4.

1982

«Dove siete state?» ci chiese la mamma con le mani sui fianchi.

«Alla Casa di Flores», rispondemmo in coro. Non osavamo dirle che dopo essere andate lì avevamo vagabondato per il villaggio. Alla mamma piaceva sapere sempre dove eravamo. Spesso me la immaginavo impegnata a tracciare i nostri spostamenti durante la giornata, come un generale che muove le sue truppe su un tabellone.

«Be’», disse con una certa disapprovazione. «Vostro padre dovrebbe sapere che non è il caso di tenervi lì fino a tardi.»

Avrebbe continuato, se Rita non fosse stata lì, seduta al tavolo della cucina con una tazza di tè. Come noi, anche la sua famiglia gestiva un negozio, la macelleria di High Street. Aveva l’abitudine di portarci dei regali: libri gialli per la mamma e carne avanzata. Aveva una predilezione per le frattaglie e quel giorno era arrivata con un pezzo di fegato per la cena.

Fece l’occhiolino dietro gli occhiali dalla montatura a farfalla e ci chiese come andavano le cose a scuola. Ci faceva sempre la stessa domanda. E noi davamo sempre la stessa risposta: «Bene, grazie». E questo di solito chiudeva il discorso.

«Farina», disse la mamma, tirando fuori un sacchetto quasi vuoto. «Per friggere il fegato ci serve della farina.»

Gemetti dentro di me. Perché Rita si sentiva in dovere di portarci delle frattaglie? Non è che mangiasse insieme a noi. Guardava la mamma cucinare e poi se ne andava a casa. Me la immaginavo con una delle sue gonne a pieghe e una camicetta perfettamente coordinata che si avventava su cocktail di gamberi e bistecche con le patatine, mentre noi masticavamo delle insignificanti fette di fegato. Non era giusto.

Gabriella uscì dalla cucina. «Non troppo forte», le gridò dietro la mamma. Un istante dopo, la musica di Siouxsie and the Banshees rimbombava attraverso il soffitto. Stavo per andarmene anch’io quando la mamma mi prese per la collottola. «Anna», disse. «Ho bisogno che tu vada a comprare la farina.»

«Devo proprio?»

«Sì.» Prese il portafogli e mi allungò una banconota da una sterlina. «Farina multiuso. E porta indietro il resto.»

Con una smorfia, me ne andai pestando i piedi. Era un’ingiustizia. Perché le commissioni toccavano sempre a me? E per giunta... come poteva la mamma rimproverarmi per essere arrivata a casa tardi per poi rispedirmi fuori a fronteggiare quei pericoli di cui lei continuava a blaterare?

Quasi a confermare la mia teoria, vicino alla cabina telefonica c’era una banda di ragazzi che fumavano e si scambiavano cicche. Mentre passavo il cuore cominciò a battermi forte, ma non mi gridarono niente – come a volte facevano invece i maschi del nostro villaggio. Quando lanciai un’occhiata dall’altra parte della strada ai loro vestiti stracciati e alle creste di capelli, immaginai che fossero amici di Gabriella.

Tre donnone robuste, con le borsette che penzolavano dall’incavo del braccio, occupavano l’ingresso del negozio. Sgusciai fra loro e raggiunsi uno scaffale sul fondo. Niente farina multiuso. C’era solo quella autolievitante. Andava bene lo stesso? Mentre ci pensavo su, le donne abbassarono la voce. Feci qualche passo verso di loro per ascoltare.

Alcuni teppisti avevano acceso un fuoco sul terrapieno della ferrovia. Un ragazzo era quasi morto in una sfida sui binari. Il figlio di un vicino era stato beccato a rubare allo spaccio di liquori: una lattina di Red Stripe e un sacchetto di patatine.

Sbadigliai. Non era un granché come storia.

«Non è un granché come madre», commentò una delle donne.

Mentre prendevo la farina sentii le parole «Lemon Tree Cottage». Riconobbi la voce nasale e mi voltai a guardare. Era la signora Henderson, la nostra vicina, e aveva la faccia cattiva in subbuglio per gli ultimi pettegolezzi. Quella donna era come una bottiglia d’aceto vuota, diceva nostra madre: puzzava d’acidulo e potevi vedere che cosa aveva dentro.

«Si chiama Edward Lily», annunciò. «È inglese. La moglie era spagnola.» Fece una pausa. «Si è suicidata.» Un sospiro strozzato. Mi avvicinai di un altro passo, afferrai una confezione di preparato per crema pasticcera ed esaminai l’etichetta con grande attenzione. «Dicono che fosse matta.»

Quindi almeno quello era vero.

«E la figlia è tale e quale.»

«La figlia?» intervenne la terza donna. «Ho sentito dire che è la nuova moglie.»

«Figlia», ribadì la signora Henderson con fermezza. Non le piaceva essere contraddetta. «Lydia.»

Un uomo entrò nel negozio e le donne interruppero la conversazione. Portai la farina alla cassa e, mentre il signor Bloom mi faceva lo scontrino, Martha Ellis, che aveva l’età di Gabriella, scivolò dentro di soppiatto. Portava un vestitino leggero, un cardigan scialbo e sandali consumati. I capelli le ricadevano flosci sulle spalle. Registrai la sua presenza con una smorfia e mi dedicai ad aprire il borsellino e a tirare fuori la banconota.

Martha viveva in Acer Street, in una villetta bifamiliare con l’intonaco a pinocchino e vasi di fiori in giardino. A volte la vedevo seduta sui gradini con la cartella appoggiata sulle ginocchia. Altre volte si trascinava dietro un gruppo di ragazze al parco giochi, finché quelle non le dicevano di levarsi dai piedi. Martha era così, stava sempre appiccicata alle persone, che la volessero o no.

Presi il mio resto, mi sistemai bene gli occhiali sul naso, feci un’altra smorfia a Martha tenendomi a debita distanza e uscii dal negozio.

A casa c’era anche papà. Siouxsie martellava ancora il soffitto sfidando il volume della radio. Uno speaker commentava la fine della guerra delle Falkland, ma quando cominciò a parlare la signora Thatcher papà si allungò per spegnere. «Può bastare», disse, dirigendosi verso il frigorifero e tirando fuori una bottiglia di latte. Forò la protezione di alluminio e bevve direttamente dalla bottiglia. Io porsi la farina alla mamma, che non si accorse che avevo comprato il prodotto sbagliato. Ne fece cadere un po’ su un piatto, insaporì e impanò i pezzetti di fegato e scaldò l’olio, prima di immergervi le cipolle e poi il fegato. Subito l’odore della carne avvolse la cucina, e io, seduta al tavolo, mi tappai il naso.

La mamma stava ancora commentando quanto avessimo fatto tardi, sbatacchiando una padella sul fornello e sbuffando come una locomotiva. Papà si arrotolò le maniche e aspettò che la tempesta passasse. Lui era così, tanto calmo quanto la mamma era irruente. «Si direbbe che è lei ad avere il sangue latino», diceva, «non io.»

A un certo punto comparve Jasper, che si era intrufolato dalla porta posteriore rimasta socchiusa. Si raggomitolò attorno alle gambe della mia seggiola e io gli accarezzai il pelo fulvo. Mi sarebbe piaciuto essere silenziosa come un gatto. Sarebbe stato più semplice origliare, scoprire tutto quello che avrei voluto sapere.

Papà aveva tra le mani il giornale e stava dando un’occhiata ai titoli, leggendo ad alta voce i pezzi più interessanti. La mamma stava urlando a Gabriella che la cena era pronta mentre Rita, che aveva in programma una cena con delitto al palazzo nobiliare del villaggio, si infilò un cappotto con un colletto che somigliava a un coniglio morto. Promise di tornare il giorno successivo per rivelarci il colpevole, con un pacchetto di reni per la nostra cena. «O un cuore di maiale, se siete fortunati.»

Arrivò Gabriella. «Gesù», sbottò, mettendosi a sedere e rigirando la carne con la forchetta. «Dobbiamo proprio mangiare questa roba?»

«Non bestemmiare. E, sì, dobbiamo proprio», rispose la mamma. «È ricca di ferro.»

«Già», commentò mia sorella, sollevandola. «Pare proprio così.»

«Non c’è bisogno di essere scortesi», disse papà, spiegando il tovagliolo e infilandolo nel colletto della camicia. «Ricorda: è già tanto se hai qualcosa da mangiare.» Il tono era risoluto, ma il suo sguardo si increspò, come succedeva sempre quando diceva qualcosa che non intendeva davvero.

«Mangia», tagliò corto la mamma, guardando me anche se non avevo fiatato. «Anche tu, Anna.»

Tagliai un pezzettino di fegato e me lo cacciai in bocca, mentre Gabriella ne buttò una strisciolina a Jasper. Sogghignai, in attesa della mia occasione, monitorando con un occhio la mamma – che mangiava quello che aveva nel piatto con un’incrollabile determinazione – e con l’altro papà – che ingurgitava tutto.

Quando ebbe finito, papà andò a prendersi una lattina di birra e ci raccontò della casa che stava svuotando. Era alla periferia del villaggio ed era appartenuta a una vecchia signora ricca. «C’è una biblioteca con libri accatastati fino al soffitto», disse, sfregandosi le mani. «Il paradiso delle prime edizioni. E c’è anche una collezione di grammofoni. Dovreste vederli.»

«Sembra che ci sia un gran lavoro da fare», commentò la mamma con espressione accigliata.

Papà fece spallucce. «Forse. Ma il tempo è poco. A quanto pare, il figlio vuole mettere sul mercato la casa il prima possibile. E questo mi fa venire in mente che il Lemon Tree Cottage ha un nuovo proprietario.»

«Davvero? Deve essere gente coraggiosa. Quella casa è stata vuota per anni. Mi domando chi siano.»

Ero sul punto di dirglielo, quando la mamma posò rumorosamente forchetta e coltello sul suo piatto lanciando una lunga occhiata eloquente al mio. Io capii al volo e ripresi a tagliare il fegato. E mentre la mamma andava a prendere il pudding di riso, ne lanciai un pezzo a Jasper.

«A proposito di musica», disse Gabriella, allontanando da sé il piatto e alzandosi.

«Chi parlava di musica?» chiese papà.

«Grammofoni. Questa è musica, no?»

Lui rise, mentre Gabriella si piazzava dietro la sua sedia mettendogli le braccia intorno alle spalle. Io strizzai gli occhi. Che intenzioni aveva?

«C’è un concerto al Top Rank.»

«Ah», esclamò papà prendendo le mani di lei nelle sue.

La mamma alzò lo sguardo dal pavimento, dove era inginocchiata per tirare fuori il pudding dal forno. «Non ci vai», ribatté. «Sei troppo piccola.»

«Ma ci vanno tutti! La mamma di Bernadette ha detto che può portarci lei e abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci venga a riprendere.» Fece una pausa. «Papà?»

Lui osservò la mamma, impegnata a sollevare il foglio d’alluminio che copriva la teglia. «Esther?...» disse. «Per me non sarebbe...»

«Ho detto di no. È troppo piccola.»

«Ma non è giusto! Ci vanno tutti

«Ne dubito fortemente», replicò la mamma mentre cercava le ciotole nella credenza. «Ma non mi dispiacerà fare qualche telefonata per accertarmene.»

Gabriella fece una smorfia. Sapevamo benissimo che l’unica che aveva il permesso di fare quello che le pareva era Bernadette.

«Non importa», la rincuorò papà. «Che ne dici di una giornata papà-figlia maggiore? Ci vediamo un film e poi mangiamo qualcosa da Wimpy.»

Avvertii una punta di invidia e lanciai un’occhiata alla mamma per vedere come l’aveva presa, ma aveva un’espressione bizzarra stampata in faccia, un misto tra disapprovazione e compiacimento, e all’improvviso mi sentii tagliata fuori, come se stessi guardando la mia famiglia dai margini. Quella sensazione mi attraversò per un istante, ma poi la scacciai e lasciai che i pensieri si soffermassero sulla mia giornata: il viso con la nuvola di capelli dietro la finestra; e prima, i ragazzi nel parco giochi; infine l’uomo che aveva fissato Gabriella.

“La prossima volta a spiare il Lemon Tree Cottage ci andrò da sola”, pensai. La gente guardava sempre mia sorella. Uomini e ragazzi di ogni genere. Solo perché era bella non voleva dire che fosse di loro proprietà.

Poi mi ricordai di quanto il cottage fosse buio. Chissà com’era di notte. Quelle ombre nel giardino incolto e le taccole che beccano il tetto della casa a fianco... Vivere lì, ma te lo immagini! Poteva accadere qualsiasi cosa e nessuno l’avrebbe mai saputo. Rabbrividii e allungai l’ultimo pezzetto di fegato a Jasper, che lo afferrò, mordicchiandomi le dita.