22.
1982
Papà era accovacciato vicino al susino, con una sigaretta spenta che gli penzolava dalla mano. Mi sedetti vicino a lui e rimanemmo lì in silenzio per un po’.
Volevo chiedergli cosa avrebbe fatto ora la polizia. Chi avrebbero interrogato? Avevano davvero scartato l’idea di Tom? Ero contenta, perché sapevo che era innocente, ma non ero sicura che mio padre la pensasse allo stesso modo. Alla fine gli chiesi di Edward Lily: cos’era successo con lui?
Papà mi fissò e, per un momento, pensai che non mi avrebbe risposto. E poi parlò, faticando su ogni singola parola, finché non rimasero appese tra di noi, pesanti come il piombo. «La polizia l’ha interrogato.» Io guardai a terra, aspettando che dicesse altro. Papà si schiarì la gola e continuò. «Sono andati al cottage e non hanno trovato niente, e comunque lui ha un alibi.»
Lasciai che quelle parole sedimentassero nella mia mente. «Quindi non è un sospettato.»
«È innocente.» La conversazione era finita.
Più tardi quella sera, a letto, rimuginai su Edward Lily. Chiusi gli occhi e me lo immaginai al Lemon Tree Cottage. Era in piedi davanti al cancello, come quella volta che l’avevo visto, e guardava Gabriella e me nella stradina. E sua figlia, Lydia, fluttuava nella casa come un fantasma con una nuvola di capelli. Non riuscivo a stare ferma nel letto per l’agitazione. Se solo avessi potuto riavere quel momento, avrei cambiato il futuro. In qualche modo. Avrei camminato in un’altra direzione, avrei portato via Gabriella da lì.
I pensieri si spostarono su Tom. Papà era certo che Lily fosse innocente, ma Tom? Che cos’aveva raccontato di preciso alla polizia su Gabriella? Era apparso così confuso come l’avevano descritto?
Se solo avessi potuto parlargli prima che si ingarbugliasse ancora di più e dimenticasse completamente quello che aveva visto...
Era buio. Mi alzai e sbirciai da dietro le tende. In cucina c’era la luce accesa. Proiettava un rettangolo luminescente sul prato e sul susino. Le cose ai margini del giardino risultavano più difficili da distinguere, le forme familiari di cespugli e arbusti erano rese spettrali dalle ombre.
Sarei dovuta andare da Tom. Ora.
Se solo fossi stata abbastanza coraggiosa.
Ero stata abbastanza coraggiosa da addentrarmi nel bosco e dissotterrare la scatola di Martha. Ma era diverso. Quella volta era giorno. Ora era tarda sera. Guardai le lancette luminose della mia sveglia. Quasi le dieci.
La luce in cucina si spense. I miei genitori dovevano essersi spostati in salotto. Ero stanca, volevo dormire. Ma quell’idea persisteva. Come un tarlo. Se non fossi andata subito, Tom avrebbe potuto dimenticare. Me lo immaginavo mentre affrontava il tran-tran quotidiano: la TV, la cena, i rituali della serata. Ogni movimento contribuiva a offuscargli la memoria.
Capii che dovevo farlo. Dovevo scendere le scale di soppiatto in modo che i miei genitori non mi sentissero e uscire dalla porta sul retro per non farmi vedere dai giornalisti, e poi avrei dovuto scavalcare i muretti dei vicini fino a raggiungere l’ultima casa della fila.
Mi infilai lentamente il maglione e scesi di sotto, afferrai il cappotto, aprii la porta e sgusciai fuori nella notte.
Faceva freddo. Le nuvole transitavano davanti alla luna, smorzando la sua luce. Ci fu un tramestio nei cespugli. Un paio di occhietti fosforescenti. Ma era soltanto Jasper. Era contento di vedermi, miagolò sonoramente e si strusciò contro le mie gambe. Mi chinai e gli feci scorrere le dita sulla schiena; sentivo gli ossicini sotto la pelliccia – così vulnerabile, così delicata, così facile da spezzare. Feci un respiro profondo, scacciando le mie paure. Mi issai sul muretto che ci separava dagli Henderson e saltai nel loro giardino.
Atterrai vicino al pollaio vuoto, sbattendo il braccio contro il terreno. La signora Henderson stava lavando i piatti in cucina. Sollevò lo sguardo. Mi aveva sentita? Avvertiva la mia presenza? Rabbrividii, notando la sua faccia deformata dal riflesso e gli occhi che scrutavano nel buio, allarmati. Rimasi dov’ero, tremando e battendo i denti, finché lei non tornò a dedicarsi al suo lavoro. Ma le sue labbra si stavano muovendo – chiamava il marito, immaginai – e infatti eccolo lì, una sagoma quadrata, in piedi sullo sfondo, tanto massiccio quanto lei era sottile. Capii che dovevo muovermi: scavalcai alla meglio il loro muretto e attraversai di corsa il giardino successivo, curvando la schiena per restare bassa. Da dentro arrivava il pianto della bambina appena nata.
Al termine della fila di case, saltai giù sul marciapiede. La strada era silenziosa, nella luce fioca dei lampioni. Non ero mai uscita così tardi da sola e ora il villaggio mi sembrava un luogo alieno, ogni forma un nemico.
Tom viveva in una stradina stretta vicino all’Eagle. Alla luce del giorno ci sarei arrivata di corsa in una manciata di minuti, ma nell’oscurità e senza più la mia sicurezza, procedevo lentamente. Sobbalzavo al minimo rumore, immaginavo passi, grida, mi aspettavo che una mano mi afferrasse per il colletto e che una voce mi domandasse cosa ci facevo lì.
Finalmente arrivai a casa di Tom, una villetta a schiera di pietra. Aspettai vicino al cancello ma non c’erano movimenti, niente luci, niente suoni. Strinsi i denti, chiamando a raccolta il coraggio e imboccando il vialetto.
Nel giardino regnava un’oscurità compatta. Tenendo gli occhi fissi sul sentiero, avanzai a tentoni, fermandomi ogni tanto per rimanere in ascolto. Il mio respiro. Lo stormire delle foglie. Lo scricchiolio di un ramo. Un rumore nuovo: passi sul terreno. Mi abbassai quando una figura si avvicinò alla porta della casa accanto. Il campanello suonò. Bussarono al vetro. La luce sulla veranda si accese, illuminando anche la casa di Tom.
Restai senza parole. La porta e i muri erano ricoperti di gigantesche lettere rosse. PERVERTITO, c’era scritto. PAZZO. SQUILIBRATO. Una finestra del piano superiore era stata rotta. Quelle al piano di sotto erano state sprangate con delle assi di legno. Tom e sua madre se n’erano andati? La speranza mi morì in gola. Ma non avevo intenzione di tornare a casa. Strisciando lungo il vialetto, arrivai alla porta. Inspirai profondamente e suonai il campanello. Non venne nessuno. Suonai di nuovo e feci un passo indietro. Dovevo parlare con Tom per sapere cos’aveva visto. Nella casa di fianco la luce si spense, ma non prima che potessi vedere un movimento delle tende sopra di me. Suonai per la terza volta e la porta si aprì.
Era la madre di Tom. Una donna bassa e robusta con capelli e occhiali grigi e la faccia come un’arancia avvizzita. Restò lì a guardarmi, mentre alle sue spalle Tom camminava su e giù, la schiena curva, gli occhi spalancati come quelli di un gufo, illuminato dalla luce fioca che filtrava dalla stanza accanto.
Negli occhi della donna c’era gentilezza. E qualcos’altro. Paura? Cercai di aggrapparmi alla gentilezza quando le chiesi di farmi entrare. Ma appena ebbi oltrepassato la soglia le lacrime sgorgarono. Chinando la testa, le lasciai scorrere senza freni. «Povera bambina», disse la madre di Tom, porgendomi un fazzoletto. «Cosa posso fare per te?»
Presi il fazzoletto e mi soffiai il naso, riuscendo poi a tirar fuori le parole, provando a spiegare quanto desiderassi sapere cosa era successo quando Tom aveva visto Gabriella.
Ci fu un istante di silenzio, poi lei disse a bassa voce: «È innocente. La gente lo accetta, adesso».
«Posso parlargli?» Lanciai un’occhiata a Tom. «Vorrei solo sapere...» Le parole mi morirono in bocca
«Puoi provarci, bambina mia, ma non credo che risponderà.»
Fuori si sentì arrivare un’auto. Il motore si spense. Una porta si spalancò. La madre di Tom chiuse rapidamente la sua porta e piombammo nella semioscurità. Stringevo e aprivo i pugni. Non avevo paura. Quella donna era gentile. Tom era gentile. Non mi avrebbero mai fatto del male. Nemmeno a Gabriella.
«Dove l’hai vista?» gli chiesi all’improvviso. «È stato in Acer Street, come ha detto la signora Ellis? Era con qualcuno?»
Tom guardò sua madre. Si scambiarono un’occhiata e lei rispose al posto del figlio. «È confuso», disse. «Pensa di aver visto un uomo. Pensa di aver visto una ragazza.»
Annuii. Questo lo sapevo già. Ma quale delle due? Un uomo o una ragazza? «Che aspetto aveva l’uomo?»
Tom scosse la testa.
«E la ragazza?»
Di nuovo lui scosse il capo.
Avrei voluto afferrare Tom e scuoterlo per fargli uscire le parole. Sua madre doveva aver intuito quello che pensavo perché il suo sguardo si fece più duro e fece un passo avanti, bloccandomi. «Non devi fargli pressioni, ragazzina», disse. «È troppo confuso. Ma io so... so che non avrebbe mai fatto del male a tua sorella.»
Mi morsi il labbro. Avevo bisogno di parlare con lui da sola, ma sua madre mi sospingeva verso la porta, voleva che me ne andassi. Mi lasciai guidare. Fu solo quando fui sulla soglia che lei parlò ancora. «Comprendo come ti senti, bambina mia. Capisco che tu voglia sapere, ma mio figlio non ha nulla da dire. Ha raccontato tutto quello che ricorda alla polizia.»
La fissai, ferita dalla delusione. Non volevo andarmene senza aver saputo qualcosa di nuovo. Chiusi gli occhi e immaginai Tom e Gabriella che si incrociavano per la strada. Provai a figurarmi il viso di lei. Ea amichevole come sempre? Era felice in quel momento, pensando al nostro incontro di lì a poco? Dovevo riempire quei buchi. Deglutendo, mi feci forza e chiesi: «Tom ha forse detto se Gabriella sorrideva?».
«Non credo, cara.»
«E allora, come appariva?»
Ma la donna non intendeva rispondere. Si limitò a scuotere la testa e a chiudere la porta, borbottando che le dispiaceva.
Qualche giorno dopo scoprii che Tom e sua madre se n’erano andati, costretti da chi, nel villaggio, non aveva creduto nell’innocenza di Tom, nonostante quello che sua madre mi aveva detto. «Non preoccuparti», aveva commentato l’agente Atkins. «Sappiamo dove si trova. La famiglia è a Colchester. Se sarà necessario, potremo interrogarlo là.»
Ma io ormai avevo avuto la mia chance. Non avrei più visto Tom, il che significava che non avrei mai saputo com’era mia sorella quel giorno.
Tornai a scuola tre settimane dopo la scomparsa di Gabriella. I miei amici mi circondavano, premevano, gareggiavano tra loro per stabilire chi riusciva ad avvicinarsi di più. Mentre gli amici di Gabriella erano come ombre, giravano in gruppetti di due o tre e non si facevano notare. E Martha era quella che restava più ai margini. Il volto rigato dalle lacrime, gli occhi grandi che fissavano. Le voltai le spalle. Non avevo tempo per la compassione.
La signora Green mi convocò nel suo ufficio. Mi sedetti in punta al divano di pelle riservato ai visitatori, mentre la preside si accomodò dietro la scrivania. Si tolse gli occhiali, attaccati a una catenella, li pulì con un panno e poi li posò sulla mensola creata dal suo petto, prima di riprenderli per pulirli un’altra volta. Non faceva altro che schiarirsi la gola e ricominciare le frasi da capo. «Mi dispiace così tanto, Anna... Ci dispiace così tanto, Anna... L’intera scuola è così dispiaciuta... Siamo tutti devastati...»
Aspettai, mentre si sfilava un fazzoletto dalla manica per soffiarsi il naso. Ci riprovò. «Ci sarà...? Cosa ne penserebbero i tuoi genitori di...? La commemorazione potrebbe essere...» Si bloccò.
La fissai. «Commemorazione?»
Strofinò gli occhiali con veemenza. «Una cerimonia per ricordare...»
«So cos’è una commemorazione», ribattei a voce alta. Per un istante ebbi la sensazione di ritrovarmi al di fuori di me stessa, di osservarmi dall’alto, e mi meravigliai. Chi era quella ragazzina con gli occhiali rotti e le calze sporche che si stava rivolgendo in modo così scortese alla preside che nel passato aveva avuto a malapena il coraggio di guardare?
«Se ne potrebbe tenere una a scuola.» Finalmente terminò una frase.
«Mia sorella non è morta», risposi piccata.
«Parlerò con i tuoi genitori.» Spostò una pila di carte sulla scrivania. «Nel frattempo, spero che... Chiedi pure, se...»
Uscii dall’ufficio.
Non ci fu nessuna commemorazione. Sapevo che non sarebbe mai successo. Io e i miei genitori la pensavamo allo stesso modo.
Come la signora Green, tutti i professori, anche quelli che non avevano mai insegnato nella mia classe, volevano parlarmi. Ciascuno di loro lo faceva a modo suo. Il signor Riley, di educazione fisica, con la sua arroganza. La signorina Davidson, che insegnava geografia, con la sua gentilezza.
I professori mi fermavano, mi trascinavano via dai corridoi verso aule vuote per offrirmi consigli o domandarmi come stavo reagendo. Alcuni di loro parlavano a voce bassa di perdita e incertezza, senza mai pronunciare il nome di Gabriella, con parole che giravano in tondo. Altri erano silenziosi, comunicavano solo con sorrisi comprensivi, passandomi accanto quando ritiravano i compiti o quando dovevamo rispondere per alzata di mano. Forse pensavano che, parlando, mi avrebbero ricordato la cosa orribile che era successa. E che, se rimanevano in silenzio, avrei potuto dimenticare. E anche loro.
Presto però le attenzioni cessarono, e il senso di vuoto dentro di me crebbe. Era il contrario di un cancro, era un luogo desolato, un baratro che premeva sui miei organi, schiacciando il cuore in uno spazio sempre più piccolo, finché non mi domandai se ci fosse ancora. Desideravo con tutta me stessa che una voce riempisse quel vuoto, che mi urlasse contro, che mi dicesse di stare seduta composta in classe, che reclamasse i miei compiti in ritardo, che mi toccasse il braccio per dirmi: “Gabriella manca anche a me”. Non accadde niente. Era come se non esistessi e, peggio ancora, come se nemmeno mia sorella fosse mai esistita.
In dicembre tornò il mio poliziotto. Era piuttosto buffa, come cosa, ma ero contenta di rivederlo. Lo percepivo come una tristezza confortante, con i suoi occhi afflitti che si nascondevano così bene nelle pieghe della pelle.
Origliai fuori dalla porta della cucina. Papà parlava troppo in fretta, complimentandosi con la polizia per la loro perseveranza, caparbietà e determinazione a trovare il colpevole. Poi cominciarono le scuse, le giustificazioni al perché Gabriella non fosse stata trovata. Immaginai papà in silenzio, a quel punto, con la testa china e le braccia abbandonate lungo i fianchi. La mamma piangeva, un suono attutito e ostinato.
«Deve esserci qualcos’altro che potete fare», disse papà.
«Stiamo facendo del nostro meglio. Non ci siamo arresi.»
«Ma non potete smettere di cercarla. Per favore! Ditemi cos’altro potete fare.»
Coprendomi le orecchie con le mani, corsi nella mia stanza. Dov’era Gabriella? Perché non era tornata a casa? Teorie selvagge si aggiravano nella mia mente. Era stata vittima di autocombustione. Era esplosa in mille pezzi, senza lasciare traccia. Era scappata in Russia per fare la ballerina. Si nascondeva in un convento. Faceva la scienziata in Antartide. Rifiutavo ogni pensiero, perché tutte le piste che avevo seguito per cercarla non avevano portato a niente.
Fuori, il vento soffiava a folate intorno alla casa, premendo contro porte e finestre. Tirai fuori un quaderno e scrissi un titolo: Sospetti. E sotto aggiunsi il nome di Edward Lily. Ma non sapevo cos’altro scrivere. Papà aveva detto che era innocente, ma come faceva a esserne così sicuro? E se Edward Lily avesse nascosto Gabriella nel suo cottage, o magari proprio in quel momento stesse cercando di convincerla a partire con lui per la Spagna? O forse lei era già là, a imparare il flamenco, a innamorarsi di giovani gitani dagli occhi scuri? O era fuori al freddo, e sperava che io la trovassi. Come Cathy in Cime tempestose. Solo che Gabriella non era un fantasma. Mi rifiutavo di credere che quella fosse la verità. E poi perché Edward Lily doveva volere mia sorella? Cercai di scacciare la risposta più ovvia. Storie di ragazze rapite. Le cose che avevo letto nel giornale. Le cose che diceva la gente.
I miei pensieri saettavano avanti e indietro mentre passavo in rassegna le mie teorie finché, alla fine, non misi giù il quaderno.
Quando riemersi dalla mia stanza era già sera inoltrata. La mamma si era dimenticata di prepararmi la cena, ma non mi interessava. Mi sentivo coraggiosa dopo la scorribanda notturna da Tom, afferrai il parka dall’attaccapanni e uscii in giardino.
Il vento si era ormai placato e il cielo era nero e limpido. Il susino si stagliava curvo alla luce della luna come un vecchio stanco, con i rami nodosi che penzolavano come se si fossero arresi. Mi sentivo così anch’io, mentre restavo lì e rabbrividivo. In lontananza sentii bubolare un gufo e, poi, più vicino, una sagoma mi superò zigzagando. Qualcosa si muoveva fra i cespugli di alloro. Gli animali notturni si nascondevano, vigilando sugli intrusi. Gabriella non si era mai preoccupata del pericolo, non aveva mai avuto paura. E allora? Mi parve di sentirla. Lo farò, se voglio. Non c’è niente che mi spaventi.
«Per favore, Dio», sussurrai, mentre ascoltavo gli scricchiolii del susino, lo stormire delle foglie, le zampette che calpestavano i rami. «Per favore, Dio, se è successo qualcosa a mia sorella, dimmi almeno che non ha avuto paura.» E mentre pensavo a Dio mi chiesi: se era morta era stata portata verso l’alto, in un posto diverso, come si diceva in chiesa?
Ma quando guardai in su verso l’immenso cielo scuro, non potei contemplare mia sorella persa laggiù. Non era possibile. E tornai dentro.