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Abito in un quadrilocale sulla spiaggia. Si sente il rumore dell’oceano e tutto è come piace a me, che poi è l’aspetto migliore di vivere da soli. Anche se sei sposata con un medico che sta fuori la maggior parte del tempo, vorrà comunque dire la sua sull’arredamento. E avrà opinioni tipo: Forse preferirei un letto più mascolino, e: Tende scure, per forza, sai che orari faccio, e: Carino, senza dubbio, ma non si sporca facilmente? Invece adesso ho un divano bianco, tende bianche, piumone bianco, ripiani bianchi, vestiti bianchi, è tutto bianco e, no, non si sporca, perché ci sto molto attenta. Ho comprato quando il mercato era al minimo – con gli immobili, se non altro, sono sempre stata fortunata – e l’appartamento vale il triplo di quanto l’ho pagato. Se lo vendessi farei il botto, ma sinceramente: dove dovrei andare? Ditemelo voi, dove dovrei andare!

Quando ancora ero sposata e Aviva era piccola, abitavamo dall’altra parte della città, in una villetta in stile toscano al Woodfield Country Club, un complesso recintato. Adesso che non ci abito più, posso ammettere che la recinzione mi ha sempre disturbato: vivevamo a Boca Raton, chi volevamo tenere fuori? E comunque i furti c’erano lo stesso. La recinzione sembrava attirare i ladri. Metti un cancello e la gente penserà che ci sia qualcosa da proteggere. Ma al Woodfield ho conosciuto Roz, che è stata la mia migliore amica in certi momentacci, lasciatemelo dire. Ed è lì che abbiamo conosciuto anche i Levin. Sono arrivati quando Aviva aveva quattordici anni ed era al primo anno delle superiori.

A quei tempi Aaron Levin era un senatore statale di basso rango. Era sua moglie Embeth che portava a casa i soldi. Lavorava come consulente legale per un consorzio di ospedali della Florida meridionale. Roz aveva soprannominato Aaron Levin il «Superman ebreo» o «Superebreo». E giuro che lo sembrava proprio. Era alto uno e novanta con le New Balance, aveva i capelli neri ricci, gli occhi verde-azzurri e un sorrisone gentile e vagamente ebete. Per non parlare di come gli stava la camicia. Era stato in marina ad Annapolis e aveva due spalle che lo dimostravano. Aveva qualche anno meno di me e Roz, ma non era così giovane da scoraggiare Roz che, scherzando, diceva che una di noi due avrebbe dovuto provare a portarselo a letto.

Sua moglie aveva sempre l’aria scontenta. Era magra dalla vita in su, ma sotto lasciava a desiderare: polpacci e fianchi grossi, ginocchia gonfie. E che sofferenza doveva essere tenere quel caschetto biondo e liscio, coi ricci castani che aveva. Roz diceva sempre: «Con questa umidità, oy vey iz mir, insistere a pettinarsi così è pura follia».

Sappiate, comunque, che ci ho provato, a fare amicizia con Embeth, ma non era interessata. (Non solo a me, perché ci ha provato anche Roz.) Io e Mike li abbiamo invitati a cena due volte. La prima volta ho fatto la punta di petto di manzo, che ti prende tutto il giorno. Anche con l’aria condizionata al massimo, ho sudato tutto il vestito senza spalline di Donna Karan. La seconda volta ho fatto il salmone con la glassa allo sciroppo d’acero. Niente di che. Lo lasci marinare per un quarto d’ora, poi mezz’ora di forno ed è pronto. Embeth non ha mai ricambiato. Ho capito il messaggio. Poi, quando Aviva era in terza superiore, Aaron Levin si è candidato al Congresso e si sono trasferiti a Miami. Pensavo che non ci saremmo mai più visti né sentiti. Nella vita si hanno tanti vicini e pochi si rivelano una Roz Horowitz.

Ma non è su Roz che sto rimuginando da tutto il giorno, è sui Levin, e ci sto ancora pensando quando suona il telefono. È l’insegnante di storia della scuola pubblica, chiede se sono la figlia di Esther Shapiro. Ha cercato di contattare mia mamma per sapere se riuscirà ad andare a parlare agli studenti per la giornata dei sopravvissuti, ma mia mamma non risponde né agli SMS né al telefono. Le spiego che sei mesi fa ha avuto un ictus a dir poco devastante. Quindi, no, Esther Shapiro non riuscirà a partecipare alla giornata dei sopravvissuti. Per quest’anno dovranno trovarsene degli altri.

L’insegnante di storia scoppia a piangere – seccante, accondiscendente – e dice che sta diventando sempre più difficile trovare abbastanza sopravvissuti, perfino a Boca Raton, che è ebraica per il novantadue per cento, grosso modo, il posto più ebraico della Terra, a parte Israele. Vent’anni fa, quando ha cominciato a fare la giornata dei sopravvissuti, era facile, mi dice, ma ormai chi è rimasto? Magari sopravvivi al cancro, magari sopravvivi all’Olocausto, ma la vita non ti lascia scampo.

Quel pomeriggio vado a trovare mia mamma alla casa di riposo, che odora di un misto di mensa scolastica e morte. Ha la mano moscia e a sinistra il suo viso è collassato. Inutile indorare la pillola: ha la faccia di una che ha avuto un ictus.

Le racconto che l’insegnante accondiscendente ha chiesto di lei e mia mamma si sforza di darmi una risposta che è tutta vocali e nessuna consonante e, sarò anche una pessima figlia, ma non capisco. Le racconto che sono uscita con uno e che quasi quasi andava tutto benone, finché di punto in bianco non si è messo a insultare Aviva. E mia mamma fa una faccia imperscrutabile. Allora le dico che mi manca Aviva. Lo dico solo perché so che mia mamma non può ribattere.

Mentre me ne sto andando, arriva la sorella minore di mia madre, Mimmy. È la persona più felice che conosca, ma di lei non sempre ci si può fidare. Magari sono ingiusta. Magari non è che non ci si possa fidare di Mimmy e sono io che non mi fido delle persone felici e della felicità in generale. Mimmy mi avvolge con le sue ampie ali flaccide. (Da bambini, io e mio fratello le chiamavamo braccia da Hadassah.) Mimmy dice che ultimamente la mamma le ha chiesto di Aviva.

«Come ha fatto a chiedertelo, Mimmy?» Mia mamma non riesce a dire una parola.

«Diceva il suo nome. Diceva AH-VII-VUA», insiste Mimmy.

«Addirittura tre sillabe? Ne dubito fortemente. E comunque tutto quello che cerca di dire sembra ’Aviva’.»

Mimmy risponde che non ha voglia di litigare con me, perché dobbiamo cominciare a pensare all’ottantacinquesimo compleanno della mamma. È in dubbio se organizzare la festa lì, in casa di riposo, perché magari la mamma si sarà ripresa abbastanza da spostarsi. Ovviamente ritiene che sarebbe meglio organizzare altrove, in un luogo più scenografico, come il museo d’arte di Boca Raton o quel bel posticino di Mizner Park dove fanno i brunch o a casa mia. «Il tuo appartamento è stupendo», mi dice.

«Ma, zia Mimmy, secondo te la mamma vorrebbe una festa?»

«Non c’è nessuno al mondo che ami le feste più di tua madre.»

Mi domando se stiamo parlando della stessa persona. Una volta ho chiesto a mia madre se lei e papà erano stati felici. Mi ha risposto: «Provvedeva alla famiglia. Era bravo con te e tuo fratello. La felicità? Cosa sarebbe?» Insomma, per la milionesima volta mi viene ricordato che essere la sorella di una donna è ben diverso da esserne la figlia.

E dico: «Mimmy, sul serio, ti sembra il momento giusto per fare una festa?»

Mimmy mi guarda come se nessuno, mai, le avesse fatto più compassione. «Rachel, per fare una festa è sempre il momento giusto.»

La vita in un istante
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