19.
Io e David restammo silenziosi durante il viaggio di ritorno alla Casa di Flores. Troppe emozioni si aggrovigliavano nella mia testa. Temevo che, se avessi parlato, avrei perso il controllo.
Pensavo di aver visto tutte le immagini esistenti di mia sorella: le foto pubblicate sui giornali, gli scatti che conservavamo in famiglia. Ora, nella casa di un estraneo, avevo trovato una raffigurazione completamente nuova, e non sapevo come reagire.
Di quando in quando David mi lanciava un’occhiata curiosa e mi chiesi se fosse infastidito dal mio distacco. Non potevo farci niente. Non avevo la forza per prendere in considerazione anche i suoi sentimenti.
Tuttavia provai un po’ di rimorso quando, arrivati al negozio, rifiutai la sua offerta di fermarsi a darmi una mano. Propose allora di vederci più tardi per un drink, ma inventai una scusa anche per quello.
«Va bene», disse con un sorriso mesto. «Non è obbligatorio.» Ma tirò comunque fuori la penna e scarabocchiò il suo numero su un pezzo di carta prima di andare via. «Nel caso cambiassi idea.»
Portai gli scatoloni nel retrobottega. La pendola rintoccò, dal suo angolino nascosto, e io controllai l’orologio. Le due in punto. Rita e Mattie stavano per arrivare. Tirai fuori il ritratto e lo infilai nella mia borsa. Quando entrarono finsi di essere assorta a esaminare una pila di documenti.
Lavorarono nel retro, riordinando gli abiti di Edward Lily, camicie e pantaloni gessati, giacche di lino, cappelli e scarpe. Dopo un po’ lasciai perdere le carte e tirai fuori il ritratto.
L’artista era riuscito a cogliere Gabriella perfettamente, lo sguardo che fuggiva di lato, l’accenno di sorriso che le affiorava sulle labbra. Il disegno era stato fatto da qualcuno che conosceva mia sorella o che l’aveva osservata, giorno dopo giorno. Dawn aveva detto che Lydia era strana. Introversa. Una ragazza solitaria, che si dedicava a occupazioni solitarie. Era una lettrice. Era stata anche un’artista? Presi la rubrica e la sfogliai finché trovai il numero di Dawn e la chiamai.
Quando rispose sembrava senza fiato. «Ero in giardino a strappare le erbacce», disse. «Quelle cose da fare per forza, ora che sono sola. Va tutto bene? Hai trovato le cose di Lydia?»
«Sì, grazie.» Tacqui e mi avvicinai alla vetrina. Dal locale sul retro sentivo le voci di Rita e Mattie che discutevano su cosa fare dei vestiti di Lily.
«Ottimo», disse Dawn. «Non sapevo bene cosa farne, perché ovviamente non potevo portarli io, e l’uomo col furgone aveva detto...»
«È tutto a posto», la interruppi. «Ora sono qui al negozio.» Esitai. Il cuore mi batteva troppo forte. Mi misi una mano sul petto, come per provare a farlo rallentare. «C’è un disegno. Mi chiedevo dove l’avesse trovato.»
«Un disegno? Oh, sì. L’ho ritrovato nel salotto, su uno scaffale vuoto. Pensavo fosse stato dimenticato lì e l’ho infilato nella scatola.»
«Pensa...» Feci un’altra pausa, per cercare di riprendere a respirare regolarmente. «Pensa che possa averlo fatto Lydia?»
Dawn sembrò esitare. «Be’... Non saprei...»
«Ha mai visto Lydia disegnare?»
«Non ricordo... Credo di no.»
«È solo che... il ritratto è fatto molto bene.»
«Davvero? Onestamente, non l’ho guardato con attenzione. Avevo fretta di mettere tutto negli scatoloni. L’uomo del furgone...»
«Okay», intervenni. «Non si preoccupi.» Attesi qualche secondo prima di fare un’altra domanda. Inspirai e buttai fuori le parole tutte d’un fiato. «E che mi dice di Edward Lily? Era un artista?» La mia voce suonava stranamente acuta. Strinsi con forza il telefono. Dawn se ne era accorta?
«Direi che questo è più probabile», rispose. «Tutti quei dipinti che collezionava... Ma non posso dire di averlo mai visto fare lui stesso qualcosa del genere. Forse l’ha comprato. Cosa ti fa pensare che sia stato disegnato da uno di loro?» Era una buona domanda, e io non avevo la risposta. Perciò ringraziai Dawn e le dissi di passare quando voleva se desiderava dare un’altra occhiata alle cose di Lily. Le avrei conservate per un po’, nel caso la sorella o la figlia fossero venute a reclamarle.
Dopo quella telefonata, considerai con più attenzione la possibilità che Edward Lily fosse l’artista. Me lo immaginai che guardava Gabriella così di frequente da riuscire a catturarne esattamente l’espressione, a disegnare i suoi capelli, gli occhi e la bocca con grande precisione. Ripensai all’uomo delle fotografie, ai suoi libri e alle sue belle cose. Ripensai a sua moglie. A sua figlia. Se era andata così, loro sapevano com’era lui davvero?
Attraversai la stanza e mi fermai davanti al Modigliani. La ragazza ricambiò il mio sguardo. Con aria di sfida. Strano che non l’avessi mai vista in quel modo, prima. Toccai il vetro con delicatezza, con la punta delle dita, le feci correre sui contorni del viso allungato. Gabriella. Era ovunque. Nei miei pensieri e nei miei sogni, accanto a me in quel momento, guardava il mondo da quel quadro. E c’ero anch’io, c’era il mio riflesso, che mi restituiva lo sguardo. Due sorelle, intrappolate in un unico luogo.
Quella notte rimasi sveglia, aggirandomi nell’oscurità della casa. Gabriella: il mio primo pensiero al mattino, il mio ultimo ricordo la sera.
La scoperta del ritratto aveva cambiato tutto. L’ombra senza volto che si era insinuata nei miei sogni era reale. Il sospetto aveva finalmente trovato un fondamento. La sagoma aveva una faccia. E tutto ciò significava un’altra cosa ancora. La polizia doveva saperlo. I giornali avrebbero riesumato la storia, da capo. La gente avrebbe dissezionato ogni dettaglio, come corvi con un pezzo di carne cruda.
Quella nuova consapevolezza incombeva su di me, mentre camminavo avanti e indietro. Per anni avevo parlato a malapena di Gabriella, e me ne resi conto in quel momento: pochissime persone tra quelle che avevo conosciuto fuori dal villaggio sapevano che avevo avuto una sorella. Quando gli amici parlavano della loro infanzia o si lamentavano della loro famiglia, io rimanevo in silenzio e loro davano per scontato che non avessi nessuno. La gente mi diceva che ero fortunata. Io non li smentivo. Guardavo le loro foto di famiglia e non mostravo nulla in cambio. Ora non avevo altra scelta, se non ammettere di aver avuto una sorella. Non avrei più potuto occuparmene da sola.
Quel pensiero mi serrò la gola, soffocandomi. Avevo bisogno d’aria. Andai in giardino e mi fermai sotto il susino, guardando all’insù fra i rami sottili, verso la luna fredda.
Ricordai il giorno in cui Gabriella scomparve. La solitudine, la desolazione. Come avessi inventato storie nella mia mente per spiegarmi dove fosse andata. Mi rifiutavo di credere che la sua assenza fosse qualcosa di assoluto, finché un giorno non mi ero arresa e avevo finito per accettare ciò che chiunque altro considerava ineluttabile. Avevo altra scelta? Dovevo andare avanti verso il mio futuro e lasciarmi alle spalle l’altra vita. Anche se forse, in realtà, non l’avevo fatto. Avevo solo nascosto il dolore dentro di me. E ora probabilmente questo era il punto più vicino a Gabriella che avrei mai potuto raggiungere, sotto l’albero dove coglievamo la frutta, lì dove sentivo il suo respiro nel vento.