12.

1982

L’immagine del porcellino d’India mi era rimasta impressa in testa. All’ora di cena avevo guardato le fettine di lingua che avevo nel piatto e avevo chiesto il permesso di allontanarmi da tavola. La mamma me lo concesse senza fare domande. Lei e papà erano silenziosi, quindi immaginai che non avessero ancora risolto il loro problema.

Dormii male, svegliandomi diverse volte durante la notte, ogni volta ricordando quel corpicino straziato e sanguinolento. Rimasi distesa al buio, desiderando disperatamente di poter andare in camera di Gabriella a raccontarle quello che avevo visto ma, ogni volta che mi convincevo a confessare, ripensavo al suo misurato sguardo di rimprovero e alle sue parole: «Non provi mai dispiacere per nessuno?».

La mattina seguente, quando scesi, Gabriella era ancora a letto. La mamma era in cucina, carponi sul pavimento, a pulire il forno. Aveva già scrostato le griglie, che ora, lucenti, erano posate sullo scolapiatti, e notai che aveva svuotato un reparto della credenza tirando fuori pentole e padelle da pulire.

«Possiamo andare in città, oggi?» domandai, fingendo noncuranza mentre prendevo un pezzo di toast freddo.

La mamma tirò fuori la testa dal forno e buttò uno strofinaccio in un secchio di acqua saponata. Si sfilò i guanti Marigold con un plop tirandoli per le dita e, ignorando la mia domanda, mi chiese di sedermi.

«Volevo dirti due parole», iniziò.

Rividi il porcellino d’India morto e sentii un nodo allo stomaco.

«È solo che...» Si fermò. Forse avrei dovuto confessare prima che dicesse qualcos’altro.

«Ha raggiunto un’età.»

La fissai. «Chi?»

«Gabriella.» La mamma si tirò una ciocca di capelli. «Ha un’età in cui si fanno delle cose.»

«Quali cose?» Ora ero sicura che non si stesse riferendo al porcellino d’India. Diedi un morso al toast.

La mamma parlò rapidamente. «Senti, Anna. Sono preoccupata per tua sorella. Penso che stia facendo delle cose che a noi – a me e a tuo padre – potrebbero non piacere.»

Non riuscivo a pensare a nulla di sbagliato che Gabriella avesse potuto fare – a parte fumare. L’avevano scoperto?

«Puoi aiutarmi, Anna?»

Deglutii. «Come?»

«Fammi sapere se la vedi parlare con qualcuno... voglio dire, con qualcuno che non conosciamo.» Mi fece un gran sorriso. «Siamo d’accordo?»

Aprii la bocca per dire che non lo ero, ma le parole scomparvero col mio respiro. Era per il modo in cui la mamma mi guardava: intenso e triste allo stesso tempo. Fui invasa dalla sensazione che fosse accaduto qualcosa di drastico. Annuii con un sospiro profondo, masticando il mio toast senza entusiasmo. Stavo mentendo. Non avevo nessuna intenzione di fare la spia a mia sorella, o perlomeno non avevo intenzione di fare rapporto alla mamma.

Più tardi, la mamma finì con il forno, le pentole e le padelle, e si mise a pulire il bagno, strofinando con la candeggina ogni mattonella che c’era sul muro e fregando la vasca quasi fino a grattare via il colore.

Mia sorella emerse dalla sua stanza soltanto all’ora di pranzo. Entrò assonnata in cucina, ancora in pigiama, mentre la mamma preparava dei sandwich, affettando il pane con fendenti approssimativi e rabbiosi. Alzò a malapena lo sguardo quando apparve Gabriella e, sebbene mi aspettassi che la rimproverasse per aver sprecato l’intera mattinata, non disse una parola.

I genitori di Belinda Stock avevano divorziato l’anno prima. Lei aveva descritto dettagliatamente le loro litigate, i piatti rotti, le urla e i vestiti gettati fuori dalla finestra. Tra i miei genitori non era accaduto niente del genere, ma c’erano altri scenari da considerare. Il padre di Jane Taylor era uscito per comprare un pacchetto di Silk Cut al negozio all’angolo ed era scomparso per tre mesi. Sua madre aveva pulito incessantemente la casa da cima a fondo finché lui alla fine era tornato.

Le pulizie mi erano piuttosto familiari, così la sera, dopo cena, seguii papà in giardino. Lo trovai che fumava appoggiato al susino. Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Ero restia a porre la mia domanda. In un solo istante, un o un no potevano cambiare la mia vita.

Alla fine mi decisi. «Papà, c’è qualcosa che non va?»

Mi guardò. «Perché dici così, Anna?» E, quando mi strinsi nelle spalle, aggiunse: «Non c’è niente di cui ti debba preoccupare. Non c’è niente che possa riguardarti».

Feci un respiro profondo. «È per la mamma? State...» Esitai. «State divorziando?»

Buttò via la sigaretta, si voltò e mi afferrò per le spalle. «No», disse, abbassandosi fino a portare il viso all’altezza del mio. «Tua madre e io non lo faremmo mai. Qualsiasi cosa accada, ci amiamo. E amiamo anche voi. Te e Gabriella. Niente può cambiare questo.» Annuii. Volevo davvero credergli. Lo desideravo così tanto che non mi mossi. Non gli dissi quanto mi stava facendo male: le sue dita mi scavavano la carne.

La mattina dopo, nonostante le rassicurazioni di mio padre, nulla sembrava essere cambiato. Il viso della mamma era pallido, gli occhi lucidi. Papà non si era fatto la barba ed era in ritardo per il lavoro.

Quando entrai in cucina si alzò, malfermo. La mamma lo seguì in corridoio e si misero a parlottare a voce bassa. Cercai di capire cosa stessero dicendo, ma l’unica cosa che sentii era la mamma che gli diceva di stare alla larga. Alla larga da cosa?

Mia madre aveva smesso di pulire e cominciò a riordinare l’armadio del sottoscala, ammucchiando vecchi impermeabili e giocattoli rotti. Mi ero offerta di aiutarla e lei aveva accettato, mostrandomi ogni oggetto per sentire la mia opinione: un pallone sgonfio – di quelli per saltarci sopra –, un set di Wombles di plastica, ancora impacchettati. Il suo umore migliorò, finché non trovò un vecchio paio di sandali appartenuti a Gabriella.

Mi si strinse il cuore a vederla piangere. Andai a prendere un fazzoletto dalla scatola in salotto e quando glielo porsi lei mi accarezzò i capelli. Mi appoggiai alla sua mano. Volevo chiederle cosa c’era che non andava, ma avevo troppa paura della sua risposta, perciò restai in silenzio, aspettando che fosse lei a parlare. Mi attirò contro il suo seno e io respirai il suo profumo – Lily of the Valley –, quello che metteva sempre. Papà aveva detto che non c’era nessun divorzio. Quanto era stato sincero? Per quale altro motivo mia madre poteva essere così sconvolta?

La mamma sospirò e si soffiò il naso. «Mi dispiace, Anna. Sono una sciocca. È per questi sandali. Guardali.» Cercò di sorridere. «Non sarebbe bello se le cose restassero sempre le stesse?»

Mi offrii di andare a chiamare papà, ma lei scosse la testa e, quando proposi di chiedere a Gabriella di scendere, ricominciò a piangere.

Arrivati all’ora di pranzo, la mamma aveva messo nei sacchetti la roba che non voleva più tenere nell’armadio ed era andata in cucina a preparare il chutney. Decisi di metterla alla prova e le feci qualche domanda a proposito dei fine settimana e delle vacanze, soppesando le sue reazioni. Mi rispose apertamente e senza darmi l’impressione che il futuro della nostra famiglia corresse il rischio di accorciarsi di netto. Arrivai alla conclusione che la mamma aveva sì un segreto, ma non stava necessariamente pianificando il divorzio.

Il problema era che, ora, avevo due segreti tutti miei: la scatola di scarpe di Martha e la richiesta di spionaggio della mamma. Morivo dalla voglia di condividerli entrambi con Gabriella.

Lei era nella sua stanza, si era vestita e si stava spruzzando sui capelli mezzo flacone di Harmony. Le domandai dove stava andando, e quando mi rispose «da nessuna parte» mi cascarono le braccia. Era il genere di risposta che poteva dare ai miei genitori, non a me.

«Posso venire?» le chiesi con un tono ottimista.

Fece il nodo a una sciarpetta gialla e si allacciò la cintura borchiata. «Oggi no. Devo vedere delle persone.» Tirai su sonoramente col naso e, come per risarcirmi, lei mi lanciò un braccialetto. Lo presi e me lo infilai al polso. «E non dire alla mamma che sono uscita», aggiunse. «Lo sai com’è fatta. Specie negli ultimi tempi. Dille che sto facendo i compiti e non voglio essere disturbata.»

«Non ci crederà.»

«Allora dille che sono in giardino. O quello che vuoi.»

Accettai di fare come voleva, ma appena chiuse la porta d’ingresso la seguii. L’avrei spiata come mi aveva chiesto la mamma, senza però riferire quello che avrei scoperto. Ma al cancello il mio piano trovò già un intoppo. La signora Henderson e Brian mi bloccavano la strada.

«C’è tua madre?» domandò la signora Henderson con la sua solita aria per benino. «Sono qui per offrirmi di dare una mano per la fiera.»

Accanto a lei Brian si agitava, a disagio. Nessuno di noi due guardava la signora Henderson. Entrambi fissavamo Gabriella che scompariva in fondo alla strada.

«Allora?» La signora Henderson piazzò la sua faccia davanti alla mia. Aspettava una risposta.

Diedi un ultimo sguardo alla strada, dove Gabriella non si vedeva più, e aprii la porta con riluttanza. Quando la mamma apparve e vide chi era, assunse un’espressione contrariata. Tuttavia le fece strada fino in cucina. Buone maniere. Un’altra delle sue regole. E ospitalità. Anche se in questo caso non si spingeva fino a concedere loro di accomodarsi in salotto.

Il codice di condotta non si applicava a me. Se Brian pensava che mi sarei dedicata a intrattenerlo, avrebbe dovuto aspettare un’altra volta. Mi allontanai con passo deciso senza lasciargli altra scelta, se non quella di seguire sua madre. E trascorsi il tempo guardando la TV e sfogliando riviste, in attesa che se ne andassero.

A un certo punto la porta sbatté. La mamma stava borbottando fra sé e sé che non aveva bisogno dell’aiuto di quella donna quando mise la testa in salotto e mi chiese di Gabriella.

«È di sopra», dissi senza distogliere lo sguardo da Danger Mouse, in cui il topo eroe stava salvando l’umanità dal piano del Barone von Greenback di inondare il mondo di crema pasticcera.

La mamma fece un cenno di assenso col capo ma non commentò. Dopo che se ne fu andata mi chiesi se avrei potuto persuaderla a prepararci di nuovo il rotolo alla marmellata per il tè. Con la crema pasticcera.

Sbadigliai, mentre scorrevano i titoli di coda. La maggior parte dei miei amici era in vacanza. Erano fortunati, specialmente quelli che erano andati all’estero. Persino il nostro solito viaggio nel Nord del Galles era stato annullato. «Vostro padre dice che quest’anno non dovremmo andare», aveva spiegato la mamma quando le avevo chiesto il motivo. «Pensa che dobbiamo risparmiare.»

«Per cosa?» Lei aveva voltato lo sguardo con un’alzata di spalle. Ancora segreti.

Comunque, per quel che ne sapevo, Belinda Stock era a casa, quindi uscii senza prendermi la briga di avvertire la mamma. Non che si preoccupasse del fatto che io fossi fuori. Le interessava solo dove andava Gabriella.

Era una giornata rovente e presto mi pentii di avere addosso i jeans attillati e una maglia a maniche lunghe di Snoopy (quindici pence a un mercatino delle pulci). Belinda viveva vicino alla scuola, in una casa moderna con un abbaino. Quando suonai non ci fu risposta, ma restai davanti alla porta per cinque minuti buoni, pigiando il campanello e pensando che, se fossi rimasta lì abbastanza a lungo, lei sarebbe apparsa.

Alla fine mi arresi e feci due passi verso la fine della strada, e poi fino all’imbocco di Acer Street.

Tom camminava sul marciapiede opposto, le ruote del suo carrello rimbombavano sul selciato. Si fermò accanto a un albero e guardò in su. Un uccello cantava tra i rami. Ascoltai anch’io, e riconobbi un merlo. Stavo per rimettermi in marcia quando sentii una porta sbattere. Lanciai un’occhiata pigra alle case per vedere chi fosse stato. Gabriella stava uscendo dall’abitazione di Martha. Restai a bocca aperta mentre lei tirava fuori il walkman e si avviava in direzione di casa nostra. Come se far visita a Martha fosse la cosa più naturale del mondo.

Qualche secondo più tardi, la porta si aprì di nuovo. E questa volta comparve Martha con una borsa per la spesa. Veniva verso di me. Era troppo tardi per nascondermi. Armeggiando con gli occhiali, feci un passo come se stessi già camminando, ma non riuscii a ingannare Martha. Lei mi rivolse un sorriso scaltro e passò oltre.

Una volta a casa, mi diressi decisa di sopra, in camera di Gabriella.

«Che c’è?» disse lei mettendo giù la sua copia di «NME».

Mordicchiandomi il labbro, cercai di ignorare il tarlo della gelosia intrappolato nella mia pancia. Ci appoggiai una mano sopra nel tentativo di placare quel sentimento, ma non se ne voleva andare. «Non mi avevi detto che uscivi con Martha», sbottai con tono accusatorio.

Gabriella si accigliò. «E perché avrei dovuto?»

«Perché io ti dico sempre cosa faccio.»

«Davvero?» ribatté, fissandomi a sua volta.

Per un attimo mi pentii di averle fatto quella domanda, ma ormai non potevo tornare indietro. E poi morivo di curiosità. «Allora, quando vi siete messe d’accordo?»

«Non l’abbiamo fatto. Stavo andando da Bernadette, ma ho cambiato idea quando ho incontrato Martha.»

«L’hai incontrata?»

«Sì, ma non ci siamo trovate di proposito. Era lì e basta.»

Martha non era mai lì e basta. E Gabriella conosceva perfettamente la sua reputazione, tanto quanto me.

«Dove?»

«Per strada. Era seduta fuori da casa sua. Insomma, te l’ho già detto, Anna. Mi dispiace per lei.»

Gabriella alzò gli occhi al cielo e si rimise a leggere.

Mi stavo comportando da stupida, lo sapevo, e rimasi a gironzolare vicino alla finestra, rosicchiandomi le unghie in disperata attesa di altri dettagli.

«Sua madre c’era?» chiesi.

«No», fece Gabriella, senza distogliere lo sguardo dalle pagine.

«Suo padre?»

Ora mi guardava. «No. È andato via.»

Ero contenta. Non mi piaceva pensarlo con Gabriella. Ma volevo sapere di più. «Dove?»

«Non ne ho idea. Non gliel’ho chiesto.»

La guardai storto. «Probabilmente sarà stato al pub. È sempre lì.»

«Be’, oggi non era al pub. È andato da qualche parte per lavoro. Così ha detto Martha. E la loro auto non c’era.»

«Quale? La Morris Minor?»

Gabriella sbuffò. «Per l’amor del cielo! Ma che ti succede? Cosa te ne importa?» Frugando sotto il cuscino, tirò fuori una manciata di caramelle e mi lanciò un Bazooka Joe. «Lascia perdere, Anna. Martha non mi piace più di quanto non piaccia a te. Mi spiace per lei, tutto qui.»

Scartai mestamente la strisciolina di gomma rosa e me la ficcai in bocca. Solo pochi mesi prima, ci saremmo sedute e avremmo passato in rassegna ogni singolo movimento di Martha. Ora lei mi ignorava. Ero sola. Cercai di immaginare come avrei fatto ad affrontare il resto delle vacanze estive senza amici e senza una sorella con cui stare. Se solo avessi potuto trasportare Gabriella da qualche parte in mezzo al niente, come il nostro cottage nel Galles, e averla tutta per me! Quello avrebbe risolto ogni cosa.

A cena decisi di tirare fuori la questione. Perché quell’anno non partivamo anche noi, come avevano già fatto tutti quanti al villaggio?

«Stiamo risparmiando», disse papà, tagliando stancamente la sua costina di maiale. «Credevo che la mamma te l’avesse già spiegato.»

«Sì, ma perché?» Guardai mia madre.

«Niente di cui tu ti debba preoccupare», rispose lei con calma.

Sospirai pensando a tutte le volte che mi ero lamentata della nostra gita in Galles. Ora non desideravo niente di più che sedermi su una spiaggia sassosa con Gabriella sotto la pioggia, mangiare panini e aspettare che sbucasse il sole. Solo noi due, lontane dalle persone irritanti come Martha. Lontane dall’atmosfera deprimente che stava prendendo possesso della nostra casa.

Stavo per ricominciare a protestare quando papà si schiarì la voce. «Forse è un buon momento per dirvelo...» Lanciò un’occhiata alla mamma e poi tornò a guardare noi. «Stiamo pensando di cambiare casa.»

Persi la capacità di parlare. Cambiare casa, sillabai con le labbra. Avevo vissuto lì per tutta la mia vita. «Perché?» domandai, riuscendo finalmente a trovare una parola.

«Pensiamo che serva un cambiamento.» Abbassò gli occhi sul piatto.

«Ma dove andremo?»

«Forse a Londra, vicino allo zio Thomas.»

«Ma Londra è cara! Lo dici sempre.»

«Non dappertutto... e potremmo stare dallo zio per un po’, finché non ci sistemiamo.»

Gabriella stava fissando papà, con la forchetta sospesa a metà strada fra il piatto e la bocca, l’incredulità dipinta sul volto. «Non dici sul serio», mormorò.

«E la scuola?» intervenni di nuovo.

«Potremmo mandarti al classico.»

«Ma tu lo odi, quel tipo di scuola!»

«Se ti fa felice...»

«Non mi farebbe felice», ribattei. «E la Casa di Flores? Non possiamo abbandonarla.»

Papà mi squadrò con aria triste. «Mi dispiace, Anna. Ma vedrai, sarà meglio così.» Si rivolse a Gabriella. «Che te ne pare?»

«Uno schifo. Ho gli esami.»

Papà si grattò il mento. «Lo so, ma...»

Mia sorella lasciò cadere la forchetta «Non posso cambiare scuola adesso. Giusto, mamma?»

La mamma scosse il capo ma non rispose. Invece si rivolse a papà: «Non è possibile, vero?».

«Possiamo farcela...»

«No, non possiamo, Albert. E a cosa serve? Non risolverà niente.»

La sedia di Gabriella grattò il pavimento quando lei si alzò. «Non andrò da nessuna parte», disse fulminando papà con lo sguardo. «Non puoi aspettarti che lasci la scuola. O i miei amici. Io non ci vengo!»

Uscì dalla stanza e io trattenni il respiro mentre i miei genitori si scambiavano un’occhiata che non avrei dovuto capire.