturalmente, anche se non potevo esserne certa, dato che non sapevo chi stavo cercando. Forse la lettera era del ragazzo di Our Price, o di qualche compagno di scuola. Oppure l’aveva scritta la stessa Martha: un biglietto patetico per dire a Gabriella quanto le piaceva.

Al banchetto delle marmellate, Rita era impegnata a riporre tutto nelle scatole. La mamma, in piedi lì accanto, si schermava gli occhi con la mano mentre guardava verso il prato. Mi tenni fuori dal suo raggio visivo e continuai ad avanzare in direzione del lago, sperando di trovare Gabriella.

Lei se ne stava là da sola, con la schiena appoggiata al tronco del cedro. Mi sentii pervadere dal sollievo. Non c’era nessuna lettera. Non c’era nessun uomo. Martha se l’era inventato. Martha, con i suoi stupidi vestiti sporchi e la sua stupida acconciatura. Da quando si metteva la sciarpa? Una sciarpa. Il calore salì, finché non mi bruciarono le guance. All’improvviso capii: gliel’aveva data Gabriella. Se l’era levata dai capelli e l’aveva data a Martha. E Martha aveva cercato di farmi ingelosire, sfoggiandola. Mi morsi il labbro. Gabriella non era meglio di lei. Perché doveva provare dispiacere per chiunque?

Avvicinandomi, chiamai mia sorella per nome, ma quando sollevò lo sguardo i suoi occhi erano vuoti. Non ero nemmeno sicura che si fosse accorta di me. Rimasi lì comunque, paralizzata dalla sua indifferenza, in attesa che registrasse la mia presenza finché finalmente si avviò attraverso il prato senza degnarmi di un’occhiata.

Sentendomi impotente, la guardai allontanarsi, le braccia lungo i fianchi. All’improvviso sentii il cuore in gola. Dalla sua mano pendeva un foglio di carta. La lettera. Martha aveva detto la verità. E se era stata sincera a proposito della lettera, perché avrebbe dovuto mentire sull’uomo? Mi guardai attorno, a disagio. La folla ormai si stava disperdendo, le persone se ne andavano trascinandosi stancamente. Mi unii a loro, con la mente in subbuglio. Chi era quell’uomo?

Quella sera Gabriella rimase in camera sua. La mamma andò in chiesa – a pregare, disse – e papà si chiuse in cucina. Io avevo preso il mio libro di poesia e mi ero stesa sul tappeto. Leggevo, senza capirla, Leda e il cigno, quando il campanello suonò. Appena papà aprì la porta, la voce di Rita filtrò dal corridoio. Attraversai il salotto strisciando fino alla porta e mi misi in ascolto.

«Erano insieme alla fiera», disse Rita.

Ci fu una pausa. «Come fai a saperlo?»

«La signora Henderson. Quella vecchia pettegola. Ho sentito che parlava di Gabriella con le sue comari.»

«Be’, lei non può sapere niente...» sibilò mio padre.

«No, ma... Devi renderti conto di cosa significa.»

Arrivati in cucina, si chiusero dentro.

Imbronciata, tornai a Yeats, ma ora il poema mi appariva ancora più confuso. Provai a recitare i versi ad alta voce, e poi a memoria, ma la mia concentrazione era svanita. Misi giù il libro e accesi la TV. Il notiziario era tutto incentrato sul funerale della principessa Grace. Pensare alla morte era troppo triste, quindi spensi e feci su e giù finché, finalmente, la porta d’ingresso si aprì. Rita se ne stava andando. Tornai in corridoio in punta di piedi e sbirciai in cucina.

Papà stava cercando di accendersi una sigaretta, ma la fiamma si spegneva continuamente. Quando mi vide si fermò e fece un sorriso, che però non riuscì a illuminare i suoi occhi.

«Era Rita?» chiesi, un po’ a disagio.

Lui annuì e fece un altro tentativo con l’accendino. «Rita. Sì. Cercava tua madre.»

«C’è qualcosa che non va?» domandai cautamente, vedendo quanto gli tremavano le mani.

La fiamma fece presa e papà aspirò una lunga boccata. Incrociò il mio sguardo e poi lo distolse. «Niente di cui tu debba preoccuparti, Annie», disse. «Niente che ti riguardi.»

Era la seconda volta che me lo diceva. Stavolta, però, non gli credetti.

Appena la mamma arrivò a casa, scomparve con papà in camera di Gabriella, chiudendosi la porta alle spalle. Io restai ai piedi delle scale; avevo una gran voglia di seguirli, ma non osavo interromperli. Mi sedetti sul primo gradino e mi posai le mani sullo stomaco, cercando di scaldare il gelo che vi si era formato. Ero un’estranea. Un’orfana. Una bambina scambiata nella culla. Diversa, in qualche modo. Esclusa dalla mia famiglia. Chiusi gli occhi e immaginai loro tre legati da una corda che non includeva anche me.

In casa ci fu silenzio per un bel pezzo. Il pendolo oscillava. Jasper comparve reclamando il suo pasto con un miagolio. Lo portai in cucina, aprii una scatoletta di Whiskas e rovesciai il contenuto nella sua ciotola.

Il silenzio esplose. Una porta sbatté. Passi pesanti sul pianerottolo «Non ne aveva il diritto!» urlava Gabriella. «Non la riguarda proprio. Ma chi crede di essere?»

«Cercava di aiutare», disse la mamma.

«Racconta storie. Siete tutti contro di me.»

Papà disse qualcosa che non riuscii ad afferrare.

«Per l’amor del cielo... Come puoi dire questo, adesso? Per l’amor del cielo... Lasciatemi stare!»

Calò di nuovo il silenzio. Poi fu la mamma a gridare. Disse a Gabriella di non bestemmiare, ma lei non replicò. A quel punto parlava solo papà, con tono tranquillo, cercando di riportare la pace, come faceva sempre.

Feci qualche passo, tendendo le orecchie. «Non è cambiato nulla», diceva papà. Lo immaginavo prendere la mano di Gabriella, tirarla a sé e accarezzarle i capelli. «Parleremo. Sistemeremo tutto.»

«Non si sistemerà niente», ribatté lei con la voce rotta.

«Invece sì. Sai che è così. Torna dentro.»

La persuase. Il clic della porta mi disse che ero di nuovo chiusa fuori, sola, in piedi sulle scale. Mi sentii quasi mancare, avevo l’impressione che il tappeto scivolasse sotto i miei piedi. Aggrappandomi al corrimano, cercai di fare mente locale per capire cosa stava accadendo.

Gabriella non scese per la cena. La mamma preparò la tavola e servì lo stufato – carne e verdure con dei dumpling in cima – ma schizzò la tovaglia con il sugo e poi giocherellò col cibo, spostandolo continuamente nel piatto con la forchetta. A un certo punto si schiarì la voce. «Stavi ascoltando, Anna?»

Scuotendo la testa, arpionai uno gnocco che non era ben cotto e sapeva di grasso e sale. Un pezzo mi si bloccò in gola.

«Devi aver sentito qualcosa», mi incalzò fissandomi negli occhi. Di nuovo feci cenno di no.

«Non è il momento», intervenne papà.

«È quello che hai detto prima.»

«È diverso», disse con calma.

«Diverso in che senso?»

«Una cosa per volta.»

«È tutto quello che sai dire?»

Trattenni il respiro, volevo che mi dicessero cosa c’era che non andava. Papà rimase immobile, solo una vena gli pulsava sulla fronte.

La mamma raccolse i piatti e li portò al lavandino. «Anna», disse, «dobbiamo...»

«Esther. Basta così.»

«No, non basta. Se non lo diciamo noi, lo farà Gabriella.»

«Non lo farà», ribatté papà, urlando all’improvviso. «Le ho detto di non farlo.» Si voltò verso di me, la faccia pallida, i denti che digrignavano. «Lasciaci, Anna, per favore.»

Lo feci con piacere. E salii pesantemente le scale per andare da Gabriella.

Era inginocchiata sul pavimento e stava ficcando dei vestiti in una valigia. Un’ondata di panico rovente mi attraversò mentre la prendevo per un braccio. «Che stai facendo?»

«Secondo te?» Si scrollò di dosso la mia mano.

«Stai facendo i bagagli», dissi, ma la mia voce era spezzata.

«E allora?»

«Non puoi lasciarmi. Cos’è successo?»

Scosse la testa, ma lasciò cadere le spalle. «Non è successo niente.» Cacciò un altro maglione in valigia.

Sentii le lacrime riempirmi gli occhi. Gabriella aveva dei segreti. Non ne aveva mai avuti prima. Ma l’istinto mi diceva che se avessi insistito lei non mi avrebbe detto niente. «Va bene», dissi, disperata. «Ma non te ne andrai, vero?»

Gabriella sospirò. «Lo farò, un giorno.»

Una lacrima mi scivolò sulla guancia. Gabriella mi cinse le spalle con il braccio. «Ma non mi dimenticherò di te, piccoletta», mi rassicurò. «Sei mia sorella. Niente potrà cambiare questo.»

La guardai dritto negli occhi. «Allora resta. Le sorelle rimangono unite.»

«Sì», disse con calma, «te l’ho detto. Niente potrà cambiare questo.»

Annuii e le appoggiai la testa sulla spalla, ma un attimo dopo lei si staccò e tornò alla sua valigia. La chiuse pigiandola e la cacciò sotto il letto.

I giorni si susseguivano. Gabriella saltava la colazione tutte le mattine e la mamma, invece di arrabbiarsi, taceva. Papà insisteva ad accompagnarci a scuola, fino al giorno in cui Gabriella gli urlò in faccia che voleva andarci da sola e che se non gliel’avesse permesso se ne sarebbe andata di casa una volta per tutte. Io ascoltavo con il cuore che batteva forte, pensando alla valigia sotto il suo letto. Papà restò per un istante pietrificato di fronte a quell’attacco, poi cedette e ci lasciò uscire da sole.

A scuola non la incrociavo quasi mai. E quando succedeva, lei quasi non se ne accorgeva, circondata com’era da ragazzi coi capelli a punta che sgomitavano per ottenere la sua attenzione. C’era sempre anche Martha. Si accaparrava i sorrisi di Gabriella, afferrava frammenti del suo affetto. Per me non restava niente.

Al pomeriggio aspettavo vicino al cancello: correvo per essere lì prima che lei scomparisse. Ogni tanto Gabriella parlava, rispondeva alle mie domande sulla sua giornata oppure mi faceva chiacchierare e raccontare storie assurde che la facevano ridere. Ma la maggior parte delle volte restava in silenzio. E l’atmosfera era resa pesante da un velo di tristezza che non riuscivo a fendere.

In quei giorni, una volta a casa, Gabriella se ne stava in camera sua, resistendo ai miei tentativi di persuaderla a scendere per cena. Speravo che la mamma urlasse e la obbligasse a venire. Invece le portava su un piatto di sandwich che in seguito avrebbe riportato giù intatto. Osservavo tutto questo con un misto di risentimento per il trattamento speciale che Gabriella riceveva e di tristezza per l’assenza di mia sorella.

E arrivò il compleanno di mio padre. Era di sabato e tutta la famiglia fu invitata. Era una tradizione e, anche se la mamma borbottava mentre girava indaffarata per casa pulendo e controllando che ci fosse abbastanza cibo, la visita non fu cancellata.

Lo zio Thomas e Donald furono i primi ad arrivare. «Sorpresa!» esclamò lo zio quando andai ad aprire la porta. Mi fece apparire un uovo dietro l’orecchio. Era un trucco che gli avevo già visto fare cento volte, ma risi lo stesso. Mi diede un buffetto sotto il mento e avanzò a grandi passi verso il salotto per unirsi ai miei genitori.

Donald mi passò a fianco, masticando la pipa, e si fermò per mettermi qualcosa sul palmo della mano. Un’ammonite. Sorrisi. Faceva il geologo. Ed era anche il migliore amico dello zio Thomas. O almeno era così che i miei genitori lo descrivevano. Li seguii e li osservai mentre si sistemavano sul divano accanto a papà. «Che bello!» disse lo zio Thomas, sfilandosi le scarpe. Aveva un grosso buco nelle calze, sull’alluce.

La nonna Grace era un donnone robusto che si muoveva goffamente, in aperto contrasto con il suo nome. Si sedette sulla sedia dallo schienale rigido, appoggiandosi pesantemente al bastone da passeggio come se fosse un bordone e lei fosse in procinto di partire per un pellegrinaggio. Il nonno Bertrand, altrettanto massiccio, si trascinò dentro dopo di lei, abbandonandosi nella poltrona; affondò, lasciando penzolare le braccia ai lati, come se si fosse sciolto.

Gabriella non c’era, come mi aspettavo. Avevo provato a pregarla di uscire dalla sua stanza, ma lei si era rifiutata, e in cambio avevo ricevuto solo lo sguardo apatico a cui ormai avevo fatto l’abitudine. Di sicuro mamma e papà avevano insistito perché socializzasse – la famiglia era importante, diceva la mamma, il perno della società (insieme alla chiesa) – ma Gabriella non si fece vedere.

Seduta sul tappeto davanti al camino, osservavo la mamma che, con un sorriso stampato in faccia, faceva girare i sandwich al pâté di pesce e la torta di frutta secca sui nostri piatti migliori, insieme al tè nelle tazze con il bordino d’oro. La conversazione spaziava dal negozio di magia dello zio Thomas nel Nordovest di Londra – una caverna di Aladino piena di cuscini spernacchianti, dadi truccati e barbe finte – alla guerra delle Falkland. Persino mio padre, che negli ultimi giorni era apparso pensieroso quanto Gabriella, si alzò e si unì alla discussione. «L’affondamento del Belgrano potrebbe apparire come un trionfo della Thatcher, ora», stava dicendo, «ma alle prossime elezioni...» Agitò la mano. «Per chi suona la campana...» Nel frattempo il nonno Bertrand sonnecchiava, mentre Donald, a parte rivolgermi una strizzatina d’occhio di tanto in tanto, restava in disparte, rabboccando la sua pipa.

«Dovrebbero averne abbastanza di guerre e di accidenti del genere», osservò la nonna Grace, dando un colpo sul pavimento col bastone, come se volesse porre fine alla conversazione.

Gli adulti le diedero rumorosamente ragione. Ci fu un attimo di quiete e credo che tutti sapessimo che cosa sarebbe successo dopo, perché non poteva esserci una riunione di famiglia senza il racconto della nonna Grace su come si erano conosciuti i miei genitori. La mamma sparecchiò, sbatacchiando i piatti e impilandoli malamente. Papà si alzò e si frugò in tasca, borbottando qualcosa a proposito del tabacco.

«Le storie d’amore sono molto più belle», fece la nonna Grace mentre entrambi i miei genitori lasciavano la stanza. «Era il 1966.»

Repressi uno sbadiglio, distogliendo lo sguardo e premendomi il pugno contro la bocca. Solo in quel momento mi resi conto che era entrata Gabriella. Si sedette accanto a me e io la stuzzicai col gomito, sperando di provocare una reazione, ma lei non sorrise. Indossava una maglietta strappata che penzolava da una spalla e una gonna nera spiegazzata, e si era truccata con sfumature di viola. Aveva i capelli cotonati. Elettrici. Notai che Donald la stava guardando incuriosito. Lo zio Thomas, che era impegnato a grattarsi lo stomaco, aveva assunto un’espressione fredda, in vista della storia che stava per cominciare.

«A Londra c’era stato un temporale estivo.»

Chiusi gli occhi e cercai di immaginarmi una versione esagerata della scena, con il vento che falciava il giardino della famiglia Button, sradicando le piante, staccando parti del capanno e del tetto.

«Dovevamo trovare qualcuno che levasse di mezzo lo schifo, tutti quei rami caduti e il resto. Ero andata dal giornalaio e vidi un biglietto: FLORES RIMOZIONE RIFIUTI. Suonava così bene. Flores.»

“Che nome delizioso.” Lo mimai con la bocca a Gabriella, ma non mi stava guardando. Stava tirando un filo della gonna, avvolgendolo attorno a un dito.

«Che nome delizioso», disse la nonna Grace. «Esther non stava troppo bene, quel giorno. Aveva un’influenza intestinale. Quindi, quando Albert è arrivato col suo camioncino, lei era lì ad aspettarlo.»

«Non proprio», fece la mamma, rientrando nella stanza. «Ero lì e basta, tutto qua.»

Notò Gabriella e fece un passo esitante verso di lei. Si scambiarono uno sguardo, una comunicazione silenziosa dalla quale io ero esclusa. Donald lanciò loro un’occhiata. Doveva essersi accorto che qualcosa non andava, a differenza dello zio Thomas, che continuava a grattarsi la pancia, con la testa appoggiata all’indietro e gli occhi chiusi.

«Be’, ti sei precipitata in giardino molto in fretta quando hai visto quant’era carino», ribatté la nonna Grace riprendendo il suo racconto.

La mamma scosse la testa, prese un posacenere pieno e uscì di nuovo.

«La verità è che vostra madre non era per niente felice, prima di conoscere vostro padre», disse la nonna Grace. «Stava attraversando una fase... non è vero, Bertrand?» Nessuna risposta. «Rimaneva chiusa nella sua stanza, inventandosi scuse per non andare al lavoro. Faceva la contabile per una ditta. Una ditta straniera. Contabile, badate bene. Non era una semplice dattilografa. Ma non era un bel posto, quello. Vero, Bertrand? Quel posto. Londra Centro. Troppo impegnativo.» Annuì, come per dichiararsi d’accordo con sé stessa. Lo zio Thomas si grattò una spalla. Donald si allungò per prendere il giornale.

Londra. Quanto era stato serio papà quando aveva parlato di andarci a vivere? Più ci pensavo ora, più lo desideravo. La situazione sarebbe migliorata se ci fossimo trasferiti. C’erano così tante cose da fare, là. Qualche mese prima ci eravamo stati per una gita in giornata. Avevamo visitato la National Gallery e dato da mangiare ai piccioni in Trafalgar Square. Il becchime l’avevamo comprato a una bancarella. Poi eravamo rimaste immobili come spaventapasseri, contando gli uccelli che ci si posavano sulle braccia per vedere chi riusciva ad attirarne di più. La mamma aveva scattato una foto. Clic. I piccioni erano volati via.

Lanciai un’occhiata a Gabriella, ma lei non fece caso a me, era troppo occupata con il filo della sua gonna. Se l’era arrotolato così stretto attorno al dito che si era gonfiato ed era diventato bianco.

La nonna Grace aveva smesso di parlare e stava sorridendo, sforzandosi di ricordare. «Lo sai anche tu, vero, Thomas?» domandò. «Esther si trasformò dal giorno in cui incontrò tuo fratello.»

Lo zio si stiracchiava il maglione. «Non fa caldo?» disse, ignorandola. «O sono io?»

«Il fatto è», riprese la nonna Grace, «che Esther si trascinava su e giù come una bambina malata dal giorno in cui si innamorò.»

Tac. Il filo cedette. Gabriella allungò una gamba. Colpì il secchio del carbone, che andò a sbattere contro i ferri.

«Santo cielo!» esclamò la mamma, rientrando proprio nel momento in cui Gabriella balzava in piedi e correva fuori dalla stanza. Sentimmo sbattere la porta di casa. Ci fu un breve silenzio. La mamma ci guardò.

«Ormoni», disse lo zio Thomas mentre si sfilava il maglione dalla testa, la voce attutita.

Al che tutti ripresero a chiacchierare come se non fosse successo niente. Ma io sapevo. Vidi il dolore sul viso della mamma. Cosa aveva sconvolto Gabriella? Era qualcosa che aveva detto la nonna? Ripensai alle sue parole, ma era la solita vecchia storia noiosa che amava raccontare. Studiai il volto della nonna in cerca di una risposta, ma non vi scorsi alcun segno che qualcosa non andava. Era troppo impegnata a dare istruzioni a Donald perché prendesse la tazza dalla mano penzolante del nonno Bertrand, che si stava addormentando.

Lo zio Thomas stava ripiegando il maglione. Poi lo posò da un lato e scambiò un’occhiata con la mamma. Fui percorsa da un brivido quando compresi. Lo zio Thomas sapeva esattamente cosa stava succedendo. Lui era parte del segreto, tanto quanto non ne ero parte io.