23.
Mi sporsi in avanti dalla sedia nel salotto di Rita in attesa della sua risposta.
«È Gabriella», annunciai.
Non c’era bisogno di dirlo. Dalla faccia di Rita si capiva che lo sapeva già. Tuttavia studiò il ritratto che le avevo ficcato in mano per qualche secondo, prima di restituirmelo chiedendomi dove l’avevo trovato.
«Era tra la roba di Edward Lily.»
Due macchie di colore le infiammarono le guance. Ora capivo. Lei sapeva la verità. Rita era stata la confidente di mia madre, la custode del suo segreto. E aveva cercato di avvisarmi – ma non aveva insistito abbastanza. Al cimitero aveva accennato al fatto che i miei genitori avevano nascosto qualcosa e che io dovevo essere indulgente. Lì per lì non avevo compreso cosa stesse cercando di dirmi, ma ora era tutto chiaro. E la consapevolezza si trasformò in rabbia.
«Perché non mi avete detto che era il padre di Gabriella?» sibilai. Rita aveva gli occhi pieni di lacrime. Io digrignai i denti. «Dove si vedevano?» Come se importasse qualcosa.
Lei parlò a bassa voce, ancora rossa in volto. «Nel negozio di Edward.»
«Quale negozio? In Spagna? Mia madre non viveva in Spagna. Oppure sì? C’è qualcos’altro che non so?»
Rita scosse il capo. «Edward aveva due negozi, uno a Siviglia e uno a Londra, a Piccadilly. Tua madre lavorava nell’ufficio della filiale di Londra. Si innamorarono.» Sul volto le comparve un leggero sorriso, pieno di rimpianto.
La fissai incredula. Rita era così calma, come se fosse tutto normale. Come se non ci fossero complicazioni. «Ma lui era sposato», obiettai.
«Lo so.»
«E allora perché...»
«Sua moglie, Isabella... Non era un matrimonio felice.»
Distolsi lo sguardo. Non era una scusa. «Perché non l’ha lasciata, se era così innamorato? E cosa mi dici del fatto che la mamma è rimasta incinta?»
Rita fece una smorfia e abbassò lo sguardo. Era un gesto che esprimeva un senso di colpa.
«Lui non lo sapeva, vero?» la incalzai.
Rita scosse la testa. «All’inizio no.»
«La mamma ha mentito e gli ha rubato la figlia?» ribattei con tono di accusa.
«Non è andata proprio così... Era considerato...» Rita inspirò profondamente. «A tua madre fu consigliato di non dirglielo.»
«Consigliato?» La mia voce si fece acuta. «Da chi?» Ma era ovvio. «La nonna Grace. È stata lei, vero?»
Rita annuì e io vidi nella mia mente la nonna Grace, con la sua determinazione e il suo autocontrollo, che architettava il piano. Tenere lontana la figlia da un inadeguato uomo sposato, con una moglie dalle tendenze suicide, e trovarne uno semplice e gran lavoratore. Mi immaginai la scena. Mio padre, bello e gentile, che arrivava la mattina dopo il temporale. La nonna Grace che gli offriva il tè e poi si precipitava su per le scale, facendo due gradini alla volta, tirando giù di peso la figlia dal letto, dove giaceva a struggersi – non perché aveva un generico mal di stomaco e stava troppo male per lavorare, ma perché soffriva di nausee mattutine.
Mia nonna aveva inventato la storia su come i miei genitori si erano sposati, travolti da un romantico turbine d’amore. La rividi, sulla seggiola con lo schienale rigido, che raccontava quella storia, ogni volta con più dettagli. L’aveva raccontata così spesso che lei stessa aveva cominciato a crederci, mentre il resto di loro – suo marito, mio padre, mia madre e lo zio Thomas – avevano agito da complici, rimanendo in silenzio, sapendo che si trattava di una bugia. E Rita. Anche Donald l’avrà saputo? Solo io ero stata ingannata? Gabriella e io. E poi solo io.
Feci un respiro profondo, cercando di arginare il risentimento. Perfino dopo la scomparsa di Gabriella nessuno mi aveva detto la verità.
«Amava mio padre?» dissi dopo qualche istante.
«Esther?» Rita parve sorpresa. «Sì, certo. Senza dubbio. Tua madre ha commesso un errore con Edward. Lei era giovane e lui era carino. Albert è stato la cosa migliore che le sia mai capitata. Lui sapeva della bambina, ma l’amava comunque. Volevano entrambi la stessa cosa: una vita stabile, una famiglia.»
Fissò un punto lontano e pensai che forse era quello che aveva desiderato anche Rita. O magari era contenta di aver avuto una vita senza troppe complicazioni. Non avendo segreti propri, era stata libera di custodire quelli di qualcun altro. E l’aveva fatto in modo brillante, pensai con amarezza, lasciandomi completamente in disparte.
Mi costrinsi a riprendere il discorso. «Così si accordarono per ingannare Edward Lily. Quando scoprì la verità?»
Rita chiuse gli occhi. Per un attimo pensai che si sarebbe rifiutata di rispondermi. Ma dopo essersi massaggiata le tempie disse: «Edward contattò tua madre. Stava per lasciare Isabella. Lei gli disse che era sposata e aveva una bambina, e che non c’era futuro per loro due. Lui intuì, o forse lei gli disse la verità riguardo alla figlia. In ogni caso, Edward acconsentì a lasciare in pace Esther e Albert. Forse si sentiva in colpa».
«Quanti anni aveva allora Gabriella?»
«Era una neonata.»
Il braccialetto di battesimo: d’argento con incastonate pietre verdi. Coordinato con la collana e l’anello. Edward l’aveva mandato alla mamma come regalo d’addio? Eppure era ritornato. Perché l’aveva fatto?
«Se aveva accettato di stare lontano», dissi lentamente, «perché è tornato dopo tutti quegli anni? Cosa gli ha fatto cambiare idea?»
«Isabella morì. Lydia era malata. Penso che questo l’abbia spinto a reclamare Gabriella.» Restò in silenzio. Mi chiesi quanto sapesse davvero e quanto stesse ipotizzando. Ma il fatto restava. Edward era tornato.
Un brivido mi percorse quando ripensai alle date. Tre mesi dopo che Edward Lily era arrivato al villaggio per riprendersi sua figlia, Gabriella era scomparsa. Una tragica coincidenza, o cos’altro? Ma la polizia l’aveva interrogato e avevano perquisito il suo cottage. E mio padre aveva detto categoricamente che Lily era innocente. Doveva esserne sicuro. Mi chiesi se la polizia fosse stata al corrente del fatto che lui era il genitore biologico di Gabriella.
Rita annuì, quando glielo chiesi. «I tuoi genitori l’hanno detto ai detective.»
«È per quello che è stato scagionato?»
«No.» Esitò. «Aveva un alibi. Era stato con tua madre per la gran parte di quella giornata.»
La guardai, sobbalzando per la sorpresa. «Che vuol dire?»
«No...» replicò con calma. «Non è quello che pensi. Niente del genere. La loro storia era finita. Tua madre stava cercando di convincerlo a lasciare il villaggio. Sapeva che Gabriella avrebbe fatto fatica a perdonarla. E pensava che per tutti voi sarebbe stato più facile andare avanti se lui non fosse stato lì.»
Mi sembrava incredibile. «Ha mentito a Edward Lily. Ha mentito a Gabriella.» Feci una pausa. «E lo stesso ha fatto papà. Pensi che avessero intenzione di raccontarle la verità, un giorno?»
«Credo che l’avrebbero fatto. Solo che Edward tolse loro quella possibilità.»
Quando l’aveva detto a Gabriella? Quanto tempo prima che lei sparisse? Nella mia mente si susseguivano le scene: i litigi con i nostri genitori, la rabbia di Gabriella quando era scappata dal salotto al compleanno di papà. E poi ancora altri pensieri: lei che fa la valigia, la mia tristezza quando disse che se ne sarebbe andata. E le lettere. «Edward Lily scrisse a mia madre, vero? Tu hai preso la busta che avevo trovato sullo zerbino. E hai detto che era della chiesa. Lo sapevo che mentivi. Era sua, eh? Cosa diceva? Minacciava di dire tutto a Gabriella?» Parlai con rabbia, ma non mi importava. Volevo ferire Rita, farla sentire in colpa.
«No, non minacciava», disse sollevando le mani, quasi per difenderlo. «Edward non era tipo da fare certe cose. Rimpiangeva di aver rinunciato a Gabriella. Implorava Esther di lasciargliela vedere.»
«E quando lei ha rifiutato? Ha scritto anche a Gabriella?»
«Sì. La polizia trovò quella lettera. Ma ormai non era più rilevante perché Edward non era più un sospettato.»
Mi sporsi in avanti e parlai con decisione, lasciando trasparire la mia ostilità. «Hai detto che Edward era stato con la mamma per gran parte della giornata. E il resto? Poteva aver convinto Gabriella in anticipo ad andare direttamente al cottage dopo la scuola. E poi, quando lei rifiutò...» Chiusi gli occhi: non sopportavo quello che stavo pensando.
Ma Rita stava scuotendo la testa. «Non ci credo. E non ci credevano nemmeno i tuoi genitori o la polizia.» Mi guardò negli occhi. «Lo pensi davvero?»
Non lo sapevo. Il buonsenso mi diceva che gli inquirenti dovevano aver indagato su Edward Lily a fondo prima di scagionarlo. Lasciai vagare lo sguardo per la stanza, in cerca di un modo per proseguire la conversazione.
Il locale era sorprendentemente moderno. Quadri astratti ricoprivano una parete. Blocchi di colori brillanti. Nonostante la sua affidabilità, Rita era imprevedibile. Una contraddizione. Forse era per quello che piaceva a mia madre. Rita piaceva a quella parte di lei che era andata perduta quando si era sposata. Quando aveva rinunciato a Edward Lily. Il vero amore della sua vita.
Rita si tolse gli occhiali con un sospiro e se li posò in grembo. Senza, sembrava molto più vecchia e provai un pizzico di rimorso per il tono che avevo usato. Non era colpa sua. Lei era amica di mia madre ed era stata leale nei suoi confronti per tutta la vita. Tuttavia mi aveva ingannata, e non sapevo se l’avrei mai perdonata per questo.
«Perché non mi hai detto la verità quando abbiamo iniziato lo sgombero?» dissi alla fine. «Non c’era nessuno che potesse fermarti, nessuna ragione per non chiarire le cose.»
«Immagino di aver avuto paura», rispose. «Non volevo che pensassi male di Esther.»
Riflettei sulle sue parole. Questi erano nuovi tratti del carattere che non avevo associato a Rita. Vulnerabilità. Indecisione. Forse potevo capirla. Tutta quella pressione per quei segreti. Ma non mi era ancora chiaro perché la mamma avesse accettato lo sgombero. Perché avrebbe dovuto accollarsi una simile seccatura per un uomo che le aveva causato tanti problemi nel passato? La mia mente tornò al pensiero originario. Era stato un modo di avere accesso alla vita di Edward Lily, di scoprire se aveva avuto qualcosa a che fare con quello che era successo a Gabriella. Quando morì, era tornato al villaggio da quasi un anno. Forse lei aveva un buon motivo per sospettare di lui. Deve essere stato un periodo strano per entrambi.
Confidai questi pensieri a Rita. Lei abbassò lo sguardo, come per soppesare se parlare o no. «Si sono perdonati a vicenda», disse infine.
Non mi ero aspettata di sentire questo. «Ma lui le ha rovinato la vita...»
«No, non l’ha fatto, Anna. Non esattamente.»
Il suo tono candido, quel negare, mi irritò. «No, ma ha fatto un gran bel casino! Come ha potuto dimenticarlo, la mamma?»
Rita mi guardò come se avessi ancora dodici anni e lei fosse l’amica di mia mamma che sollevava un sopracciglio di fronte a qualcosa che avevo fatto. «Questo è quello che fanno le persone quando invecchiano», disse. «Non vedono la ragione di essere ostili, non quando non c’è niente da guadagnare.»
Ero sul punto di rispondere indignata quando ci ripensai. Provai a guardare le cose dal punto di vista di mia madre. Forse perdonare era l’unico modo di dare un senso a tutto quello che era successo. Era qualcosa che lei era capace di fare. «Andò al funerale di Lily?» chiesi poi.
Rita annuì. E io sentii il mio risentimento crollare. Mia madre era passata attraverso tutto questo mentre io ero ad Atene presa dalla mia vita egoista. Se solo me l’avesse detto... Avrei potuto aiutarla. Se solo Rita si fosse fatta avanti prima...
«Doveva immaginare che prima o poi l’avrei scoperto!» La mia voce era piena di rimprovero. «E anche tu. Perché non me l’hai detto?»
Rita distolse lo sguardo. Non aveva una spiegazione. E io mi domandai se avrei mai davvero scoperto la verità. Forse Rita sarebbe rimasta in silenzio per sempre e io sarei tornata ad Atene senza sapere nulla di Gabriella e Edward Lily.
Avrei dovuto essere in collera con i miei genitori, e invece la mia collera stava svanendo. Avere dei segreti era naturale per la loro generazione. Così andavano le cose, allora. I genitori non parlavano ai bambini di figli illegittimi, malattie mentali, divorzio. Erano affari loro, non nostri, e chi ero io per dire il contrario?
«Mi dispiace, Anna», mormorò Rita. «Davvero. Non sapevo che cosa fare. Vecchi segreti... Ti ci abitui.»
Sospirai e guardai il ritratto. Ora non lo percepivo più come qualcosa di spaventoso. Era solo Edward Lily che amava sua figlia abbastanza da disegnare il suo volto.
Eppure mi disturbava. Perché in casa sua non c’erano altri dipinti, opere o strumenti artistici? Sembrava strano. E se il ritratto non l’aveva fatto Edward, chi era stato? Rita non aveva suggerito ipotesi diverse. Guardai i suoi quadri. Rita: organizzata, efficiente, capace di avere tutto sotto controllo. Eppure anche contraddittoria, non convenzionale. Cresciuta in una famiglia di macellai, eppure bella e vestita in modo elegante. Una donna di chiesa. Una lettrice di gialli. Single. Senza figli. Un’artista. Cos’altro c’era da sapere di lei?
«Sono belli», commentai indicando i dipinti. Lei fece un debole sorriso. «Cos’altro dipingi?»
Rita si accigliò. «Che cosa intendi?»
«Ritratti, paesaggi o solo arte moderna?»
«Oh», rise nervosamente. «Pensi che li abbia fatti io. Che cosa te l’ha fatto credere?»
«Mi hai detto che segui dei corsi d’arte.»
Arrossì. «Ah. Non ti ho spiegato. Sono lezioni dal vero.»
«Dipingi?»
«No. Poso.» Impiegai un paio di secondi a capire veramente quello che intendeva. Mi sorrise con aria triste. «Pensa a Beryl Cook. Per darti un’idea.»
Sbattei le palpebre. Per un folle istante avevo pensato che fosse stata lei a disegnare il ritratto di Gabriella. Com’ero ridicola. Com’ero inutile.
Un silenzio pesante scese tra di noi. Nessuna delle due sembrava sapere che cosa dire. Come potevamo sbloccare la situazione? E, cosa ancora più importante, che cosa avrei fatto ora che i nodi erano venuti al pettine? Gabriella era la mia sorellastra. La verità era emersa, ma era una realtà cruda e sgradita. Avrei voluto seppellirla di nuovo. Ricucire i bordi con bugie di colori sgargianti. Impedirle di distrarmi dall’unica cosa che volevo sapere. Cos’era successo a Gabriella?
Il cielo si stava scurendo, mutando rapidamente. Il vento mi afferrava i vestiti, insinuandosi negli spazi vuoti mentre mi trascinavo lungo Devil’s Lane. Tutte le informazioni sulla mia famiglia che pensavo di conoscere già erano state raggruppate e disperse. Eppure, riflettevo, mentre mi issavo sul muretto e attraversavo il prato, che cos’era cambiato? Rita era la leale amica di mia madre, com’era sempre stata. Edward Lily era innocente, come aveva detto mio padre. Gabriella era mia sorella.
I gradini che conducevano giù al lago erano scivolosi. Mi aggrappai saldamente al corrimano e rabbrividii sotto la galleria di alberi. Procedetti con cautela sul sentiero che qui e là era allagato, cosparso di fogliame scivoloso, con chiazze di fango. Il lago si stendeva di fronte a me; le rive erano coperte da uno spesso strato di melma verde, mentre ammassi di foglie gialle e rami rotti galleggiavano sull’acqua.
La polizia aveva perlustrato il lago palmo a palmo in un ultimo disperato tentativo di trovare Gabriella. Quel giorno era arrivato dopo la ricostruzione e decine di avvistamenti infondati. Era stata vista a Oxford, Southampton e Hull. L’avevano vista da sola, con un ventenne, con una coppia di anziani, con un cane. L’avvistamento più remoto arrivava dalla Svezia. Quello più vicino da una veggente che aveva detto che il suo corpo giaceva in un capanno alla periferia del villaggio.
Ci erano arrivate lettere di benintenzionati: genitori con figli morti, credenti che ci dicevano di confidare in Dio. E giovani che erano scappati di casa e scrivevano di abusi e trascuratezza, o semplicemente dichiaravano di non essere riusciti a trovare il loro posto. Tutti quelli che erano fuggiti dicevano la stessa cosa. Non avevano intenzione di tornare a casa.
I miei genitori avevano tenuto quelle lettere. Le avevo trovate nella credenza, legate con un nastrino. Una notte le avevo lette tutte, mentre mia madre dormiva, poco prima di partire per Londra.
Un cigno solitario stava attraversando il lago. Immaginai le zampe che si agitavano forsennatamente, nascoste alla vista. Ci voleva un grande sforzo per scivolare con quella fluidità, un grande sforzo per continuare ad avanzare. Io avevo rinunciato molti anni prima, quando avevo smesso di cercare Gabriella. E ora sapevo che avevo fallito di nuovo; l’unico mistero che avevo risolto era uno di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza.
Appena arrivata a casa, radunai le mie emozioni e le misi da parte, sparpagliando tutto sul piano del tavolo: il ritratto di Gabriella, l’album dei ritagli, il mio quaderno, la foto di Lydia che avevo trovato nella scrivania di Edward Lily.
Un refolo di vento filtrò dalla finestra aperta, scompigliando le pagine dell’album. Se avessi creduto ai fantasmi, quello sarebbe stato un messaggio. Se avessi creduto in un dio, sarebbe stato un segno. Ma non avevo fede in nulla del genere, non più. Avevo solo il mio intuito. La risposta era lì. Anche mia madre l’aveva pensato? E se lei non si era arresa, perché avrei dovuto farlo io?
Dentro c’erano articoli di diversi giornali che mostravano tutti la stessa foto di Gabriella. Lessi la storia di Tom che cambiava di continuo, e di come era stato scacciato dal villaggio, sebbene fosse stata provata la sua innocenza. Lessi il punto di vista dei testimoni, di chi cercava in buona fede di dare una mano, degli abitanti del villaggio, scioccati. Non c’era niente di concreto. Niente che si potesse provare. Cosa aveva sperato di trovare la mamma?
Chiusi l’album e all’improvviso mi sentii sola. Guardai l’orologio: le cinque. Chissà se David era tornato. Era andato al pub come faceva spesso? Magari avrei potuto accettare quel drink che mi aveva offerto. Presi il laptop, l’album e la mia borsa. E decisi che, se fosse arrivato, avrei fatto finta di essere lì a lavorare, non per aspettare lui. Le mie guance arrossirono pensando a quanto fosse infantile quell’idea, ma in ogni caso mi affrettai verso la porta.
Il pub era vuoto, tranne che per alcuni uomini al bancone che, da come si puntellavano a vicenda, dovevano essere stati lì tutto il giorno. Evitai il contatto visivo, ordinai un bicchiere di vino e lo portai al tavolo accanto al camino.
Ritornai all’album dei ritagli e ripresi a leggere da dove mi ero interrotta. C’erano altre interviste ad abitanti del villaggio. C’era la foto di un gruppo di madri che aspettavano le loro figlie all’uscita della scuola, e un’altra con la gente che sciamava in chiesa. Osservai più da vicino, identificando quelli che conoscevo.
Le ultime pagine mi causarono un tuffo al cuore. Lì mia madre aveva incollato diversi articoli che riguardavano ragazze scomparse più o meno nel medesimo periodo di Gabriella, o successivamente. Scelsi una ragazza a caso. Si chiamava Claire, aveva tredici anni ed era sparita a Dartmouth nel 1984. Digitai i particolari su Google e trovai la stessa fotografia che mia madre aveva ritagliato e appiccicato nell’album.
Era una ragazza paffutella, con i capelli scuri, e viveva a miglia di distanza. Lei e Gabriella non avevano nulla in comune, a parte essere scomparse durante l’adolescenza. Feci scorrere la schermata alla ricerca di altre informazioni. Claire era stata trovata morta in un canale. Stuprata e colpita alla testa con un’arma da fuoco. La polizia aveva indagato sui contadini e sui loro fucili e in seguito c’era stato un arresto. L’insegnante della ragazza. Come avesse fatto a procurarsi l’arma non era mai stato chiarito.
Digitai altri nomi presi dall’album ed esaminai le notizie. Ogni storia era diversa e tutte quante erano state risolte, a parte quella di una ragazza bionda con la frangetta di York. Si chiamava Victoria Sands ed era stata violentata e strangolata nel 1982. Il suo corpo era stato ritrovato in un fiume. La foto della ragazza mi era familiare e ricordavo di aver sentito di quella vicenda al telegiornale.
Analizzai ancora i particolari. La sua era una famiglia piuttosto comune. Suo padre faceva il contabile per un’azienda di cancelleria e sua madre si occupava dei pazienti di una casa di riposo. Erano ancora vivi? Scrissi rapidamente su Google i loro nomi e trovai articoli più recenti. La madre era morta anni prima, ma il padre viveva ancora a York. Si rifiutava di trasferirsi, aveva detto ai giornalisti. I suoi ricordi erano lì. C’era anche un fratello, ma non trovai informazioni su di lui, solo una fotografia scattata negli anni Ottanta: un bambino triste di dieci o undici anni, con un completo scuro in miniatura e la cravatta, che fissava la macchina fotografica.
Osservai la foto più da vicino e riconobbi quello sguardo. Era l’espressione disorientata di un fratello che non capiva perché sua sorella fosse scomparsa. Come se l’era cavata da allora? Aveva ascoltato i suoi genitori che parlavano con la polizia, senza capire, solo desiderando che la sorella tornasse a casa? Aveva sentito sua madre piangere di notte e aveva avuto paura? Aveva trascorso notti solitarie alla finestra, inventando storie sui posti dove sua sorella poteva essere andata?
E il ritrovamento del corpo era stato un sollievo per la famiglia, un modo per trovare pace? O uno strazio lancinante, ben sapendo che il resto della loro vita sarebbe stato distrutto dal ricordo di ciò che quell’uomo le aveva fatto?
Un unico giorno aveva determinato che la loro vita non sarebbe stata più la stessa. Come non lo era più stata la mia. O quella di quel ragazzino. Lui poteva capire di me molto più di chiunque altro mi conoscesse.
Mi concentrai ancora sulle storie. Casi paralleli. Era questo che aveva cercato la mamma? Ma non c’erano vere analogie, visto che la maggior parte dei crimini era stata risolta. E tutti i corpi erano stati ritrovati. Forse la mamma era stata attirata dal fatto che tutte quelle ragazze fossero sparite. Tutte avevano dei genitori che comprendevano il suo dolore. Come quel ragazzino comprendeva il mio.
Eppure. Casi paralleli. Quanto a fondo aveva investigato la polizia? Digitai «omicidi irrisolti» su Google e rovistai fra i risultati. Ce n’era uno della fine del 1982. Marian. Quattordici anni. Era di Glasgow, ed era stata stuprata e strangolata. Si parlava di una qualche somiglianza con il caso di York, ma l’indagine era stata abbandonata. La ragazza veniva da un istituto per minori e l’articolo si dilungava sul modo in cui era vestita, la lunghezza della gonna e il trucco. La polizia aveva detto che probabilmente era scappata. Avevano trovato il suo cappotto alla stazione degli autobus. Mi massaggiai le tempie, sfregandomi la faccia con foga.
Continuai a scorrere la pagina alla ricerca di storie simili. Nel resto degli anni Ottanta non c’era stato niente, o comunque nulla di analogo. Mi stavo addentrando negli anni Novanta quando apparve David. Arrossendo, chiusi il portatile e mi affrettai a piazzarlo sopra l’album.
David indossava dei pantaloni scuri al posto dei soliti jeans e una camicia azzurra. Portava una giacca e aveva i capelli pettinati lisci, in uno stile che non gli si addiceva. Avrei voluto allungare la mano e arruffarglieli.
«Ti stavo cercando», fece lui, facendo scorrere le dita tra i capelli e scompigliandoseli lui stesso. «Stai bene?»
Ci misi un istante a capire a cosa si riferisse. «Ah, scusami per la telefonata. Non era importante.»
Sembrò un po’ stupito, ma non commentò. Invece andò al bancone e portò un bicchiere di vino e una birra. Prima di sedersi, ripiegò la giacca ordinatamente e la posò sulla sedia vicino a lui. «Stai lavorando?» mi chiese.
«Cosa?»
Si sporse in avanti e picchiettò col dito sul laptop. «Scrivi.»
Cogliendo per un istante il profumo del suo dopobarba al limone, annuii e, prima che potesse aggiungere qualcosa, gli domandai del suo viaggio. Lui descrisse quello che aveva fatto: aveva aiutato una vecchia signora di Leeds con una casa piena di mobili antichi e gatti, che stava per trasferirsi a Ripon, in un appartamento più piccolo.
Ci fu un momento di stallo, mentre David sorseggiava la sua birra e io guardavo il fuoco; la mente cercava di riportarmi all’album sul tavolo in mezzo a noi. Il fatto che avesse menzionato una cittadina dello Yorkshire mi fece ripensare alla ragazza con la frangia di York.
«Quindi va tutto bene?» chiese David, rompendo il silenzio. «Con lo sgombero, intendo.»
«Sì, assolutamente.»
Mise giù il bicchiere e alzò un sopracciglio. Non era stupido. L’avevo chiamato all’improvviso, e ora avevo negato che ci fosse qualcosa che non andava. Provai a distrarlo, descrivendo pezzi dello sgombero che aveva già visto, chiedendogli consiglio sui migliori rivenditori. Poi mi accorsi che la mia voce si era fatta più acuta. Stavo parlando troppo e troppo in fretta. Mi ripetevo. Bevvi dell’altro vino e decisi di lasciar credere a David che il motivo fosse l’alcol.
«Un altro?» disse, indicando il mio secondo bicchiere vuoto. Scossi la testa. «Mangiamo?» propose allora, voltandosi verso il bancone.
«Ho già mangiato», mentii. Dovevo andare. Lo sguardo di David traboccava di comprensione e di consapevolezza. Mi alzai troppo in fretta e inciampai mentre cercavo di afferrare la borsa e il portatile contemporaneamente.
«Non scordarti questo.» Mi porse l’album e le gambe mi cedettero. Due bicchieroni di vino a stomaco vuoto fu la spiegazione che mi diedi. Una volta arrivata a casa sarei stata bene. Dovevo solo riuscire a infilare la porta del pub.
«Aspetta», fece David mentre mi prendeva per il braccio per aiutarmi a ritrovare l’equilibrio. «Hai un aspetto terribile.» Parlò con gentilezza e mi arresi, abbandonandomi di nuovo sulla seggiola. Dopo un po’ stava parlando ancora, mi stava raccontando di quando erano morti i suoi genitori, uno dopo l’altro, nell’arco di un anno, e di quanto era stata dura per lui e suo fratello. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Ehi», disse, allungandosi verso di me e posando una mano sulla mia. «Non volevo farti agitare. Credo solo che tu sia coraggiosa, a occuparti di tutta questa roba da sola.» Abbassò la voce. «Hai perso tanto. Forse posso aiutarti.»
Scossi la testa lentamente. Non aveva idea della mia perdita. «Non puoi fare niente.»
«Mettimi alla prova.»
Espirai lentamente. Era il momento giusto per parlare? Lui era la persona giusta a cui dirlo? Al pensiero mi si rivoltò lo stomaco. Tutti questi anni di silenzio. Come sarebbe stato, romperlo?
«Anna», sussurrò David dolcemente.
Il cuore iniziò a battermi forte. «È mia sorella», dissi.
Lui si accigliò. «Tua sorella? Santo cielo, mi dispiace! Dato che eri qua da sola non pensavo che ne avessi una.»
Una lacrima silenziosa mi rigò il viso. «Non ce l’ho», mormorai. «Non più.»
L’espressione di David cambiò, mentre mi osservava. Era una lenta presa di coscienza, come un’alba che spunta. «Raccontami, Anna», mi esortò.
E lo feci. Gli raccontai cose che non avevo mai detto a nessuno in vita mia. Gli raccontai quant’era stata bella Gabriella e quanto ci divertivamo. Gli raccontai dei nostri nonni, dello zio Thomas e di Donald. Gli raccontai di come, un giorno, mia sorella era svanita, scomparsa in un istante. E dei miei sforzi per ritrovarla, anche quando tutti gli altri si erano arresi. E gli spiegai di come avessi congelato i miei sentimenti e di come ora, però, tutto fosse ricominciato. Lo sgombero, il ritratto, il padre di Gabriella. L’antico desiderio di sapere.
Arrivata alla fine del racconto, le lacrime fluivano copiose. David scuoteva la testa, senza sapere cosa dire. Tirò fuori un fazzoletto e me lo offrì, con occhi pieni di compassione. Gli uomini al bancone ci guardavano incuriositi. Non avrei dovuto dire niente a David. Cosa avrebbe pensato di me, ora?
«Sai bene che non avresti potuto evitare quello che è accaduto», disse alla fine.
Mi asciugai gli occhi e scossi la testa. «A volte penso che se avessi sentito o visto qualcosa, avrei potuto impedirlo, salvarla. O forse, se avessi agito diversamente, avrei potuto cambiare il corso degli eventi.»
«Che cosa vuoi dire? Come avresti potuto cambiarlo?»
«Se mi fossi svegliata cinque minuti dopo; se avessimo camminato, invece di correre a scuola; se avesse avuto una pettinatura diversa; se non mi fossero caduti gli occhiali...»
Annuì. «L’effetto farfalla, intendi.»
«Sì.» Gli rivolsi uno sguardo pieno di speranza. «Sì, immagino di sì.»
Si appoggiò allo schienale della sedia. «Non puoi pensarla così. Diventerai matta.»
«Lo sono già.»
«Lo so, ma... piccole differenze – almeno come quelle che hai descritto – non possono cambiare eventi molto seri. Non ci credo.»
«Hai ragione. È solo che...» Mi pigiai le dita sulle tempie.
«È il non sapere, vero? Lo capisco, a modo mio. Quando mia moglie si è ammalata, all’inizio. Sapevo che c’era qualcosa che non andava, ma lei non me lo diceva, non me l’ha detto per mesi. Se l’avesse fatto, forse sarebbero riusciti a salvarla. E sai che c’è», disse, fissando nel vuoto alle mie spalle mentre parlava, «il dolore non se ne va mai. Puoi mascherarlo o voltargli le spalle, ma quando guardi più da vicino, quando ti giri, è ancora lì.» Fece una pausa. Un uomo al bancone scoppiò in una risata e David fece un sorriso ironico. «Il dolore è un ospite indesiderato. L’unica cosa che puoi fare è permettergli di vivere accanto a te.»
Restammo in silenzio, fissavamo entrambi il piano del tavolo, persi nei nostri pensieri.
«E il ritratto?» fece David dopo qualche istante. «Posso vederlo?»
Frugai nella borsa, tirai fuori il disegno e lo posai di fronte a lui. Lo osservò senza parlare per qualche secondo, poi disse: «Era molto bella».
Sorrisi. E restammo lì seduti con il ritratto tra noi, immersi in un silenzio rispettoso. E insieme alla tristezza percepivo un tepore, mentre mi rendevo conto che era la prima volta che condividevo davvero la mia perdita con qualcuno.