Era una follia festeggiare l’anniversario a una settimana dalle elezioni. Quando Aaron l’aveva proposto, un anno prima, il giorno del loro ventinovesimo anniversario, Embeth stava facendo il secondo ciclo di chemio e aveva passato la serata con la testa china sulla tazza. «L’anno prossimo sarà diverso», le aveva detto, sulla porta, mentre cercava di non respirare troppo. Non era il tipo di uomo che ti teneva indietro i capelli, ma senza dubbio era partecipe delle tue sofferenze. Cercava di tirarti su di morale, magari con la promessa di una festa per te e non per i suoi finanziatori. Gli aveva mai espresso, anche solo una volta, il desiderio di organizzare una festa del genere? Da quando si era ammalata, lui era diventato sentimentale. Era l’unica spiegazione. No, era sempre stato sentimentale. Lo sapeva anche prima di sposarlo, che il sentimentalismo era la sua debolezza. «Dai, Em. Ce lo meritiamo, per il nostro trentesimo. Lo faremo al Breakers. Una volta tanto, inviteremo gente che ci piace e ce ne fregheremo se qualcuno si offende.»
L’anno prossimo non sarò più al mondo, aveva pensato Embeth. «Non possiamo festeggiare a novembre», aveva detto. «Sarai in campagna elettorale.» Le era venuto un conato, ma non aveva vomitato niente. Non vomitare era peggio che vomitare.
«Ma no», aveva detto Aaron. «Cioè, sì, ma cosa importa? Sono stato eletto al Congresso per dieci mandati. Se non vogliono rieleggermi perché mi prendo una serata libera per il nostro trentesimo di matrimonio, che vadano a cagare. Lo voglio fare, Em. Qualunque cosa tu dica. Mando subito un messaggio a Jorge per tenere libera l’agenda.»
Doveva proprio essere convinto che sarebbe morta.
Invece Embeth c’era ancora, un anno dopo, viva. Capelli crespi, cervello annebbiato, cicatrice sul petto, cuore pulsante, un’ottusa pulsazione animale, viva, viva.
Erano le 4:55 del mattino e Aaron aveva già indossato la giacca, ma senza cravatta. Doveva volare in giornata a Washington. Sarebbe tornato per la festa, alle otto di sera. Non poteva evitare di andarci. La sua avversaria, Marta Villanueva – bionda, tettona, repubblicana –, stava opponendo una resistenza più tenace di quanto si aspettassero, a giudicare dai fondi di cui disponeva (niente affatto proporzionali alla misura del reggiseno), quindi Aaron non poteva permettersi di mancare al voto. Chissà poi come gli era venuto in mente di mettere in programma una votazione di quella importanza pochi giorni prima delle elezioni. Era una situazione impossibile. Non solo per lui, ma per tutti quelli che si ricandidavano. Era stato un anno da schifo, in tutti i sensi, il peggiore da sempre. Gli dispiaceva lasciare i preparativi dell’ultimo minuto a Embeth. Gli dispiaceva lasciarla in quel momento, il giorno del loro trentesimo anniversario. Trent’anni! Ve lo immaginate? Erano praticamente dei bambini. Forse non erano ancora nati. La baciò sui capelli.
«Vai», gli disse lei. «In bocca al lupo. È tutto organizzato. Non c’è molto da fare, ormai. Nulla che non possa fare da sola.»
«Sei un angelo», le disse. «Sono un uomo fortunato», le disse. «Ti amo.» E: «Buon anniversario».
Lei si offrì di accompagnarlo in aeroporto, ma lui le disse di restare pure a letto. Aveva già chiamato un taxi.
Embeth si rigirò e cercò di riaddormentarsi, però il sonno non arrivò.
Visto che ormai l’aveva svegliata, tanto valeva accompagnarlo in aeroporto. Da dopo il tumore non dormiva più bene. Era fortunata se tirava tre ore per notte. Durante la giornata era esausta.
Chiuse gli occhi.
A poco a poco era scivolata verso il sonno, quando sentì un frullio d’ali, come un mazzo di carte che veniva mescolato.
Aprì gli occhi.
Un pappagallo verde smeraldo con la testa rossa volava dritto verso di lei e, solo quando il suo becco adunco stava per colpirla in fronte, si posò sulla distesa piatta dove una volta c’era il suo seno.
«Señora, señora», disse il pappagallo. «Sveglia, sveglia.»
Embeth gli rispose che aveva bisogno di dormire, ma il pappagallo sapeva che non stava dormendo. Si rigirò a pancia in giù e il pappagallo si riappoggiò in fondo alla sua schiena.
«C’è da fare, c’è da fare», disse il pappagallo.
«Sloggia, El Meté.» Non sapeva come mai avesse quel nome, né cosa volesse dire. Era spagnolo? Perché non aveva mai imparato lo spagnolo? Chi lo sa, le sarebbe stato molto più utile, in quanto moglie di un politico della Florida, dei tre anni di stramaledetto latino studiato alle superiori. Non era nemmeno sicura che El Meté fosse un maschio. Con gli occhi ancora chiusi, Embeth si stirò le braccia facendole roteare come le pale di un mulino. Il pappagallo andò a posarsi sul davanzale. «Se non dormo un pochino, oggi non riuscirò a combinare niente. Invece ho bisogno di essere lucida.»
«El Meté aiuta. El Meté aiuta.»
«Non puoi aiutarmi. Al massimo puoi levarti di torno e lasciarmi riposare almeno un po’.»
Il pappagallo andò a posarsi sul comodino di Aaron, dove si mise a lisciarsi le penne. Non è che fosse un’operazione rumorosa, ma ormai era troppo tardi. Embeth era sveglia. Fingere di dormire era più stancante che rassegnarsi al resto della giornata.
Si alzò, si lavò i capelli nella doccia e, quando ne uscì, trovò il pappagallo appollaiato sul porta asciugamani.
«Mi piacerebbe che mi lasciassi un po’ di privacy», gli disse Embeth.
El Meté andò a posarsi sulla sua testa e le diede una beccata col becco rosa. «Idratare! Idratare!»
Andò in cucina per versarsi del caffè. Avrebbe dovuto smettere col caffè, ma che senso aveva la vita, senza caffè? Vivere, per lei, era acquisire cattive abitudini. Morire era il processo attraverso cui te ne liberavi. La morte era una terra senza abitudini. Senza caffè.
El Meté si posò sulla sua spalla.
«Non voglio che vieni con me oggi», gli disse Embeth.
«El Meté viene. El Meté!»
«Sul serio, devo andare dal medico, dal parrucchiere, in lavanderia, dal fiorista, dalla sarta, dal gioielliere e devo fare un discorso a quello stupido pranzo, e poi c’è la festa...»
«Festa! Festa!»
«A me neanche piacciono, le feste...»
«Festa! Festa!»
«Non puoi venire alla festa.»
«Festa! Festa!»
«Certe volte sei proprio uno zuccone, El Meté. E pure ripetitivo. Poi pensi di essere leggero, invece sei pesantissimo, sulla spalla. Secondo me stai ingrassando. Ho i tuoi artigli conficcati nella carne. Sei peggio della spallina del reggiseno. Peggio di una borsa Birkin. Avrò bisogno di trovarmi un chiropratico.»
Margarita, la domestica part-time, entrò in cucina portando uno scatolone. «Buongiorno, Mrs Levin! E buon anniversario! Questo era sui gradini.» Appoggiò lo scatolone sul ripiano della cucina.
Embeth guardò l’indirizzo del mittente. Veniva dal suo amico più fidato, lo spedizioniere. Prese un coltellaccio e aprì il pacco. Dentro, inumata in un pluriball infinito, c’era una statuetta pacchiana. Era alta come un grosso pene, fatta di resina dai colori vistosi, come un film in bianco e nero successivamente colorato. Era un uomo alato, roseo, che indossava una toga rosa e reggeva una stella di David di bronzo, come uno scudo. Doveva essere una specie di angelo ebreo. Esistevano gli angeli ebrei? Ma certo che esistevano. Nell’Antico Testamento c’erano gli angeli, quindi dovevano esistere. Nell’Antico Testamento non erano tutti ebrei? Capovolse la statuetta. Il certificato di autenticità attestava che si trattava di Metatron, che sembrava un nome da robot. Chi poteva averle mandato un oggetto del genere? Embeth non era il tipo di donna cui si mandavano angioletti.
«Che bello», disse Margarita. Perché lei apprezzava il kitsch. Aveva anche un aspetto vagamente kitsch. Si pettinava i capelli neri e lucidi come una regina del burlesque. Girava per la cucina sfoggiando scarpe con le ciliegine e coi seni sodi tutti strizzati che le arrivavano al mento. Jorge, il braccio destro di Aaron, non aveva fatto in tempo a darle un’occhiata, che aveva detto a Embeth: «Sei sicura di volere una ragazza del genere in casa tua?»
«Che cosa intendi?»
«Che te la vai a cercare.»
«Aaron è vecchio. E io anche. Sono a casa più di lui, e poi è sessista non assumere una persona perché è bella. E comunque è anche intelligente. Si sta specializzando in scultura all’accademia.»
«Te la vai a cercare.»
«La vuoi?» disse Embeth a Margarita, mentre scavava nel pluriball alla ricerca di un biglietto. Immaginò che la gente le mandasse quella robaccia perché pensava che il cancro l’avesse rammollita.
«Non potrei mai accettarla», disse Margarita. «È un pensiero per lei.»
«O forse era destino che io la regalassi a te.»
«Porta sfortuna prendere l’angelo di un’altra donna.»
«Se non lo adotti tu, finisce in pattumiera.»
«Porta sfortuna buttare il proprio angelo nella spazzatura.»
«Cos’è che non porta sfortuna?» Embeth lo sollevò prendendolo per la testa. «Io non credo alla sfortuna.» Aprì la pattumiera ma esitò. «Secondo te è riciclabile?»
«Non lo faccia. Magari col tempo le piacerà.»
«Lo escludo.»
«Magari a suo marito?»
«Aaron lo odierebbe.»
«Va bene. Lo dia a me.» Margarita prese l’angelo e lo appoggiò vicino alla sua borsetta.
«Riesci a venire alla festa questa sera?» le chiese Embeth.
«Sì, certo. Non me la perderei mai! Mi sono cucita il vestito da sola. È un corsetto rosso con sotto una gonna nera a ruota, indosserò anche guantini di pizzo nero senza dita, e avrò i capelli raccolti, tutti tirati indietro, e una veletta sulla faccia. Sarà di grande impatto.»
«Non stento a crederlo. Potrai mettertelo anche al mio funerale.»
«Non sia macabra, Mrs Levin. È un abito molto allegro.»
«Margarita, cosa significa meté in spagnolo?»
«Un bambino che fa i capricci potrebbe gridarlo, se vuole che un’altra persona appoggi una cosa che ha in mano. Meté! Meté!»
«Ma se davanti c’è un el? El Meté. Cambia?»
«Ah. Così non vuol dire proprio niente.»
La receptionist si scusò. Il medico era in ritardo con gli appuntamenti. Quando mai non lo è? pensò Embeth. Tirò fuori il telefono e si mise a cercare online notizie sulla campagna di Aaron. Decise che, se avesse perso, non le sarebbe importato. Nonostante quello che dicevano di lei – che era lei quella ambiziosa, che senza di lei suo marito sarebbe rimasto a insegnare inglese in una scuola superiore, non che ci fosse nulla di male – quasi quasi una sconfitta non le sarebbe dispiaciuta.
«Embeth Levin, sei tu?»
Si voltò e vide Allegra. Era invecchiata. Sembrava che andasse per i cinquant’anni. Oddio, pensò Embeth, non è che lo sembri. È invecchiata. E va per i cinquanta, perché io vado per i sessanta. Allegra lavorava con Embeth, ai tempi in cui Embeth lavorava in ospedale. Erano molto vicine. Le prendevano in giro perché sembravano una vecchia coppia di sposi.
«Allegra, è passato davvero troppo tempo», disse Embeth.
Allegra la baciò sulla guancia. «Spero che tu non stia male.»
«L’anno scorso sono stata malata, ma adesso sto meglio. Sono qui solo per un controllo.»
«In effetti... No, hai un ottimo aspetto.»
«È inutile mentire. Sto da schifo.»
«No, stai bene. Forse sembri un po’ stanca. Io odio quando mi dicono che sembro stanca.»
«Stasera diamo una festa per il nostro anniversario. Dopo la visita, vado dal parrucchiere. Devo inventarmi qualcosa per questa inutile lanugine.»
«A me piacciono i tuoi capelli. Sono molto chic. Comunque, sapevo della festa. Voglio dire, ci vengo.»
«Perché?» disse Embeth, senza riflettere.
«Perché ho ricevuto l’invito. Davo per scontato che me l’avessi mandato tu.»
Cacchio, come faccio a non ricordarmi una cosa del genere? pensò Embeth. «Certo», le disse. «Ovvio.» Che cosa le era saltato in mente, d’invitare Allegra?
«Mi sembri sorpresa.»
«Ma no. Solo...» La verità era che ultimamente non si ricordava nulla. Doveva essere l’effetto della chemio.
«Levin», chiamò la receptionist.
«Mi ha fatto piacere ricevere l’invito», disse Allegra. «Non me l’aspettavo, ma mi ha fatto piacere. Se però preferisci che non venga... Se è stato uno sbaglio, intendo.»
«Voglio assolutamente che tu venga.» Embeth strinse la mano ad Allegra. Era fresca e morbida, e Allegra profumava di frangipani e di qualcosa di più speziato e meno raffinato, come il legno di sandalo o il cacao in polvere. «A volte il mio cervello funziona meglio quando non mi sforzo di pensare.»
Allegra sorrise. «Non ho capito cosa intendi.»
«Voglio che la settimana prossima ci vediamo per un pranzo interminabile», disse Embeth. «Me lo prometti?»
«Mi spiace non aver saputo che eri malata.»
«Non ero molto di compagnia.»
«Comunque, avrei potuto fare qualcosa...»
E cosa avrebbe potuto fare? Una corsa solidale di cinque chilometri? Un nastrino appuntato alla giacca? Le avrebbe portato un brodino da vomitare? Twittato la sua solidarietà? «Perché hai le orecchie da gatto?» le chiese Embeth. «Me le sto immaginando o hai davvero delle orecchie da gatto in testa?»
«Ah!» Allegra ridacchiò, un po’ imbarazzata, e si lisciò i capelli dietro il cerchietto nero con le orecchie. «È il mio costume. Ieri era Halloween.»
«Me n’ero dimenticata.»
«Ma la festa della scuola di Emory è stamattina. Non chiedermi perché. Io sono incaricata del punch. Una delle mamme ieri sera mi ha mandato un messaggio: ’Non mettere la frutta secca nel punch!’ Ma chi mette la frutta secca nel punch? Io sono la più vecchia delle mamme e pensano che non ci sia da fidarsi.»
«Levin!» ripeté la receptionist.
«Ti stanno bene, le orecchie», disse Embeth, entrando nella sala delle visite.
«Come sto, Embeth?» le chiese il medico. L’inglese non era la sua lingua madre e faceva ancora fatica coi verbi.
«Lei bene, io ho trovato un nuovo nodulo!» gli rispose, vivace.
Uscendo dall’ambulatorio, Embeth si sentiva stupidamente allegra. La promessa di accertamenti futuri! La promessa di un altro ciclo di chemio! La promessa della morte! Non c’era da stare allegri, eppure lo era.
E di certo non era per i festeggiamenti di quella sera.
Forse era il sollievo. Quando aveva sentito il nodulo sotto la doccia, l’aveva preso come un fallimento personale, pur sapendo che era uno scherzo del suo cervello, pura insensatezza. Non era colpa sua se il suo corpo continuava a produrre agglomerati di cellule anomale. L’avevano educata a pensare che fosse sempre colpa sua. Era dotata di un enorme potenziale, eppure non ne faceva una giusta. Embeth, la Creatrice di cellule anomale. Embeth, la Distruttrice di mondi.
Forse a metterle allegria era la giornata stessa. Era una mattina fresca e asciutta, dopo un ottobre fresco e asciutto. Gli uragani di fine stagione non erano arrivati. I suoi capelli, o quel che ne restava, erano più ubbidienti del solito.
Forse era perché aveva visto Allegra.
Se lui non fosse tornato, se gliene fosse rimasto il tempo, avrebbe pranzato con Allegra e poi ci avrebbe pranzato un’altra volta e, durante quel secondo pranzo, quando ormai sarebbero state più rilassate, avrebbero ordinato due dessert da dividere e le forchette avrebbero tintinnato, incastrandosi, e avrebbero mangiato fino all’ultima briciola e poi Embeth avrebbe detto al cameriere: Sì, in effetti mi andrebbe un espresso, e Allegra avrebbe proposto di andare insieme a un corso di yoga (È hatha yoga, Em, può farlo chiunque), e a yoga una di loro avrebbe proposto d’iscriversi a un book club, ed Embeth sarebbe riuscita a organizzare la sua vita in modo da vedere Allegra tutti, tutti i giorni, finché una delle due non fosse morta.
Ma perché Allegra si trovava all’ambulatorio del dottor Hui? Avrebbe dovuto chiederglielo. Quanto era egocentrica. A volte dimenticava che non era l’unica al mondo ad avere il cancro. D’altro canto, spesso dimenticava che tutti gli altri non ce l’avevano.
Aveva convinto El Meté ad aspettare vicino alla macchina. Non si potevano portare uccelli dentro l’ambulatorio. Era appollaiato sul cofano della Tesla. Le sue unghie ticchettavano allegre sulla vernice. Si alzò in volo e andò a posarsi sulla spalla di Embeth. «La camicetta è di seta, stacci attento», gli disse lei.
«Attento! Attento!» disse lui. «Buonanotte! Buonanotte!»
Embeth salì in auto e le squillò il cellulare; prese le sue precauzioni mettendo in viva voce, perché l’ultima cosa che voleva era un tumore al cervello, con tutti gli altri tumori che già aveva.
Era Tasha, una delle assistenti di Aaron a Miami. Era nuova. Disse che in ufficio avevano un’emergenza. Le assistenti di Aaron avevano la tendenza a drammatizzare. Soprattutto quelle nuove. Non avevano l’esperienza per distinguere tra problemi ed emergenze, crisi e tragedia. Una settimana prima delle elezioni, che cosa non era un’emergenza? «Non può pensarci Jorge?» disse Embeth. «Sono presissima, per la festa di stasera. Perché mai abbiamo organizzato questa stupida festa...» Eseguì una risatina di scuse.
Tasha disse: «Forse emergenza non è la parola giusta. Lo definirei piuttosto un problema».
«Ottimo. Mi fido di Jorge, sa gestire ogni tipo di problema.»
«Ottimo! Eccellente!» disse El Meté.
«Sstt!» fece Embeth.
«Oh, mi scusi», disse Tasha.
«No, non tu. Dicevo a qualcun altro. Comunque, chiama Jorge.»
«Okay. Però, il problema è...» Tasha abbassò la voce ed Embeth non sentì. Le chiese di ripetere, più forte. «È una ragazzina.»
«Cosa?»
«C’è qui una ragazzina. Sostiene di essere la figlia di Aaron.»
«Figlia! Figlia!» disse El Meté.
«È impossibile. Abbiamo solo figli maschi.»
«È qui davanti a me. È alta all’incirca un metro e cinquanta, ha l’apparecchio e i capelli ricci. Direi che avrà undici o dodici anni...»
«No, Tasha, non c’è bisogno che tu mi descriva una ragazzina. So benissimo come sono fatte, anche perché sono stata ragazzina pure io, che tu ci creda o no. E non metto in dubbio che tu abbia davanti una ragazzina. Il punto è che non è figlia di Aaron perché io e mio marito abbiamo solo figli maschi.»
«Maschi! Maschi!» disse El Meté.
«Vuoi chiudere la bocca, per favore?» disse Embeth.
«Non ho detto niente», disse Tasha.
«Non tu, quell’altro. Chiama Jorge e digli che si è presentata in ufficio una ragazzina pazzoide. Lui ti dirà cosa fare. Io oggi non ho tempo per i pazzi.»
«Okay», disse Tasha. «Posso fare così. Ma ci sarebbe un’altra cosa...»
«Cooosa?»
«Dice di chiamarsi Grossman.»
Embeth detestava quel nome con tutte le sue forze. «È grossa?»
«No, di cognome si chiama Grossman.»
«L’avevo capito.» Le sarebbe tanto piaciuto poter arrivare alla fine della sua vita senza dover risentire quel nome, nemmeno una volta.
«La settimana prossima si vota», continuò Tasha.
«Sì, Tasha, ne sono informata.»
«Lo so che ne è informata. Voglio dire, in ufficio c’è un sacco di gente e oggi aspettiamo molta altra gente. I volontari della campagna. I giornalisti. Sarebbe meglio mandarla da qualche altra parte, mentre le cose si sistemano. Jorge è a Washington con suo marito. Non riesco a raggiungerli telefonicamente. Non ho voluto mandare un messaggio, casomai qualcuno lo leggesse. Forse non farò in tempo a parlargli. Non voglio che sorgano problemi.»
E anche se fossero sorti problemi? E se Embeth non fosse andata in ufficio? E se avesse chiuso la telefonata e fosse andata dal parrucchiere e avesse continuato la sua giornata come programmato? E se non fosse intervenuta a risolvere le rogne di Aaron? Era irritante che la gente pensasse sempre di chiamare lei, quando lui ne faceva una delle sue. Non c’erano forse mogli che venivano protette dalla verità a ogni costo? Perché nessuno pensava che Embeth fosse quel genere di moglie? Il genere di moglie che era meglio lasciare all’oscuro, quando si trattava delle mancanze del marito?
Una volta, tanti anni prima, non era intervenuta, e tutti sapevano com’era andata a finire.
«Va bene. Vengo a prenderla», disse Embeth.
«E intanto cosa faccio, con lei?»
«Chiudila in uno sgabuzzino! Non m’interessa.»
«Sgabuzzino! Sgabuzzino!» disse El Meté.
«Chiudi la...» sussurrò Embeth.
«Vuole che la chiuda in uno sgabuzzino?»
«Non stavo parlando con te.»
«Ma con chi sta parlando?» sbottò Tasha. «Mi scusi, non sono affari miei.»
Certo che non erano affari suoi. «Sono con El... Con un amico.»
«Amico? Amico?» fece El Meté.
«Sì, ci definirei amici», confermò Embeth.
L’uccello le strofinò il becco sul collo e tubò.
«Non so nemmeno se abbiamo uno sgabuzzino...»
«Oh, per favore! Nella vita prendere le cose troppo alla lettera è un grosso difetto. Non dev’essere per forza uno sgabuzzino. Mettila in un posto dove non dia fastidio finché non arrivo. Uno scantinato. Un tetto. Un cubicolo abbandonato. Insomma, trovale tu un cacchio di posto!» Embeth riagganciò. Quella ragazza era un’incapace.
«Incapace», disse El Meté.
Prima di dirigersi all’ufficio, cercò nel cellulare il numero di Rachel Grossman. Rachel Grossman, altrimenti detta la Peggior Vicina del Mondo. Sì, quella cosa – non sapeva nemmeno come definirla – sarebbe stata un problema di Rachel Grossman, non di Embeth.
Chiamò il numero, ma non era più attivo. Mise in moto.
In ufficio i telefoni squillavano. Certi squilli suscitavano una risposta entusiastica; altri erano stati ignorati per settimane e avrebbero continuato a esserlo. Una ragazza con indosso un vestito componeva un tweet, una ragazza con una versione più economica dello stesso vestito scriveva l’ennesimo memo – Oggetto: pro e contro di Snapchat per candidati politici in carica – concludendo che, in quella fase della campagna, per il membro del Congresso ormai era troppo tardi. Tutti facevano attenzione a cosa mettevano per iscritto, per email o per messaggio, perché non si sapeva mai chi ti stava guardando o hackerando, e certe cose volevano essere divertenti, ma il divertimento veniva meno eliminando il contesto, le sfumature e le stravaganze del tono. Comunque un messaggio era preferibile a un’email. L’email era preferibile alla telefonata. La telefonata era preferibile a un incontro. Incontrarsi era una cosa da evitare a ogni costo. Ma, se non se ne poteva fare a meno, meglio trovarsi a bere qualcosa che a pranzo e meglio a pranzo che a cena. Tutti odiavano il proprio telefono ma non riuscivano a immaginare di vivere senza. Una ragazza in jeans lanciò un’occhiataccia a quelle col vestito e disse a un ragazzo in jeans che quelle col vestito non facevano granché d’importante (ma lo sapevano tutti che erano le ragazze col vestito a mandare avanti la baracca). Una ragazza con la gonna discuteva con un ragazzo in tuta: quell’anno le elezioni maggiori avrebbero favorito quelle locali? Qualcuno lanciò un vecchio pallone, un’imitazione del Nerf, con scritto LEVIN 2006 e qualcun altro gridò: «Silenzio, su C-SPAN trasmettono la votazione!» ma qualcun altro ancora ribatté: «Non interessa a nessuno!» e un altro: «A me sì!» Due ragazzi in giacca prendevano le ordinazioni per il pranzo e una ragazza col vestito disse che lei non avrebbe preso quelle per il caffè, non pensassero nemmeno di chiederglielo. Un ragazzo con la cravatta rivedeva il suo curriculum (ma tanto lo facevano tutti, sempre) e una ragazza col vestito disse: «Qualcuno può spiegare per l’ennesima volta al membro del Congresso che ci vuole il punto all’inizio di un tweet che comincia con la @?» E poi borbottò qualcosa sul «lavorare coi vecchi». Un’altra ragazza col vestito mandava un’email a qualcuno che conosceva alla CNN: Solo per curiosità, come si diventa vice? Un ragazzo con la cravatta flirtava con un altro ragazzo con la cravatta, e un ragazzo in pantaloni kaki rubava la cancelleria dell’ufficio, dicendosi che stava facendo scorta per la sua campagna futura. Una ragazza col vestito piangeva al telefono con sua mamma e mugugnava: «Non devo mollare, altrimenti non mi riconosceranno nessun merito!» E tutti erano molto importanti e molto poco apprezzati e molto sottopagati e, come in tutti gli uffici di tutte le campagne elettorali, molto, molto giovani.
Embeth aveva conosciuto versioni precedenti di quei ragazzi e ragazze, sebbene non conoscesse di persona le loro versioni attuali, e il suo arrivo passò inosservato. In anni di modesta notorietà, Embeth aveva imparato l’arte di entrare in una stanza. Quando voleva farsi notare, ci riusciva. Quando non voleva farsi notare, ci riusciva. Il trucco era assumere l’atteggiamento di una che sa dove sta andando e al contempo emanare un’energia benevola ma noiosa, perfino un po’ sgradevole. Per metterlo in atto a volte ricorreva al telefono, la fortezza di solitudine sua quanto di tutti gli altri, e a una concentrazione frutto di grande allenamento. Oppure ricorreva a un cappello poco appariscente, però mai agli occhiali da sole. Quale che fosse il metodo scelto, più andava avanti con gli anni e più facile diventava per lei premere il bottone dell’invisibilità. Un giorno non lontano, forse, il bottone sarebbe rimasto premuto e nessuno l’avrebbe vista mai più.
Arrivò alla scrivania di Tasha, che si trovava in una reception separata, fuori dall’ufficio personale di suo marito. La ragazzina era seduta di fronte alla scrivania. Indossava una giacchetta a righe, di cotone increspato, jeans con disegni colorati (un arcobaleno, un cuore, sole e nuvole), una maglietta che diceva I DIRITTI DELLE DONNE SONO DIRITTI UMANI e scarpe da ginnastica rosa. Aveva i capelli increspati dall’umidità e li teneva raccolti in una goffa mezza coda di cavallo. Aveva occhiali dalla montatura rotonda che enfatizzavano la rotondità del suo viso. Dietro quegli occhiali c’erano due dolci occhi verdi e, guardandoci dentro, Embeth capì che la scuola – o meglio, la vita – per lei non doveva essere facile. Sembrava meno circospetta di quanto sarebbe stato ottimale per la sopravvivenza. La fece pensare a una tartaruga rigirata sulla schiena, a un porcospino nato senza aculei. Nell’educarla, sua madre aveva fatto un ottimo lavoro e un pessimo lavoro. Ottimo perché sembrava proprio una ragazzina cui non importava niente di quello che pensavano gli altri. Pessimo perché non era preparata per il mondo. Agli occhi di Embeth somigliava ad Aaron, sì: i capelli ricci, gli occhi chiari, anche se quelli di Aaron erano più azzurri che verdi. Ma del resto i tratti di Aviva Grossman erano molto simili a quelli di Aaron, quindi non si poteva dire. Embeth concluse che l’aspetto della ragazzina era, in sostanza, ebraico. Aveva un’aria pacifica da nerd. Aveva le cuffie ed era intenta a leggere qualcosa su un tablet.
Se fosse stata figlia di Aaron, non sarebbe stato da Aviva mantenere il segreto tanto a lungo. Quella era la persona più indiscreta che Embeth avesse mai conosciuto. Diventa l’amante di mio marito, se proprio devi, ma non scriverlo su Internet! E almeno non scrivere che ci hai fatto sesso anale, per l’amor del cielo. Anche cambiando i nomi, è solo questione di tempo.
Tasha saltò in piedi. «Mrs Levin! Avevo detto di avvertirmi del suo arrivo.»
«Sono sfuggente.»
«È lei», disse Tasha.
«Sì, mi sembrava scontato che non si fosse presentata una seconda ragazzina.»
«Non ho trovato uno sgabuzzino, quindi l’ho lasciata lì.»
«Voglio parlarle. Ci dai un momento? Ah, Tasha, un’altra cosa. Conto su di te, non spifferare niente a nessuno.»
Tasha uscì ed Embeth si sedette sul divanetto accanto alla ragazzina.
«Abbiamo le stesse scarpe da ginnastica», le disse.
La ragazzina si tolse le cuffie. «Come?»
«Abbiamo le stesse scarpe da ginnastica.»
«Le sue sono nere. Le mie sono quelle rosa, ho dovuto aspettare due settimane in più per averle. A certe persone che conosco il rosa non piace.»
«Non è il mio colore preferito», ammise Embeth. Per esempio, avrebbe preferito morire senza dover mai più vedere un nastrino rosa contro il tumore al seno.
«Neanche il mio. È il mio secondo colore preferito. Secondo Mrs Morgan dire che non ti piace il rosa è come dire che non ti piacciono le donne, perché spesso il rosa è associato alle donne.»
«Capisco il punto di vista di Mrs Morgan, ma non bisogna dimenticare che il rosa viene imposto alle donne fin dalla più tenera età. Pensa per esempio all’onnipresenza del rosa per le bambine e dell’azzurro per i bambini nei negozi di articoli per neonati. Quindi rifiutarsi d’indossare il rosa vuol dire rifiutare certe idee antiquate sulla femminilità.»
«Uhm. Ma non è colpa del rosa. E poi nessuno pensa lo stesso dell’azzurro. E l’azzurro viene imposto ai maschi tanto quanto il rosa viene imposto alle femmine, quindi la questione mi sembra complicata. Anzi, sfaccettata, che è una delle mie parole preferite. Sfaccettato significa...»
«Io sono Embeth», riuscì a intervenire Embeth. Glielo ripeté e aggiunse: «La moglie del membro del Congresso».
«Lo so, ho fatto le mie ricerche su Google. Io sono Ruby. Sono venuta a conoscerlo, ma gliel’ha già detto Tasha, al telefono. Mi dispiace, ma ho sentito quello che le diceva. E mi scuso anche per essermi presentata senza un appuntamento.»
«Sì, sarebbe stato meglio prendere appuntamento, ma ormai siamo qui. Non facciamo come la moglie di Lot, che si gira a guardare Sodoma.»
«Lei mi fa morire dal ridere.»
Lì per lì Embeth trovò l’osservazione disarmante. Non era sua intenzione fare la simpaticona, e comunque nessuno l’aveva mai considerata tale. Era già tanto se qualcuno coglieva le sue frecciatine. «Posso organizzarti un incontro col membro del Congresso, ma prima devi rispondere a qualche domanda.»
Ruby annuì.
«Tua madre si chiama Aviva?»
«Sì. Ma adesso si fa chiamare Jane.»
«E perché?»
«Perché è una bugiarda.»
Embeth doveva ammettere che la ragazzina non aveva peli sulla lingua, e questo le piaceva.
«Perché si vergogna, credo», aggiunse Ruby, ammorbidita. «E perché ha paura di essere giudicata per quello che ha fatto con suo mari... col membro del Congresso.»
«E probabilmente ha ragione. Come mai sei venuta qui?»
«Voglio incontrare mio padre. Non sono sicura che il membro del Congresso sia mio padre, ma lo voglio sapere.»
«E non è stato qualcuno a suggerirti di venire qui questa settimana, proprio questa settimana?»
«In che senso?»
«Magari tua mamma? È stata lei a incoraggiarti?»
«Mia mamma non sa nemmeno dove sono! Le ho lasciato un biglietto.»
«Mi sembri un po’ troppo piccola per viaggiare da sola.»
«Lo sono, ma sono anche matura per la mia età. Ho sempre avuto molte responsabilità. Mia mamma organizza eventi e sono anni che lavoro con lei.»
Embeth sospirò. «Sembri una brava ragazza, Ruby...»
«Non lo sono. Ho fatto delle cose terribili.»
Embeth ci pensò su. «Cos’hai fatto?»
«Non voglio dirglielo. Niente d’illegale, ma d’immorale forse sì. Forse nemmeno d’immorale, ma senz’altro sleale. Forse...»
«Lascia perdere, mi sembra complicatissimo. Ne parliamo più tardi. Devi ammettere, però, che capiti in un momento sospetto. Lo sai cosa sono le elezioni?»
«Certo che lo so.»
Embeth si rese conto di averla offesa. A sua discolpa, si disse che era difficile capire cosa sapevano i ragazzini. «Il membro del Congresso Levin è in corsa per la rielezione, la settimana prossima, e la tua presenza per lui potrebbe essere non proprio ideale. Che tu sia sua figlia o no, ci sono molte persone che sarebbero felici di rivangare quel vecchio scandalo tra lui e tua madre. Quanto sai di quella storia?»
Ruby sviò lo sguardo.
«Ecco, infatti. Comunque, intendo dire che per il membro del Congresso sarebbe un grosso problema, a una settimana dalle urne.»
Ruby ci rifletté. Si tolse gli occhiali e li pulì con la maglietta. «Qui fa un caldo tremendo. Non ho mai avuto i capelli così crespi in tutta la mia vita.»
«Non me lo dire. Ma non può essere la prima volta che vieni in Florida.»
«Invece sì. Viviamo nel Maine, il Pine Tree State.»
Il Maine. Chissà come mai, il pensiero di Aviva Grossman nel Maine fece sorridere Embeth. Condannata all’inverno eterno.
«Ha avuto un tumore?» chiese Ruby con disinvoltura.
«Perché? Ho l’aria di avere un tumore?»
«Mia mamma organizza un sacco di eventi di beneficenza per i malati di cancro. E lei sembra una che ce l’ha o almeno che l’ha avuto. Non ha le sopracciglia. Magari le ha strappate troppo. Alle spose a volte capita.»
«Io non sono una sposa. Lo sono stata moltissimo tempo fa. Però ho un tumore. Di solito mi disegno le sopracciglia, quando mi viene in mente. Dicono che ricrescono, ma a quanto pare le mie si rifiutano.»
«È strano che chiami suo marito ’il membro del Congresso’.»
«Forse, ma ormai lo chiamo così da tanto di quel tempo che non me ne accorgo nemmeno. È mio marito ma è anche il rappresentante del mio distretto, quindi di fatto è il mio membro del Congresso e mio marito.» C’erano stati momenti in cui Aaron l’aveva delusa, come marito, ma poteva affermare, in tutta sincerità, che come membro del Congresso non l’aveva mai delusa. Come politico, era onesto e non faceva mai promesse che non poteva mantenere.
«Non ci avevo mai pensato in questo modo. Ha votato per lui ogni volta che si è candidato?»
«Sì.»
«Potrebbe non votare per lui, in futuro?»
«Probabilmente no. La vediamo nello stesso modo su tutte le questioni più importanti e credo nel suo giudizio e nelle sue idee.»
«Che cosa intende con ’giudizio’?»
Che cosa intendeva Embeth? Ormai ripeteva le stesse battute da tanto tempo che non sapeva nemmeno più cosa volevano dire. «Sceglie bene da chi accettare soldi; ascolta i suoi elettori più dei suoi finanziatori e ascolta la sua coscienza più dei suoi elettori. Vale a dire che gli preme di più fare la cosa giusta che essere eletto. Per ’giudizio’ intendo questo.»
Ruby annuì, ma non sembrava convinta.
Embeth cercò di decifrare la sua espressione. Immaginò che stesse pensando alla capacità di giudizio di Aaron quando si trattava di andare a letto con ragazze come sua madre. Una dote speciale di Embeth era quella che Jorge definiva «empatia negativa»: riusciva sempre a immaginare le cose peggiori che un’altra persona avrebbe potuto pensare.
Ruby mise l’iPad nello zainetto. «Mi ha chiesto se so cosa sono le elezioni. Lo so. Guardi che l’ho imparato anni fa. Da piccola. Mia mamma mi ha portato a Washington, a vedere Obama che prestava giuramento. So tutto delle elezioni. Ma non è il motivo per cui sono qui, anche se è il motivo per cui ho scoperto di mia mamma e suo marito.»
Embeth le chiese di spiegarsi.
«Mia mamma si è candidata a sindaco di Allison Springs. La cittadina dove abito. L’hanno chiamata così in onore del capitano Eliezer Allison, che era un grande capitano ma un pessimo marito e un pessimo padre. Non è interessante che le persone siano brave a fare certe cose e meno brave a farne altre?»
«Ma come hai scoperto dello scandalo?» Embeth cercava di nascondere la propria impazienza.
«L’avversario di mia mamma è Wes West, un agente immobiliare. Lui le ha sussurrato ’Aviva’ durante il dibattito, quindi ho cercato su Google alcune cosette e poi ho deciso di venire a Miami.»
«Questo Wes West sembra proprio un figlio di puttana.»
Ruby rise. «Mrs Morgan però dice che non si dovrebbe usare certi insulti sessisti che, oltre all’insultato, offendono anche certe povere donne sfruttate.»
«Chi è Mrs Morgan?» La soneria del telefono di Embeth squillò. Lei frugò nella borsa per trovarlo.
«È una donna che ormai è mia nemica. Ma perché pensa che Wes West sia un figlio di puttana?»
«Quando io e il membro del Congresso ci misuriamo con un avversario, decidiamo cosa usare contro di lui – o di lei, anche se di solito è un uomo – e cosa non usare. Non buttiamo lì una mezza cosa, mai, perché è da vigliacchi. Ed è quello che ha fatto Wes West quando le ha sussurrato ’Aviva’. L’ha fatto per infastidirla, per zittirla sul momento. Così si è dimostrato un candidato debole e indisciplinato, che probabilmente non sarebbe un buon sindaco, nemmeno in una cittadina insignificante come Allison Springs, senza offesa.» Embeth silenziò il telefono. «Cacchio. Tra una ventina di minuti devo essere a un pranzo e fare un discorso. E Aaron oggi è a Washington.»
La ragazzina assunse un’espressione disperata. «Avrei dovuto pensarci.»
«Torna stasera. Non è poi così terribile, è che non so cosa fare con te, nel frattempo.»
Ruby tirava un filo del polsino. «Posso venire con lei?»
«Sarà di una noia mortale.»
«Lo so, vado a un sacco di pranzi. Il pane è sempre vecchio, ma qualche volta l’insalata è commestibile. I piatti di solito non sono granché, tranne il dolce. Un buon dessert serve a farti dimenticare le schifezze che l’hanno preceduto.»
«Te l’ha insegnato tua mamma?»
Ruby fece spallucce.
«Vorrei proprio non doverci andare», disse Embeth.
«Che cosa farebbe, se potesse saltarlo?»
«Andrei al cinema. Mi comprerei una vasca di popcorn e chiamerei la mia amica Allegra e mi addormenterei subito dopo i trailer. Adoro dormire al cinema e sono mesi che non dormo molto. Ma non succederà. Okay, diciamo che vieni al pranzo. E se qualcuno mi chiede chi sei?»
«Dirò che la sto affiancando nell’ambito della Future Girls’ Leadership Initiative.»
«Complimenti per l’improvvisazione. Hai mai pensato di entrare in politica?»
«No. Non credo di essere portata. Di solito non piaccio alle persone. Alle persone della mia età, intendo.»
«Nemmeno io piaccio, di solito. Però a me tu piaci. Ti trovo molto gradevole, anche se ci siamo appena conosciute e se ho tutte le ragioni per non trovarti affatto gradevole, credimi. Questo significa che devi essere decisamente simpatica. Okay, vieni con me, ma prima dobbiamo chiamare una persona. La tua famiglia vorrà sapere che non sei morta. Hai il numero di tua nonna? Credo che abiti da queste parti.»
Ruby disse che non conosceva sua nonna.
«Non conosci Rachel Grossman?»
Ruby scosse la testa. «Non conosco nessuno dei Grossman. Non chiamerà mia mamma, vero?»
«Stai scherzando? Tua mamma è l’ultima persona al mondo con cui vorrei parlare.» Embeth lasciò un biglietto sulla scrivania di Tasha, chiedendole di recuperare il numero di Rachel Grossman.
Nel parcheggio della Allen Library, Embeth si disegnò le sopracciglia in fretta e furia.
«Una è un po’ troppo alta», le disse Ruby.
«Sta’ zitto, El Meté.»
«Scusi», disse Ruby, «volevo solo darle un consiglio.»
«Oddio. Non tu. Pensavo che l’avesse detto qualcun altro.»
«Qualcuno che si chiama El Meté. Bel nome. È spagnolo? M’interessano le lingue. Ho un’amica di penna indonesiana.»
Embeth cancellò il sopracciglio sinistro e lo ridisegnò. «Meglio?»
Ruby la guardò. «Meglio.» La fissò ancora per un istante. «Sembra che abbia inarcato un sopracciglio, come se disapprovasse, ma appena appena.»
«Mi si addice. Entriamo.»
«Il suo amico è un maschio? El è l’articolo determinativo maschile.»
«Non ne sono sicura.»
«Una mia professoressa è così.»
«’Così’ come?»
«Transgender.»
«No, non è niente del genere. Il mio amico è un pappagallo.»
«Wow, ha un pappagallo! Me lo fa conoscere?»
A quel punto erano arrivate all’ingresso e Jeanne, dell’associazione dei laureati dell’università di Embeth, stava andando loro incontro. «Buongiorno, Mrs Levin! La ringrazio molto per aver accettato il nostro invito.»
Jeanne: cardigan nero informe e vestito nero informe, talmente informe da costituire una specie di baluardo difensivo. Jeanne: capelli lunghi incolti, non tinti e intrisi di olio di cocco. Jeanne: comode ciabattone svedesi. Jeanne, che profumava di sapone costoso ma non usava mai profumo. Che spendeva e spandeva per occhiali di qualità e gite troppo care con l’associazione dei laureati. Che aveva due whippet o forse due gatti o forse allevava tartarughe. Che comprava solo cioccolato fair trade. Che era iscritta a un book club dove nessuno finiva mai di leggere i libri. Che per tenersi in forma preferibilmente nuotava. Che non portava jeans, solo pantaloni ampi di cotone bio. Jeanne, che ammirava il membro del Congresso, ma non l’avrebbe mai perdonato sino in fondo per quello che aveva fatto con la stagista. Embeth aveva conosciuto molte Jeanne. Quanto le invidiava.
«Jeanne, che piacere rivederla!» Era sempre meglio presupporre di essersi già conosciuti, sebbene, a dire il vero, Embeth non ricordasse di aver mai conosciuto quella Jeanne in particolare. Per qualche motivo, era meno offensivo essere ricordati erroneamente che essere dimenticati.
«Che giornata stupenda, quella», disse Jeanne.
«Davvero stupenda», concordò Embeth.
«E il clima!»
«Il clima!» Embeth rise.
«Il clima!» ripeté Ruby, poi si coprì la bocca con la mano. «Scusate. Da come ne stavate parlando, mi è sembrato quasi di esserci anch’io, quel giorno.»
Jeanne guardò Ruby. «E tu chi sei?»
«È la ragazza cui faccio da tutor per il programma...» Embeth se l’era scordato.
«Future Girls’ Leadership Initiative», le venne in soccorso Ruby.
«Sì, il FUGLI», aggiunse Embeth.
«Si chiama davvero così? Cioè, come ugly, ’brutte’?» chiese Jeanne. «Non mi sembra un granché.»
«Noi non lo pronunciamo così. Sarebbe effe-gi-elle-i», spiegò Ruby. «Ma il nostro motto, comunque, è: ’Accetta il brutto’. Troppe ragazze, da sempre, si lasciano inibire dalla paura di essere definite brutte e non realizzano il loro vero potenziale. Accettare il brutto è il nostro modo per dire che non c’importa se il mondo non ci trova attraenti. Siamo intelligenti e forti ed è questo che conta.» Ruby tese la mano, come una professionista, e Jeanne gliela strinse.
«Una ragazza davvero notevole», disse.
Che onore essere qui con voi oggi...
Con minime modifiche, il discorso di Embeth era lo stesso da quindici anni. Ormai lo recitava senza appunti. Avrebbe potuto recitarlo nella posizione del cane a testa in giù. O mentre faceva l’amore con suo marito, cosa che accadeva di rado, del resto. Le veniva richiesto di tenere quel discorso molto più spesso di quanto non le venisse richiesto di fare l’amore con Aaron.
... mai pensato di non lavorare. Mio padre era il re dello storione di Millburn, in New Jersey. Mia madre gettava ponti. Letteralmente, perché era ingegnere civile. [Pausa per le risate.]
Si godette quel momento di tranquillità e di solitudine sul podio. Sola, ma in mezzo alla gente. Guardò il pubblico, un mare di colori neutri e informi, e si domandò quante di quelle donne amassero i loro mariti quanto lei amava Aaron. Sì, l’ironia delle ironie! Embeth amava Aaron.
... sono orgogliosa di essere stata una madre lavoratrice. È interessante l’espressione «madre lavoratrice». «Lavoratrice» diventa l’aggettivo del sostantivo «madre». Non diciamo «madre e lavoratrice» e nemmeno «lavoratrice madre»... Ci si aspetta che l’enfasi sia tutta sul ruolo di madre, a discapito della professionalità. Io ero orgogliosa dei miei figli, ma lo ero altrettanto del mio lavoro...
Quante persone l’avevano definito un «matrimonio politico», negli anni? Sì, era un matrimonio politico, ma non significava che non lo amasse. Si domandò quante di loro erano state tradite. Si domandò quante di loro avevano perdonato i mariti dopo il tradimento.
... spesso il primo argomento cui si pensa è il diritto di scelta delle donne, contrapposto all’aggressione sessuale, ma secondo me la questione femminile più importante è il divario di retribuzione. Credo che sia la questione fondamentale, da cui scaturiscono tutte le altre forme d’ineguaglianza...
La verità era che essere tradita non era stato terribile. Il colpo più duro era stato l’aspetto pubblico del tradimento. Era stato fare la parte della donna che aveva subito un’ingiustizia, perché non le si addiceva. Era stato rimanergli accanto, remissiva, quando aveva chiesto scusa. Era stato capire da che parte guardare e scegliere la giacca giusta. Quale giacca avrebbe detto «sostegno», «femminismo», «tenacia», «ottimismo»? Esisteva una stramaledetta giacca che potesse dare quel messaggio? Ancora dopo anni, si domandava se l’avessero giudicata per essere rimasta con lui dopo l’Avivagate.
... Ma conoscete tutte le statistiche...
Si domandò se il maglioncino di cashmere leggero che aveva adocchiato da J.Crew fosse ancora in saldo.
Si domandò se le sopracciglia le stessero colando.
Si domandò cosa fare con Ruby.
... orgogliosi di avere dei figli maschi. Sono giovani eccezionali, solidi, da tutti i punti di vista. E non lo dico perché sono figli miei. [Pausa per le risate.] Ma credo davvero che meritino il venti per cento in più di una giovane donna ugualmente qualificata? No, non lo credo!
La ragazzina le piaceva, ma sapeva di non poterla presentare ad Aaron quel giorno, né quella settimana, né quel mese. Aaron doveva restare concentrato. La cosa migliore da fare sarebbe stata spedire la ragazzina dalla nonna, da quella cretina di Rachel Grossman. Con un po’ di fortuna, Tasha doveva aver trovato il suo numero, ormai.
... La vera convinzione è continuare a credere che una cosa sia giusta anche quando non ti conviene più. L’ho sempre detto ai miei figli. L’ho sempre...
E quindi Aviva Grossman si era candidata a sindaco? Da un certo punto di vista, bisognava ammirarla per la sua chutzpah. Embeth non pensava a lei da anni, non al tempo presente.
... come madre, il mio più grande successo sarebbe aver cresciuto dei figli femministi...
Quando pensava ad Aviva, la vedeva imprigionata in un eterno 2001. Eterna ventiduenne, eterna troietta in cerca di attenzione. Non l’aveva immaginata madre e men che meno candidata a una carica pubblica.
... Prima di essere madre, ero una donna. Prima di diventare la moglie di un uomo politico, ero già femminista. Prima di...
Le era bastata un’occhiata per capire che quella ragazza non prometteva nulla di buono. La prima cosa di lei che le tornava in mente era la bocca. Una bocca grande, leggermente imbronciata. Un rossetto rosso che era un pugno in un occhio. Aveva in mano una lattina di Coca light con l’impronta del rossetto. Le curve che tendevano le cuciture del tailleur di buona qualità acquistato in saldo. Molte stagiste, del resto, si vestivano così. Il loro guardaroba professionale veniva da sorelle maggiori, madri, amiche, vicine di casa, e lo rivelava il fatto che non calzava mai a pennello.
Però non poteva essere quella la prima volta che l’aveva vista. Erano state vicine di casa.
Applausi.
Gli applausi indicavano che il discorso era terminato. Jeanne ringraziò Embeth e chiese se c’erano domande. Perché Embeth aveva accettato di rispondere alle domande? L’unica cosa che avrebbe voluto fare era un pisolino.
Si alzò una donna con un cardigan grigio informe e informi pantaloni grigi. Sempre quei vestiti, pensò Embeth. Erano tutte vestite come se stessero andando a un funerale in un manicomio. Infatti anche Embeth si vestiva così.
La donna in grigio chiese: «A sentirla parlare, lei sembra una donna intelligentissima. Quando si candiderà? Non possono esserci due politici nella stessa famiglia?»
Embeth fece la sua risata ufficiale. E, dentro di sé, una battuta privata: Magari ci sono già due politici, in famiglia.
Una volta, tanto tempo prima, una domanda così l’avrebbe lusingata. Una volta covava ambizioni di quel tipo. Ardentemente. Aveva spronato Aaron e poi, quando lui aveva sfondato, si era risentita. Come moglie, comunque, di politica aveva fatto il pieno. Anche perché in politica non c’era lavoro peggiore di quello della moglie. Non c’era lavoro meno pagato – perché non veniva pagato affatto – e più impegnativo. Nel pieno dell’Avivagate aveva preso parte a un panel sul traffico di esseri umani, organizzato da donne impegnate in politica. Avevano una presentazione in PowerPoint con un questionario per stabilire se la persona intervistata fosse una vittima. Le domande del questionario erano: 1) Vieni pagata per il lavoro che svolgi? 2) Non sei mai sola? 3) Capita che gli altri rispondano alle domande al posto tuo? 4) Puoi uscire di casa quando vuoi? Eccetera. In base alle sue risposte, Embeth aveva stabilito che probabilmente era vittima di un traffico di esseri umani.
«Non sono Hillary Clinton», disse al suo pubblico. «Non potrei sopportare un’altra elezione. Non ho desiderio di viaggiare. Di questi tempi i miei interessi non si estendono oltre i confini domestici. Tra parentesi, voterò per lei. Per chi altro potrei votare?»
La biblioteca non aveva un «dietro le quinte», quindi gli effetti personali di Embeth erano stati messi in un ufficio che puzzava di muffa. Non appena riaccese il telefono, arrivò una chiamata di Jorge.
«Com’è andato il discorso, bellezza?» le chiese.
«Bene. E la votazione?»
«È ancora in corso. Arriverà in ritardo, ma solo di un’oretta.»
«Sconvolgente. Ricordami ancora perché abbiamo organizzato questa festa.»
«Dovrà venire direttamente in hotel dall’aeroporto, quindi per piacere prendigli lo smoking. Io torno col volo che avevamo prenotato», disse Jorge.
«Perché?» Jorge e Aaron di solito viaggiavano insieme.
«Non c’è motivo di pagare due volte il sovrapprezzo per cambiare volo. E poi non voglio perdermi l’inizio della festa. Ma soprattutto vorrei un attimo per parlarti da solo, se puoi.»
Embeth sapeva di cosa si trattava. La settimana dopo si votava e Jorge voleva lasciarli. Embeth sapeva che era il momento – era con loro da quasi vent’anni; nessuno era stato più fedele ad Aaron – eppure temeva un mondo post Jorge. Sapeva che ci sarebbe stato un nuovo Jorge, ma era terrorizzata all’idea di aprire la sua cerchia ristretta a un estraneo.
«La ragazza è con te?» chiese Jorge, a bassa voce.
«Sì, sta mangiando.»
«Com’è?»
«Ha tredici anni. È una ragazzina. Ha i capelli ricci e gli occhi chiari. Parla in continuazione. Non mi sembra una bugiarda e non mi ricorda Aviva.»
«Grazie, Em. Sei una roccia a occuparti di lei, e per di più il giorno del vostro anniversario. Non riesco a immaginare cosa voglia dire per te.»
«Ma sì, sono una roccia», disse, stanca.
«Roccia! Roccia!» disse El Meté.
«In realtà non mi dispiace avere compagnia. L’hai detto ad Aaron?» chiese Embeth.
«Non ancora. Vuoi che lo faccia?»
«No, aspettiamo di vedere di cosa si tratta veramente. Perché turbarlo, se poi non è nulla?»
Un’altra chiamata in arrivo.
«Devo rispondere», disse Embeth. «È Aaron.»
«Come sta andando la giornata?» le chiese Aaron.
«Bene.»
«Qualche bella novità da raccontarmi?»
«Ci hanno spedito un angelo», gli disse Embeth. «Una specie di angioletto ebraico effemminato e incredibilmente kitsch. Immagino che sia un regalo di anniversario, ma non so da parte di chi.»
«Che strano.»
Un’altra telefonata. Tasha.
«Devo rispondere», disse Embeth ad Aaron.
«Tanto devo tornare dentro. Volevo solo sentire la tua voce. Ti amo, Em.»
«Anch’io.» Embeth passò a Tasha.
Tasha disse che aveva trovato il numero di Rachel Grossman. «Adesso si chiama Rachel Shapiro.»
Embeth agganciò e digitò il numero di Rachel Shapiro, ma non premette il tasto per chiamarla. Mise il telefono in borsa e andò a cercare Ruby.
Ruby stava parlando con Jeanne.
«Caspita, Embeth, il programma FUGLI sembra fantastico!» disse Jeanne. «Ruby me lo stava raccontando. Ho una nipote che sarebbe la candidata perfetta.»
«L’anno prossimo non si fa più», disse Ruby.
«Mancanza di fondi», spiegò Embeth, con un’espressione esageratamente triste.
«Magari posso aiutarvi, in questo senso», propose Jeanne. «Metto a disposizione le mie competenze, senza scopo di lucro.»
«Allora mi mandi senz’altro un’email», disse Embeth.
Le donne la ringraziarono per il suo discorso ed Embeth si prodigò in tanti «prego» che le bruciava la gola e le faceva male la faccia per il troppo sorridere. Se il discorso piaceva, per riuscire ad andarsene ci voleva sempre più di quanto pensasse. Qualcuno voleva una foto. Qualcuno voleva raccontarle una storia su sua madre. Qualcuno piangeva. Qualcuno la invitava a cena. Qualcuno le metteva in mano un biglietto da visita. Qualcuno si domandava se i suoi figli fossero sposati. Le poche centinaia di metri di distanza tra la sala e il parcheggio duravano un’ora. Embeth non poteva essere brusca, perché dopotutto aveva bisogno che quelle donne votassero per Aaron.
Quando Embeth e Ruby arrivarono alla macchina, Embeth era esausta. Non era timida, ma neppure estroversa di natura.
«Ruby, ho pensato una cosa», disse. «E se per oggi ci prendessimo la giornata libera? In fondo, è la prima volta che vieni a Miami. Facciamo qualcosa. Ti piace andare in spiaggia?»
«No.»
«Neppure a me. Lo dicevo solo perché di solito alla gente piace andarci, quando viene in Florida.»
«Sarà che io sono un po’ sfigata.»
«Pure io», disse Embeth. «Allora cosa vuoi fare?»
«Conoscere il suo pappagallo. Non ho mai conosciuto un uccello parlante.»
«El Meté è timido. Non sempre si fa vedere.»
«Okay... allora perché non andiamo al cinema?»
«Non dirlo solo perché pensi che io ne abbia voglia.»
«È il motivo per cui mi è venuto in mente. Ma anche a me va di andarci. Mrs Morgan dice che una donna non dovrebbe mai accontentare gli altri a discapito dei propri desideri.»
«Mrs Morgan ha ragione.» Embeth mise in moto.
L’unico film che proiettavano a un orario adatto era un film di supereroi. Comprarono i popcorn più grandi e la bibita più grande. Embeth si addormentò addirittura prima che finissero i trailer. Fece uno strano sogno. Era un albero enorme con molti rami, forse una quercia, e i tagliaboschi stavano cercando di tirarla giù. Avrebbe dovuto essere terrorizzata all’idea, invece non lo era. Era quasi piacevole. Quasi come un massaggio. La sensazione di essere intaccata da minuscole accette. La sensazione di essere abbattuta.
Al termine del film, Ruby la scosse. «Cosa mi sono persa?» chiese Embeth.
«Hanno salvato il mondo.»
«Sospettavo che sarebbe finita così.»
Quando uscirono dalla sala, nell’atrio c’era un poliziotto in pantaloncini attillati, con le gambe abbronzate ricoperte da un tappeto di peli neri e ricci. Cercando di non essere indiscreta, ma con un entusiasmo da mattina di Natale, Ruby osservò: «In Florida i poliziotti hanno i pantaloni corti!»
«Esatto», disse Embeth.
L’agente stava mostrando al direttore una foto sul suo telefono.
Il direttore indicò Ruby. «È lei!»
Ruby indietreggiò.
«Sei Ruby Young?» le chiese l’agente.
«Pensavo che ti chiamassi Grossman», disse Embeth.
«Sì, ma mia mamma ha cambiato nome», replicò Ruby.
«Tua mamma è molto preoccupata per te», disse il poliziotto.
«Come ha fatto a trovarmi? Ho spento il telefono.»
«Ti ha rintracciato usando Find My iPad.»
«Esiste una cosa che si chiama Find My iPad? Ma è...» Ruby scagliò quel che restava dei suoi popcorn contro il poliziotto e si mise a correre. Solo che, invece di correre fuori, si diresse verso il bagno.
Embeth e l’agente la seguirono. L’agente si toglieva i popcorn dai capelli. «Lei che ruolo ha in tutto questo?»
«Io non sono nessuno», disse Embeth. «Sono irrilevante.»
«Lei è l’adulta che si trova con la bambina scomparsa», ribatté il poliziotto. «Io non lo definirei ’irrilevante’.»
«Non sono una pervertita. Mi chiamo Embeth Bart Levin. Sono un’avvocato e mio marito è il membro del Congresso Levin. Questa ragazza è venuta nell’ufficio di mio marito perché desiderava incontrarlo, ma lui è a Washington fino a stasera.»
«E allora lei ha portato una ragazzina di tredici anni al cinema?» fece il poliziotto. «È così che fate coi ragazzini che si presentano in ufficio?»
«Se la mette in questi termini, la fa sembrare una cosa ignobile, ma non lo è affatto. Ruby è un’amica di famiglia.»
«Perché non me l’ha detto prima?»
«Abbiamo appena cominciato a parlare», disse Embeth. «Ruby è la nipote di una mia ex vicina di casa. Rachel Shapiro. La chiami pure, se le sembra il caso.»
«Lo farò.»
Erano arrivati alla toilette. «Vado dentro», disse l’agente. «Lei aspetti qui.»
«Vuole entrare nel bagno delle signore?»
L’agente restò interdetto. «Non è illegale, siamo sulla scena di un crimine.»
Embeth alzò gli occhi al cielo. «Lasci entrare me, prima. Sul serio, a Ruby piaccio. La convincerò a consegnarsi. Perché fare una scenata?» Entrò nella toilette. Non si vedevano gambe sotto nessuna delle porte. «Dai, Ruby, vieni fuori. È finita. Lo so che sei su un water. Non farmi toccare tutte le porte. I bagni pubblici sono i posti più sporchi della Terra e io sono immunocompromessa.»
«Non posso uscire. Non ho ancora incontrato il membro del Congresso.»
«Be’... hai incontrato me. Siamo diventate amiche e questo significa che potrai conoscere mio marito più tardi. Posso fare in modo che avvenga. Ma devi andare col poliziotto.»
«Come fa a sapere che sono su un water?»
«Perché ho passato buona parte della mia vita a nascondermi nei bagni, okay? E l’unico modo per farlo è salire sulla tazza e accovacciarsi.»
«E da chi si nasconde?»
«Oh, Cristo. Da tutti. Dai finanziatori. Dallo staff di mio marito. Anche da mio marito, qualche volta. Da tutti. Li odio tutti, nessuno escluso.»
La porta si aprì di scatto. Ruby aveva il viso appiccicoso di lacrime. «Non ho conosciuto nemmeno El Meté.»
«Ruby, se ti confesso un segreto su El Meté, farai una cosa per me?»
«Forse.»
«Brava. Mai acconsentire a fare una cosa prima di sapere cos’è.»
«COME VA LÌ DENTRO?» gridò il poliziotto.
«UN ATTIMO», rispose Embeth. «Ti dico cosa mi serve che tu faccia e poi ti dirò il segreto su El Meté, okay?» si affrettò a dire. «È una cosa che non ho mai detto a nessuno.»
Ruby annuì.
«Ti ricordi che la settimana prossima si va a votare? Ho bisogno che tu non dica alla polizia che il membro del Congresso potrebbe essere tuo padre. Non sappiamo ancora per certo se lo è. Tua mamma non te l’ha detto chiaro e tondo. E, se salta fuori che sei venuta qui, potremmo trovarci in un mare di guai, sia lui sia io. Puoi farlo? Mi faresti un enorme favore.»
Ruby annuì di nuovo. «Lo capisco. Allora cosa devo dire?»
«Che sei venuta in Florida per conoscere tua nonna, Rachel Shapiro.»
«Okay, adesso basta! Andiamo, Ruby.» Il poliziotto entrò e mise la mano sulla spalla di Ruby.
Ruby si sottrasse.
«Qual è il segreto su El Meté?» chiese a Embeth.
«Sono sicura al novantatré per cento che non sia reale.»
«Non fa niente», disse Ruby. «Io avevo un amico che era una lampada.»
L’agente si rivolse a Embeth. «Con lei non ho finito. Andiamo tutti quanti in centrale.»
Embeth avrebbe potuto obiettare – discutere era il suo forte – ma una discussione sarebbe potuta risultare in un arresto, cioè l’ultima cosa che sarebbe servita ad Aaron.
Portarono Ruby nell’ufficio del poliziotto ed Embeth rimase nella sala d’attesa. Chiamò Jorge ma partì subito la segreteria. «Jorge, sono alla stazione di polizia. Potrebbe essere che arrivi tardi alla festa. È una storia lunga. Puoi prendere tu lo smoking di Aaron da casa? E, se c’è Margarita, falle scegliere un vestito dal mio armadio. Altrimenti prendimi tu quello che ti sembra adatto. Purché non sia blu. Il blu non me lo voglio più mettere. Ho bisogno che mi porti anche la parrucca. Oggi non ho avuto tempo di andare dal parrucchiere. Ci vediamo alla festa.»
L’agente uscì dall’ufficio e si avvicinò a Embeth. «È libera di andare.»
«Come mai?»
«La madre, Jane, ha garantito per lei. Verrà la nonna a prendere la ragazzina.» L’agente sembrava vagamente incredulo. «In futuro, eviterei d’improvvisare uscite con una tredicenne, senza prima chiedere conferma ai genitori.»
«Vorrei parlare con Ruby», disse Embeth.
«Prego.»
Embeth entrò nell’ufficio. «Allora dobbiamo salutarci. Preferirei squagliarmela prima che arrivi tua nonna.»
«Ma non ho ancora conosciuto il membro del Congresso!» sussurrò Ruby, pressante.
«Lo so. Mi dispiace. Gli ho appena parlato. Il suo aereo è in ritardo e stasera abbiamo la festa del nostro anniversario. Siamo sposati da trent’anni. Lo sapevi?»
«E dopo la festa?»
«La festa non finirà prima di mezzanotte. Magari domani pomeriggio?»
«Mia mamma mi ha prenotato un volo domani mattina! Sono nei guai fino al collo e ho speso metà dei miei risparmi e non ho fatto quello per cui sono venuta.»
Embeth assunse un’espressione triste. «Mi dispiace, Ruby. Per noi è una settimana impegnativa.»
Ruby si mise a piangere, lacrime mocciose. «Non me l’avrebbe mai fatto conoscere, vero?»
«Sinceramente... Non lo so. Prima avrei dovuto parlarne con lui.»
«Se dicessi alla polizia che mi ha rapito, il membro del Congresso dovrebbe venire a prenderla.»
«Ti prego di non farlo.»
«Se dicessi che lei è una pervertita...»
«Ruby!»
«Non lo farei sul serio. Volevo solo incontrarlo. Volevo solo vederlo coi miei occhi.» Ruby si chinò in avanti, appoggiò la testa sulle ginocchia. «Tutti mi odiano. Se fossi stata imparentata con lui, almeno sarei stata qualcuno e magari non mi avrebbero più odiato così tanto.»
«Ruby, non è così che funziona, nella vita. Io sono sposata con lui e tutti lo adorano, invece sembra che io non piaccia mai a nessuno.»
«Mia mamma mi ha detto che non è mio papà. Mi ha detto che è stato un rapporto occasionale. Insomma, che l’ha fatto una...»
«Grazie, ho capito. Ruby, tua mamma ha ragione. Me l’ha detto anche il membro del Congresso. Non è tuo padre e, mi dispiace dirtelo, ma non ha voglia d’incontrarti.»
Ruby annuì solennemente. «Ma pensavo di somigliargli. Lui mi somiglia tanto. Deve essere vero.»
El Meté entrò dalla finestra aperta e si posò sulla spalla di Embeth. «Vero! Vero!» disse.
«Sstt!» fece Embeth.
«Festa! Festa!» disse El Meté.
«Ma vuoi stare zitto?»
«È qui, vero?» chiese Ruby. «El Meté.»
Il pappagallo volò da Ruby e si posò sul suo avambraccio.
«Lo vedi?» chiese Embeth.
«No, ma sento che c’è. Di che colore ha le piume?»
«Ha la testa rossa e il corpo e le ali verdi, ma la punta delle ali è blu. Ha gli occhi verdi e il becco rosato. È molto bello ma un pochino vanitoso.»
El Meté strofinò il becco sul petto di Ruby.
«Mi piacerebbe vederlo», disse lei.
«A me piacerebbe non vederlo», disse Embeth.
«Secondo lei cosa significa?»
«Cerco di non pensarci, a cosa significa. Probabilmente che sono pazza o troppo sola o entrambe le cose.»
L’agente rientrò nell’ufficio. «Fuori c’è tua nonna.»
Ruby si asciugò gli occhi con la manica. «Lei la conosce», disse a Embeth. «Può fare le presentazioni?»
«Non siamo quel che si dice ’grandi amiche’», rispose Embeth.
Nella sala d’attesa, Rachel ex Grossman era insieme con la sua amica Roz Horowitz. Rachel, che era una dura come poche, aveva le lacrime agli occhi. A quelle due non sono mai piaciuta, pensò Embeth. Ma forse l’idea di non piacere alla gente era frutto della sua immaginazione, come El Meté? Embeth sfoderò il suo miglior sorriso da moglie di politico. «Roz! Rachel! È meraviglioso rivedervi. Vi presento la mia amica, Miss Ruby Young.»
Ruby si fece avanti a testa alta, le spalle dritte. «Ciao.» Strizzò la mano di Embeth e le sussurrò: «FUGLI per sempre».
Embeth prese un Uber per andare all’hotel dove avevano organizzato la festa. Avrebbe recuperato la macchina nel parcheggio del cinema la mattina dopo. Il conducente sbirciò nello specchietto retrovisore. «Lei ha un’aria familiare», le disse.
«Me lo dicono in tanti. Ho un viso comune.»
Il conducente annuì. «Sì, però lei è qualcuno, vero?»
«Non direi.» Embeth controllò il telefono.
Un messaggio di Jorge diceva: NON PREOCCUPARTI. SONO PER STRADA E HO PRESO TUTTO. CI VEDIAMO ALL’HOTEL. Si sentì sufficientemente rassicurata da fare conversazione col conducente. Aveva appena letto che pure i conducenti valutavano i passeggeri, il che le sembrava ridicolo. Lei cercava sempre di essere gentile con camerieri, autisti, eccetera, ma non sempre era dell’umore per dare spettacolo. Possibile che tutto e tutti, che ogni azione necessitasse di una recensione? «Non sono qualcuno, ma sono sposata con qualcuno», disse.
«Ah, sì? Non mi lasci col fiato sospeso.»
«Mio marito è il membro del Congresso Levin. Del ventiseiesimo distretto della Florida.»
«Non seguo la politica. È al Congresso da tanto?»
«Dieci mandati. Quest’anno si ricandida e una delle sue priorità è assicurarsi che Uber paghi i contributi per tutti i suoi autisti.»
«Non sono registrato nelle liste elettorali. Non m’interessa chi viene eletto.» Il conducente ricontrollò nello specchietto. «Non era per quello che mi ricordava qualcuno. Somiglia alla sorella della mia ex moglie. Una grandissima stronza, ma a letto era una bomba.»
Embeth rimase senza parole. Si aspettava che lo ringraziasse? Valutò di fargli un predicozzo sul linguaggio e sugli argomenti appropriati in presenza di una cliente, una signora, che nemmeno conosceva. Personalmente, non le aveva fatto né caldo né freddo, ma non le piaceva l’idea che qualcuno come Ruby fosse esposto a tanta superficiale misoginia. Alla fin fine, però, era stata una lunga giornata ed era più facile guardare il telefono per i dodici minuti successivi che misurarsi con un autista in carne e ossa. Quando arrivò a destinazione, gli diede una stellina.
Jorge la aspettava davanti all’hotel, dove i taxi scaricavano i clienti. Lo vide, in piedi sotto una palma, con in mano una borsa porta abiti, e si faceva notare perché con lo smoking non sudava affatto.
«Non è ancora arrivato nessuno», le disse. «Hai tutto il tempo per cambiarti.»
«Aaron sta arrivando?»
«Il volo è in ritardo. Dovrebbe essere qui alle nove e mezzo.»
«Un’ora e mezzo di ritardo? Niente male», commentò Embeth. «Ma come fai a non sudare mai?»
«Ma sì che sudo. Dentro sono pieno di tossine e di rabbia.»
Salirono nella stanza di Embeth, che andò in bagno a truccarsi, dedicando particolare attenzione alle sopracciglia. Gridò a Jorge: «Mi hai preso lo Spanx modellante?»
«Non ti serve. Metti i collant e basta.»
«L’intimo giusto è tutto, Jorge.» Embeth si tirò su i collant, che non erano proprio la stessa cosa dello Spanx, ma bisognava accontentarsi. Si mise la parrucca come se fosse un cappello. Poi indossò un abito nero di jersey che lasciava scoperte le spalle. «Ce l’ho da una vita, questo vestito», gli gridò.
«È tornato di moda.» Quelle cose lui le sapeva sempre. «È una ruota che gira.»
Si mise una collana di oro bianco che Aaron le aveva regalato per chissà quale ricorrenza e un paio di scarpe tacco cinque, il meglio che potesse fare, di questi tempi. Si guardò allo specchio.
A parte aver tralasciato un accessorio intimo essenziale, Jorge aveva fatto un buon lavoro mettendo insieme quell’accostamento. Su di lui si poteva sempre contare, per qualsiasi cosa.
Quando uscì dal bagno, lo trovò addormentato sul letto, russava. Si commosse guardando il suo viso pacifico. Le ricordò Aaron, solo che lui era meglio di Aaron. Era meglio di Aaron perché non l’aveva mai delusa. Quanto le sarebbe mancato!
Lo svegliò con delicatezza. «Sono pronta.»
«Scusami!» esclamò Jorge. «Mi sono appisolato.»
«Volevi parlarmi? Direi che abbiamo ancora qualche minuto.»
«Sì. Sono ancora mezzo addormentato. Un secondo.» Si mise seduto. Il sonno lo faceva sembrare più giovane e quasi ritroso. «Non è facile dirlo...»
«Posso aiutarti?» intervenne Embeth. «Dopo le elezioni, vuoi lasciarci. È ora, Jorge. È ora che ti candidi a tua volta. È ora che sfondi nel settore privato, se è quello che desideri. È ora che tu abbia qualcosa di tuo. Ci mancherai, ma ti appoggeremo sempre. Ti aiuteremo a trovare i fondi per una candidatura. Terremo comizi in tuo favore. Ti aiuteremo a reclutare lo staff. Per noi sei come un figlio. Sono certa che lo sai.»
«Em, sei molto buona, ma non è...»
«È assolutamente necessario. Nessuno è stato più fedele ad Aaron di te.» Embeth si sentiva sempre in imbarazzo ad abbracciare le persone, ma tirò a sé quell’uomo ancora ragazzo. «C’era altro?»
«Com’è andata con la ragazzina? Come si chiama? Ruby!»
«Oh, bene. Non credo che Aaron sia il padre. Ruby – sì, si chiama così – avrebbe voluto che lo fosse, ma Aviva ha detto che è stato un rapporto occasionale. Nulla di cui preoccuparsi, insomma.»
Era una festa sostanzialmente caratterizzata dalla negazione. Duecentocinquanta ospiti, perché era il numero minimo di persone che si potessero invitare senza offendere nessuno. Uno chef acclamato aveva preparato piatti di spume, perché era la stagione delle spume, la stagione del sapore senza sostanza. Nessuno avrebbe stramangiato e tutti sarebbero andati a casa affamati. Un DJ, perché un DJ era kitsch, ma le cover suonate male lo erano anche di più. Centrotavola fatti di erbe aromatiche e piante succulente, perché Embeth non voleva morti superflue, nemmeno se si trattava di un fiore.
Era una festa. Indistinguibile da un evento di raccolta fondi, se non per il fatto che Aaron – Embeth ne era certa – sarebbe riuscito ad arrivare meno in ritardo se ad aspettarlo ci fosse stato un salone pieno di libretti di assegni.
Ovviamente erano presenti anche alcuni dei suoi finanziatori. I più leali e prodighi, avevano dovuto invitarli. L’assurdità più grande era aver pensato che Embeth e Aaron potessero dare una festa senza di loro. Quale amico migliore di un finanziatore leale?
«So che è la tua serata libera e mi dispiace chiedertelo, ma ti va di andare a parlare con gli Altschuler?» disse Jorge. «Mi sembrano inquieti.»
Embeth raggiunse gli inquieti Altschuler. «Embeth», disse Mrs Altschuler. «Stai una meraviglia. Che serata spettacolare.»
«C’è stato un momento in cui abbiamo pensato che voi due non ce l’avreste fatta», disse Mr Altschuler.
«Jared!» lo sgridò sua moglie.
«Cosa c’è? Non c’è niente di male a dirlo. Il matrimonio non è per i deboli e per i pavidi. Emmy lo sa benissimo.»
«Infatti», disse Embeth.
Di punto in bianco Molly, la coordinatrice dell’evento, fu accanto a Embeth e le prese la mano con urgenza. Le sue abilità speciali erano l’invisibilità e l’attacco a sorpresa. «Non possiamo proprio rimandare ulteriormente la cena», sussurrò. «Chef José sta delirando.»
«Scusatemi», disse Embeth agli Altschuler. «Lo chef sta delirando.» Baciò Mrs Altschuler sulla guancia. «V’inviteremo presto.»
Servirono la cena. Ma, ogni volta che Embeth stava per sedersi a tavola, Jorge le chiedeva di dire due parole a un ospite, sempre diverso. Quand’ebbe finito il giro, tutte le spume magiche di chef José erano sparite e le avevano portato via anche il piatto.
Chef José passò a sincerarsi che il cibo le fosse piaciuto.
«Straordinario», gli disse. «La ringrazio moltissimo per quello che ha fatto. È stato troppo buono con noi.»
«Per il membro del Congresso, questo e altro. Mi è dispiaciuto solo che non abbia potuto assaggiare nulla.»
«Il voto. Non si poteva evitare», disse Embeth, per la centesima volta quella sera. «Gli riferirò senz’altro quanto era delizioso. Si pentirà di esserselo perso.»
«Glielo descriva nel dettaglio. Lo faccia soffrire», disse lo chef. «Qual è stata la parte che ha preferito?»
«La spuma.»
«Quale?» insistette lo chef.
«La mia era vaniglia e wasabi», disse Molly, improvvisamente ricomparsa al fianco di Embeth. «Embeth, so che il taglio della torta doveva essere un momento importante, ma secondo me dovremmo servirla. Lei e il membro del Congresso potrete fare un brindisi con lo champagne, prima di aprire le danze.»
«E che torta sia!» disse Embeth.
Alle nove e mezzo, orario stimato del suo arrivo (tenuto conto del ritardo), Aaron non c’era ancora, quindi non restava altra scelta se non dare inizio alle danze. Alle 21:33 mandò un messaggio febbrile, pieno di errori di battitura, in cui diceva che l’aereo era atterrato e che in appena tre quarti d’ora sarebbe arrivato. Molly disse a Embeth che bisognava rivedere ancora il programma. Si stava facendo tardi ed Embeth avrebbe dovuto fare un discorso.
«Sembrerà una stranezza», disse Embeth. «Festeggiamo il nostro anniversario, e io sono l’unica a parlare?»
«Non appena arriva suo marito, diremo al DJ di mettere la vostra canzone e libereremo la pista da ballo per voi. A proposito, avete deciso una canzone? Ho pronta Stand By Your Man.»
«Molly, era solo uno scherzo tra me e Jorge.»
«Lo so. Che canzone?»
«Crazy Love di Van Morrison. Sì, siamo vecchi.»
Molly mandò un messaggio al DJ.
Con discrezione, Embeth infilò il dito sotto la parrucca e si grattò la nuca. «Comunque sono convinta che sembrerà strano, se faccio un discorso da sola.»
Molly le versò un bicchiere di champagne. «È il mio lavoro, quindi si fidi di me. Niente è strano se non è il festeggiato a farlo sembrare tale. Ma lei lo sa meglio di me.»
«Vorrei fare la mia uscita con la canzone It’s My Party (and I’ll Cry If I Want To).»
«Ironia. È chiaro. Ci penso io.»
«Ma come si arriva a lavorare nel suo settore?» le chiese Embeth.
Sul momento, Molly sembrò confusa dalla domanda personale.
«Conosco una ragazza che organizza eventi e mi domandavo come si facesse a entrare nel settore.»
«Io ho studiato management alberghiero alla Cornell», disse Molly. «Adesso devo andare a parlare col DJ.»
Embeth fece la sua entrata sui lamentosi gemiti adolescenziali di Lesley Gore, con una camminata danzante. Una specie di chachacha aerobico ma mal riuscito. Cercava di sembrare spigliata. Di sembrare come se non gliene fregasse più un cazzo di niente. El Meté era sulla sua spalla ma stava buono e zitto. Il volume della musica si abbassò e il DJ annunciò che Mrs Levin avrebbe detto due parole.
Embeth guardò gli invitati. Era buio, non riusciva a distinguere Allegra, né Margarita, Jorge o il dottor Hui. E nemmeno gli altri. «Mi dicono che Aaron sarà qui da un momento all’altro. Cosa volete, è il destino delle mogli dei politici. Tuo marito sta sempre arrivando ma di fatto non arriva mai...»
Il pubblico rise di cuore alla battuta che non era una battuta.
Un attimo dopo, magicamente, la folla degli invitati si divise in due. Aaron percorse quel corridoio come Mosè che separava le acque del mar Rosso.
«Sono qui», gridò. I suoi riccioli grigi sobbalzavano elastici sotto il riflettore. «Sono qui, Embeth Bart Levin, amore della mia vita!»
Il pubblico esplose in un coro di «oooh».
Embeth sorrideva a tutti denti, instupidita. Quanto era bello, ancora. Quante cose era disposta a perdonargli. Quanto amava quell’uomo.
E forse, in fondo, il senso della sua vita era tutto lì. Per lui aveva mentito, ingannato, ingoiato la polvere, aveva chiuso entrambi gli occhi. L’aveva protetto dalle sgradevolezze quando aveva potuto. L’aveva protetto da Ruby, Distruttrice di mondi. Se avessero scritto il Libro di Embeth, l’unica cosa da dire era che aveva amato Aaron Levin come nessun’altra avrebbe potuto amarlo.
Finalmente arrivò anche lui al microfono. Le strinse la mano. Si chinò verso di lei ed El Meté volò via. La baciò e le sussurrò all’orecchio: «Cosa mi sono perso?»