11.
Quando sganciai la botola del solaio, la scala scese senza particolari problemi. La soffitta era illuminata da un’unica lampadina polverosa che penzolava in maniera precaria da un cavo sottile. Salii e camminai allegramente sulle assi del pavimento fino a un mucchio di casse che riconobbi: erano mie.
Ne aprii una e trovai dei libri: Poe, White, Brontë, Collins – storie di fantasmi e pazzia. Re Lear. Macbeth. I miei amici dell’università, molto più cari degli studenti, che mi piacevano ma che tenevo sempre a debita distanza.
Appena avevo messo piede a Londra mi ero sentita sollevata. Scendendo lungo Mile End Road e attraversando i cancelli del college, avevo sentito la libertà. Le persone non si ricordavano del caso Flores o, anche se ne sapevano qualcosa, non l’avevano collegato a me. Mi ero sbarazzata del ruolo di sorella della ragazza scomparsa, mi ero scrollata di dosso il mantello claustrofobico del villaggio. Avevo preso posto in mezzo agli altri del mio corso ed ero diventata quello che ambivo a essere: anonima. E visto che nessuno mi aveva mai conosciuta davvero, era stato facile dire addio quando me n’ero andata, facile rimediare nuovi amici e amanti che mi conoscevano ancora meno.
Ora, mentre rovistavo fra i libri dissotterrando Amleto, immaginai quanto la soffitta dovesse traboccare di voci folli e appassionate. Avrei potuto aggiungere anche la mia, nessuno avrebbe sentito nulla.
La seconda cassa conteneva dei rimasugli d’infanzia: orsacchiotti spelacchiati e bambole rotte; un’accozzaglia di animaletti di porcellana e un diario scarabocchiato che era finito in niente e che era diventato un taccuino di poesie, che ricopiavo con la mia migliore calligrafia.
I ricordi si srotolavano. E come era successo con il vecchio filmino di mio padre, le immagini saltellavano e sbandavano per poi bloccarsi in un frammento d’azione. Due ragazze che si tengono per mano correndo verso il mare. Che ruzzolano giù per una collinetta. Che danno da mangiare alle anatre. Sull’altalena. Una faccia seria con i capelli chiari, sciolti. Una bambina più scura con il nastro adesivo sugli occhiali.
Trovai un quaderno. Lì c’erano i miei appunti, la mia lista di sospettati, la goffa ricerca della verità da parte di una ragazzina. Passai in rassegna i nomi: Edward Lily, Charlie Ellis, Stuart Henderson, Rupert Sullivan. Quant’era lunga quella litania di morti? E Tom? Povero Tom. Sacrificato e scacciato. Accusato di aver rapito mia sorella. E anche quando era stato scagionato, l’etichetta era rimasta. Ormai aveva il marchio del pervertito ed era stato allontanato dal villaggio. Chissà dov’era adesso. E le donne e le ragazze. Erano state tutte catalogate nel mio quaderno, i loro movimenti elencati, i loro collegamenti con Gabriella messi nero su bianco. Ogni persona del villaggio era stata fra i sospettati. E ciascuno di loro, morto o vivo, lo era ancora.
Dall’altra parte della soffitta c’era un baule di metallo. Mi spostai sulle assi di legno, stringendo ancora il quaderno. Conteneva degli abiti, vecchi vestiti e scialli, un paio di scarpe di raso logore. Le rividi addosso alla mamma, che si squadrava i piedi con sguardi furtivi. Sotto i vestiti trovai una busta piena di documenti e una scatola di legno. Cercai di aprirla, ma era chiusa e non c’era la chiave. Incuriosita, la presi, insieme alla busta, e tornai di sotto scendendo la scala.
Seduta sul divano, studiai prima i documenti, spiegando i fogli con attenzione. La vita dei genitori di mia madre, Grace e Bertrand Button, era scritta su sottili fogli ingialliti punteggiati di muffa. La loro storia sembrava completa: nascita, matrimonio e morte. Tutti i loro certificati erano pinzati insieme. In compenso non c’era niente sulla famiglia di papà, fatto poco sorprendente dato che i suoi genitori non erano nati in Inghilterra. Gran parte della sua storia era andata perduta.
Anche su mamma e papà non trovai granché. L’unico documento che saltò fuori su di loro fu il certificato di nascita della mamma. Scartabellai per un po’ in cerca di altre carte, prima di rinunciare. Le avrei magari trovate in seguito e sarebbe stato interessante mettere tutto insieme, creando un albero genealogico. Presi in considerazione l’idea di fare una ricerca online, richiedendo i certificati per completare la raccolta, finché non mi ricordai che non c’era il wi-fi. La mamma non aveva mai avuto un computer.
Armeggiai ancora con la serratura della scatola di legno, ma non cedette. Quando papà trovava un armadietto o una porta che non riusciva ad aprire durante lo sgombero di una casa, scassinava le serrature con una graffetta e un paio di pinze. Ora, con una punta di senso di colpa, andai a prendere l’occorrente, misi in pratica il suo trucchetto e la serratura produsse un gratificante clic.
Nella scatola c’era un braccialetto di battesimo avvolto nel velluto blu. Era di splendida fattura, con due cuoricini, ognuno con incastonata una piccola pietra verde, e GABRIELLA cesellato sulla parte frontale. Me lo portai alle labbra e lasciai che il mio respiro appannasse il metallo. Gabriella aveva mai saputo che fosse suo? Ne avevo uno anch’io? Pensavo di no.
Rimasi seduta lì, cercando di ricordare, scacciando il rancore. I miei genitori avevano pensato più a Gabriella che a me? No, scartai quell’ipotesi. Ero meschina, gretta ed egoista. Che importava se avevano comprato un braccialetto solo per lei? Ci amavano allo stesso modo. E io ero la secondogenita. Tutti sanno che il secondogenito riceve meno attenzioni.
Più tardi andai al caffè. Le macchine passavano con i fari accesi e, nonostante fossero solo le due, sembrava fosse già il crepuscolo.
Stava piovendo e una donna che spingeva una carrozzina antiquata si fermò a sistemare la capote. Si voltò, cercando ansiosamente con lo sguardo, finché non apparve una bambina con il cappotto chiuso fino all’ultimo bottone, e a quel punto sorrise con sollievo.
Avevo il braccialetto in tasca. Lo tirai fuori e strinsi il minuscolo cerchio. Essere gelosi era sbagliato, mi dissi ancora. I miei genitori avevano comprato quel regalo per la loro primogenita; una ragazza che era stata strappata loro dopo quindici anni. Ora se n’erano andati e io ero l’unica rimasta, l’unica a cui importasse qualcosa.
La pioggia si fece più intensa. Un uomo in completo entrò con impeto e ripiegò l’ombrello, aprendolo e chiudendolo più volte per scrollare le goccioline; da dietro il bancone si alzò un sibilo di vapore, uno sbatacchiare di stoviglie e la risata sonora della cameriera non appena si misero a chiacchierare.
Arrivò David con un giornale sotto il braccio e ordinò qualcosa al bancone. «Da mangiare qui o da portare via?» domandò la cameriera. Quando rispose che l’avrebbe portato via provai una punta di delusione e buttai giù il mio caffè.
Quando si girò per uscire mi notò e si avvicinò. «Avrei offerto io, se ti avessi vista», disse, lanciando un’occhiata alla mia tazza vuota. «Espresso?»
Sorrisi. Perché no?
Posò il suo bicchiere di plastica e il giornale sul tavolino e tornò con il caffè e un dolcetto. Quando me li depositò davanti sollevai un sopracciglio. «Mi sembrava che avessi fame», si giustificò lui, mettendosi a sedere e sorridendo imbarazzato. Si voltò verso la cameriera e sollevò il bicchiere con un gesto interrogativo. Lei agitò la mano e annuì, dandogli il permesso. David tolse il coperchio, soffiò sul liquido e bevve.
«Come va con lo sgombero?» domandò dopo un po’.
Ci pensai su un momento prima di dire: «Impegnativo».
Esplose in una risata cordiale. «È proprio il termine esatto.» Diede un occhio al cruciverba risolto a metà sul suo giornale. «Mi servirebbe qualcuna di queste. Tre orizzontale: “La capitale d’Italia”. E la risposta non è “Roma”.»
Feci una smorfia. «Non chiederlo a me, sono una frana con le parole crociate, specie se sono criptiche.»
«Questo veramente è un cruciverba facilitato...»
«Be’, potrebbe essere qualsiasi cosa. Antica, turistica, santa.»
David sorrise, aprì il sacchetto e ne ispezionò il contenuto. Tirò fuori una fetta di torta e la sollevò per mostrare anche quella alla cameriera. Lei scosse la testa, divertita, e sventolò la mano per far capire che non c’erano problemi.
«Sei lettere, la quinta è una N.»
«È tutto quello che hai?»
Fece spallucce. «Anch’io non sono molto abile nei cruciverba. Non so perché li faccio.»
«Nutrimento per il cervello.»
«Forse.»
Ci fu un momento di stallo, mentre David mangiava. Indossava una camicia a quadri e aveva dimenticato un bottone slacciato. Resistetti all’impulso di farglielo notare e mi concentrai invece sul suo volto. La barba corta gli donava. Era più attraente di quanto avevo pensato all’inizio. E anche divertente. Era sposato? Piluccando una mandorla dal dolce e mordicchiandone la punta diedi una rapida occhiata alla sua mano sinistra. Era single, allora. Anche se non si poteva mai dire con certezza.
La donna con la carrozzina stava tornando. La bambina aveva aperto un ombrello gigantesco e il vento la trascinava in avanti. Rimasi a guardarle mentre avanzavano lungo la strada e, quando mi voltai, David si era bloccato a metà di un morso e mi stava studiando con un’espressione interrogativa. Mi resi conto di sorridere. «Mi ricorda qualcuno», gli spiegai, e sentii lo stomaco che si annodava mentre ripensavo a quello che avevo appena detto. Quale delle due: la donna o la bambina? Gabriella la bambina che era stata o Gabriella la madre che non sarebbe mai esistita?
I miei occhi si inumidirono, e sperai che David non se ne fosse accorto. Ma non me la sarei cavata così facilmente. Mise giù quel che rimaneva del suo dolce e mi parlò a bassa voce, al di sotto dei rumori del locale. «Mi dispiace per tua madre. Non dev’essere facile fare tutto da sola.»
Quel commento inatteso scatenò di nuovo le lacrime. «Grazie», risposi, sbattendo le palpebre con decisione.
Ricominciò a parlare dello sgombero, facendo previsioni su quanto ci sarebbe voluto per finire, offrendo consigli e un aiuto extra da parte sua e dei suoi ragazzi. Mi disse di avere parecchi contatti e, cosa ancora più importante, un camioncino. «Un uomo con un camioncino», concluse, finendo il suo caffè, «può spostare qualsiasi cosa.» Lanciò un’occhiata all’orologio. «Ti va di bere qualcosa?»
Mi spiazzò, per un istante. «È un po’ presto», dissi.
Sogghignò. «Non è mai troppo presto.»
La pensavo all’incirca allo stesso modo, che cos’avrei dovuto dire? Cercai una scusa plausibile e aggiunsi che avevo in programma di andare in biblioteca. Era vero in parte, visto che avevo intenzione di andarci uno o due giorni dopo per usare il loro wi-fi. Perché non portarsi avanti?
David agitò una mano, per tagliare corto. «Biblioteca? Pub? Non c’è partita, no?»
Sorrisi. «Un’altra volta, magari.»
Non si mosse, si limitò a lisciare il sacchetto di carta e a ripiegarlo più volte. «Mi piacerebbe», disse alla fine.
E all’improvviso mi resi conto che sarebbe piaciuto anche a me.
Dopo che se ne fu andato restai seduta ancora per qualche minuto guardando i passanti fuori dalla vetrina. Un anziano che arrancava. Un ragazzo. Malinconico. Una corrente incessante di persone. Era senza fine. Perpetua. Eterna. Mi venne da sorridere, pensando alla definizione del cruciverba di David. E poi divenni triste: quante persone, quante vite diverse... Non sorprendeva che alcune di loro mancassero all’appello.