27.
La cucina odorava di candeggina. Con le tende chiuse, era cupa e silenziosa. Quando la attraversai, i miei passi riecheggiarono sul pavimento. Mi accorsi di quanto quella stanza fosse vecchia, bloccata nella sua epoca d’origine: armadietti dipinti di verde, un tavolo pieghevole con una sola seggiola. Sul davanzale c’era un vaso, con dentro una rosa, ma i petali erano mollicci e flosci, e uno era già caduto.
Eppure era tutto pulitissimo, i piani strofinati e il vecchio lavandino scheggiato ma splendente. Nessun disordine. Il nuovo mocio di Martha aveva già cominciato a sfilacciarsi e quando mi chinai per aprire il frigorifero non ci trovai dentro niente, a parte l’odore di antisettico, un cartone di latte e una fetta di prosciutto.
Com’era triste, Martha. I miei occhi si posarono su un piatto lasciato sul tavolo con un coltello e una forchetta ai lati, una tazza solitaria col suo piattino, un unico cucchiaino. Peggio che triste. Era umiliante. Non avrei dovuto essere in casa sua. Eppure stavo lì a guardarmi intorno nella stanza, e non potevo andarmene. Stavolta era per il signor Ellis che mi trovavo lì.
Uscii nel corridoio. Sembrava stranamente grande rispetto a come lo ricordavo. Un tempo c’erano degli scatoloni impilati vicino alla porta d’ingresso, che restringevano il passaggio verso il salotto. Avevamo dovuto appiattirci per passarvi di fianco, seguendo la signora Ellis. Ora non c’erano scatole né mobili né mucchi di scarpe o cappotti.
In salotto vidi un vecchio televisore e un orologio sulla mensola del camino. Un divano. Una poltrona. I quadri alle pareti erano scomparsi. Gli armadietti erano stati svuotati e puliti. Dov’erano tutte le cose che la famiglia aveva accumulato negli anni? Dov’erano i loro ricordi?
Arrivata ai piedi delle scale, esitai. Nessun rumore o movimento. Salii i gradini. Il suono dei miei passi era attutito dal tappeto consumato.
Il cuore iniziò a battere forte quando aprii la porta. Era buio, le tende tirate. Cercai a tentoni l’interruttore ed ebbi un sussulto. Mi aspettavo una stanza vuota come il salotto. Invece era una specie di tempio perverso. Lurida, piena di ragnatele e di sporcizia stratificata, con vestiti sparpagliati sul pavimento. Il letto era sfatto, le lenzuola ingiallite appallottolate. Una montagna di scatoloni di cartone, deteriorati dal tempo, erano ammassati contro al muro. Il puzzo di muffa e umidità era così penetrante che mi venne quasi da vomitare. Tappandomi il naso, attraversai il tappeto sudicio. Vicino al bordo c’era una bottiglia di birra vuota, ricoperta di polvere. Una cintura serpeggiava sul pavimento come se qualcuno se la fosse levata e l’avesse gettata lì un attimo prima. Notai una pila di riviste. Mi chinai per guardare la prima del mucchio ma raddrizzai la schiena rapidamente. Pornografia. Mi voltai, disgustata. Non avrei dovuto sorprendermi. Un uomo del genere.
Mi allontanai, facendo attenzione a non toccare niente, e sollevai il coperchio di una delle scatole. All’interno c’erano delle risme di carta ingiallita, scatole di biro e matite polverose. Perché le aveva il signor Ellis? Era un rimasuglio del suo lavoro – di qualsiasi cosa si trattasse – o roba rubata? Non mi sarei sorpresa nemmeno di questo.
Quel posto era rivoltante. Dovevo uscire, andare a casa e ritornare quando ci fosse stata Martha. Lasciai la stanza, chiusi la porta e mi trattenni sul pianerottolo, respirando con affanno, cercando di scacciare il cattivo odore.
La porta della camera di Martha era aperta. Colpevolmente, entrai. Sembrava la stanza di una bambina: il letto singolo, la toilette. E puzzava di pittura. Un muro era più bianco degli altri. Lo guardai con più attenzione. Non era un muro, era un armadio. Martha l’aveva chiuso ridipingendoci sopra; strati spessi e irregolari, ancora appiccicosi al tocco. Perché l’aveva fatto? Non aveva senso.
Aprii i cassetti. I vestiti erano piegati ordinatamente, la biancheria intima appallottolata. Incapace di trattenere la mia curiosità, frugai e rovistai in ogni angolo con le mani che mi tremavano. Non trovai nulla che mi dicesse qualcosa che non sapessi già. Martha era ossessionata dall’ordine e dalla pulizia. Un profondo contrasto con l’incuria nella camera dei suoi genitori.
Restai lì per un attimo in ascolto. Nessun suono. La casa era silenziosa. Andai verso il guardaroba. Era vecchio, aveva la superficie graffiata e le ante che scricchiolavano. Martha ci teneva appesi pochi abiti e qualche gonna. Sotto c’era una valigia marrone fuori moda. La tirai fuori e feci scattare le serrature.
Dentro c’erano mucchi di fogli e carte. Disegni e dipinti. I lavori di Martha. Ne presi alcuni, con il cuore che batteva forte. C’erano schizzi su schizzi di Gabriella. Li sfogliai freneticamente, me li avvicinai al viso, uno dopo l’altro, fissandoli a lungo orripilata, cercando di capire. In ogni immagine, Martha aveva colto mia sorella alla perfezione: ogni umore, ogni espressione che avevo imparato a conoscere.
Scartabellai i disegni con le mani tremanti. Martha era brava in educazione artistica. Aveva vinto il primo premio al concorso scolastico, no? Cosa aveva disegnato, allora? Il ritratto di un uomo. Era piena di talento. Un’artista meravigliosa. E anche quei ritratti erano incredibili. Doveva aver osservato Gabriella da molto vicino per poter cogliere così bene i dettagli.
L’odore della vernice mi riempì le narici. Un puzzo opprimente. Perché Martha aveva ridipinto quel vecchio armadio chiuso? Cosa cercava di nascondere? Corsi giù per le scale, incespicando per l’agitazione. In cucina afferrai un coltello. Tornata nella camera, infilai la lama nella fessura tra le ante e la feci scorrere fino in fondo, finché la pittura si scrostò. Spalancai l’armadio. Il mio corpo tremava per la paura di quello che avrei potuto trovare.
Non c’era niente. Nient’altro che ragnatele e polvere. E una vecchia ciotola. Spaccata a metà. Mi voltai, con il battito del cuore ancora accelerato.
Martha era lì, in piedi sulla soglia, i pugni stretti, gli occhi sgranati, che mi osservava.