3.
Il giorno del funerale mi svegliai con una sensazione di paura e la mente ancora ingarbugliata dai sogni. Il tempo corrispondeva ai miei sentimenti: dopo il fragore di un unico tuono arrivò la pioggia, a scroscio sulle finestre. Rimasi ad ascoltare i rumori, percependo il peso di ciò che mi attendeva.
Al piano di sotto preparai il caffè. Appoggiai il fianco al piano di lavoro e, mentre sorseggiavo dalla tazza di mia madre in quella cucina antiquata, con il tavolo e il linoleum vecchi, gli armadietti e il lavello scheggiati, mi resi conto che stavo solo interpretando la parte di qualcuno che apparteneva a questo posto. La figliola prodiga era ritornata, ma ad accogliermi non c’era nessuno.
In salotto, mentre aprivo i cassetti a casaccio, la sensazione si accentuò. Erano pieni di fogli, lettere e vecchie rubriche appartenute ai miei genitori. C’erano anche delle fotografie. Ne trovai una di Gabriella a Trafalgar Square, con una fila di piccioni appollaiati sul braccio. La mia mente ritornò a quella giornata. Quante foto di Gabriella aveva incollato mia madre nell’album dei ricordi? Quanti articoli e interviste aveva conservato?
Più tardi arrivarono le signore, guidate da Rita, ed entrarono in casa una in fila all’altra. Indossavano tutte gonne e scialli neri. Solo Rita si distingueva. Intravidi un vestito di seta grigia sotto il cappotto di pelliccia ecologica. Era sempre stata elegante. E calma. Non come mia madre, perennemente tormentata.
Aspettammo insieme il corteo e, quando arrivò, ci avviammo in silenzio verso le macchine. Al vedere la bara chiara e quegli uomini dal fare rispettoso, mi si strinse il cuore. Mentre scivolavo all’interno dell’auto mantenni la calma, ma appena le portiere si chiusero con un tonfo e l’auto partì, mi sembrò che tutto il mio mondo stesse andando alla deriva insieme a me, come se avessi perso il controllo.
Scendemmo per Chestnut Hill e percorremmo High Street. Un bambino indicò il corteo e strattonò il cappotto della madre; un vecchio si levò il cappello; una donna con un impermeabile con la cintura si affrettò a entrare in una porta. Quando arrivammo all’altezza della Casa di Flores allungai il collo ma il negozio era chiuso, come mi aspettavo, e l’insegna oscillava al vento.
La chiesa era strapiena. Guardandomi intorno, tutto mi sembrava familiare: le finestre policrome, le panche di mogano, persino gli inginocchiatoi ricamati con le croci e le colombe erano identici, anche se non potevano essere gli stessi, non dopo tutto quel tempo.
Rita mi strinse il braccio mentre i portatori sistemavano la bara, e prendemmo posto nella prima fila. Nicholas, con i paramenti inamidati, sembrava ancora più giovane. Ci diede il benvenuto, ricordando il motivo per cui eravamo lì: onorare una moglie, una madre e un’amica amorevole. Rita si fece avanti per renderle omaggio. Raccontò della lealtà di mia madre, della sua devozione a Dio e dello stoicismo che aveva dimostrato nella tragedia. Parlò con tono sicuro e stentoreo, e la sua voce si incrinò solo quando nominò le bellissime figlie di Esther.
Seguirono altri discorsi. Poi un’altra preghiera. Un inno. Un neonato strillò in fondo alla chiesa. Udii il cigolio della porta che si apriva e si richiudeva e le urla che si affievolivano quando la madre lo portò fuori. L’organo suonò, e percepii la presenza di Gabriella accanto a me, che batteva il piede seguendo un ritmo diverso: quello nella sua testa.
Dopodiché portarono fuori la bara e ci riversammo sul sagrato della chiesa. Le persone si avvicinarono una alla volta per stringermi la mano e offrirmi sommessamente le loro condoglianze. Visi segnati e rugosi, sguardi conosciuti e indeboliti, che facevano faticosamente capolino dietro lenti spesse. Avrei voluto mettermi gli occhiali da sole per proteggermi dalle loro buone intenzioni, ma il cielo era grigio e la pioggia era tornata, e il suo leggero tamburellare era pronto a trasformarsi in un rovescio. Mi nascosi, allora, dietro il fungo di ombrelli neri che spuntò con un ticchettio sincronizzato non appena la bara fu interrata.
E poi la vidi. La signora Ellis. Se ne stava andando, affrettandosi lungo il sentiero di ghiaia verso il portico d’ingresso. Magra e curva, non c’era dubbio che si trattasse di lei: quell’andatura inclinata, quei passettini brevi e rapidi, persino la sporta della spesa, l’impermeabile, i collant color carne e le scarpe stringate, fuori moda.
Guardai quella sagoma che si defilava e la pioggia cominciò a cadere più forte. Il vento si alzò, afferrandomi i vestiti. In lontananza sentii il rombo flebile dei tuoni. I convenuti, dimenticando l’etichetta, si assiepavano attorno a me, spingendomi verso il cancello. Accelerai il passo per adeguarmi al loro. Avevo bisogno di vederla in faccia, anche se riuscivo a immaginarla: le labbra sottili, il sorriso pieno di autocompiacimento, la pelle tirata ai lati delle guance, della mandibola, della fronte. Potevo vedere le sue mani ossute che si torcevano mentre parlava con il giornalista, raccontando la storia di Gabriella: la storia della ragazza scomparsa. E pensai di nuovo a Tom che spinge il suo carrello da spazzino, mentre muove le labbra intento a conversare con sé stesso. La signora Ellis li aveva visti: Tom e Gabriella. Era stata una testimone, una delle ultime persone ad aver avvistato mia sorella. E Tom – povero, confuso, innocente – era stato indagato. Anche se alla fine non era saltato fuori niente.
Mi sentivo svenire, da quanto il cuore mi martellava forte. Ma volevo comunque vederla. Volevo vedere com’era cambiata. Fu solo quando superò il cancello, mentre mi facevo largo per avvicinarmi, che capii. Non era la signora Ellis. Quella donna era troppo giovane, sulla quarantina, avremmo potuto essere compagne di scuola; e poi mi resi conto che lo eravamo state. Era Martha. Non mi ero sbagliata di molto, era la figlia della signora Ellis.
Ci scambiammo uno sguardo e, per un momento, il resto del mondo perse consistenza. C’era solo Martha, in una pozza di luce. Martha Ellis, che non interessava a nessuno, che tutti avevano tormentato o ignorato; tutti a eccezione di Gabriella.
Sostenni lo sguardo di Martha, e lei distolse il suo, con la fronte aggrottata, come se non sapesse chi ero. Eppure doveva saperlo. Aveva le guance cadenti e infossate, le labbra ridotte a striscioline sottili. Gli occhi guizzavano qua e là come se avesse problemi alla vista, finché, piuttosto all’improvviso, non si posarono di nuovo su di me, e quello sguardo nebuloso venne rimpiazzato dal riconoscimento e da qualcos’altro. E ne fui felice. Volevo che ricordasse. Volevo che sentisse il dolore e la perdita come li avevo sentiti io.
Martha si voltò e si affrettò lungo il sentiero. La pioggia mi scorreva sul viso e si mescolava alle lacrime, e Rita mi tirava per un braccio porgendomi un fazzoletto, consigliandomi con insistenza di mettermi la giacca. Mi scortò a casa, e parlava così velocemente che i miei pensieri rimasero indietro. Quando arrivammo, gli abitanti del villaggio, fradici di pioggia, entrarono incedendo malfermi con le loro offerte: piatti di tramezzini triangolari e fette di torta.
Mi spostavo da una stanza all’altra salutando persone e ringraziandole per essere venute. Di tanto in tanto la mia mente tornava a soffermarsi su Martha e mi restituiva delle immagini: Martha appollaiata sui gradini dell’ingresso; Martha appostata nel bosco; Martha che si trascina dietro di me sul prato, raccontandomi qualcosa in quel suo tono lamentoso.
Mi concentrai sulle persone attorno a me, preparandomi alla loro compassione. Ancora una volta, le facce incombevano e le parole filtravano. Mi aggrappai alle superfici solide per mantenere l’equilibrio. Fissavo lo sguardo su Rita e la osservai preparare il tè, offrire sandwich, chinarsi per sistemare lo scialle di un’anziana signora.
«Somigli a Esther», mi disse un uomo dai capelli argentati che si era fermato accanto a me. Sorrisi educatamente, ma sapevo che non era vero. Io ero mora, non bionda; ero alta, ma non avevo l’eleganza di mia madre. Quell’uomo rimase immobile per un istante, osservandomi, esaminando il mio viso. Anche lui era alto e mi guardava dritto negli occhi. «Non fisicamente, intendo», aggiunse, come se mi stesse leggendo nel pensiero. Cambiai impercettibilmente posizione, a disagio. Che cosa intendeva, allora? Non me lo disse.
Lui si allontanò e avanzai anch’io, nella sua scia, facendomi largo verso la cucina. Rita e un paio di altre donne erano impegnate a lavare i piatti, ma quando presi uno strofinaccio per dare una mano, Rita mi spinse via. Mi diede una tazza di tè caldo e dolce. Lo bevvi velocemente, impaziente di aiutarle. Presi un coltello dal cassetto e affettai una torta coi canditi in grossi pezzettoni. «È meglio se li fai più piccoli», disse Rita. Le sorrisi, ma lasciai i pezzi così com’erano. Si era sempre intromessa in quello che facevamo in cucina. Anche se la mamma pensava che fosse indispensabile. «Non so cosa farei senza Rita», diceva.
A un certo punto, quando il cibo finì e tutto fu riordinato, le persone se ne andarono a gruppetti di due o tre. Rita fu l’ultima. Si trattenne sulla porta, abbottonandosi il cappotto. L’avevo sempre vista come una stella del cinema, con i suoi vestiti alla moda e le acconciature all’ultimo grido. Si offrì di restare a farmi compagnia.
«Sto bene», tagliai corto. «Davvero.»
Lei annuì. «Capisco, ma ci sono, se hai bisogno. E sono più che felice di dare una mano.» Inclinò il capo per far sì che i nostri sguardi fossero sullo stesso livello e strizzò gli occhi dietro le lenti degli occhiali. «La Casa di Flores. So che è presto, ma...» Tacque e tirò fuori una sciarpa a pois, la annodò e mi diede un buffetto sul braccio. «Non ora, cara. Capisco che tu voglia stare da sola. Ci vediamo là domani mattina. D’accordo?» E se ne andò, allontanandosi a lunghe falcate nel vialetto senza darmi il tempo di replicare.
In cucina, mi versai un bicchiere di vino rosso e ne buttai giù la metà in un’unica sorsata. Ripensai a Rita che prendeva il controllo della situazione, a tutte quelle persone che volevano parlarmi, e a Martha al cimitero. Rivederla era stato lo shock più grande. Lo schiaffo dei ricordi. Quella madre terribile che si ritrovava. Che cosa le era successo?
Avevo finito il vino e me ne versai dell’altro. Lo sorseggiai, sentendo il sapore delle prugne. I frutti viola che mangiavamo in giardino. E anche delle susine. Colori e sapori. Il rosso del rossetto di Gabriella. Il giallo del suo vestito.
Tre giorni. Non ero mai rimasta più a lungo di così, quando venivo a trovare mia madre e, ai tempi, non uscivo. Visite rapide, evitando posti e persone del villaggio. Se fossi rimasta di più il passato avrebbe cominciato a srotolarsi come un tappeto di spine, invitandomi a percorrerlo in cerca di risposte che non sono mai arrivate. Stava già succedendo. Sentivo le spine della memoria che mi perforavano la pelle.
Presi una decisione all’istante. Avrei spiegato tutto a Rita. C’erano cose urgenti di cui dovevo occuparmi ad Atene. La Casa di Flores e tutto il resto avrebbero dovuto aspettare. Forse Rita si sarebbe offerta di aiutare, e l’avrei pagata per sistemare tutto.
Tre o quattro giorni. E poi me ne sarei andata.
Annuii per convincermi. Bevvi dell’altro vino. Eppure. Cercai di ignorare la voce nella mia testa che sfidava i miei pensieri. E mi diceva che non importava quanto spesso pensassi di poter ignorare la chiamata, non importava quanto mi rimproverassi per averci anche solo ripensato: sapevo che non avrei mai smesso di farmi quella domanda che mi perseguitava da una vita intera.