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Qualche tempo prima che il mio matrimonio finisse, io e Mike andammo a Miami, all’università, per cenare con Aviva, che ci aveva detto di voler fare un annuncio. Finalmente, con qualche semestre di ritardo, aveva deciso che indirizzo prendere: letteratura spagnola e scienze politiche.

Mike si dichiarò colpito, ma quando si trattava di Aviva lui non aveva mai niente da ridire. Così toccò a me chiederle cosa pensava di farci, con una laurea del genere, che a me sembrava uno zero al quoto. Immaginavo già mia figlia a vivere per sempre nella stanzetta della sua infanzia.

Aviva disse: «Mi butto in politica». La letteratura spagnola, spiegò, serviva perché aveva notato che, nella parte del Paese dove vivevamo, tutti quelli che vincevano le elezioni parlavano correntemente lo spagnolo. Le scienze politiche, invece, servivano per ovvi motivi.

«La politica è una porcheria», disse Mike.

«Lo so, papà», rispose Aviva, baciandolo sulla guancia. Poi gli chiese se era ancora in contatto col membro del Congresso Levin. Anche se non eravamo più vicini dei Levin da un pezzo, circa un anno prima Mike aveva operato al cuore la madre di Aaron. Aviva sperava che la sua conoscenza l’avrebbe aiutata ad accaparrarsi un lavoretto di basso livello o uno stage.

Mike disse che il giorno dopo gli avrebbe telefonato, e lo fece. Quando si trattava di Aviva, su Mike si poteva contare, altroché. Era la cocca di papà. Trovo offensiva la definizione «principessina ebrea-americana», tranne quando la coroncina calza a pennello. Comunque sia, Mike parlò con Levin, che gli diede il nome di una persona del suo ufficio, e Aviva andò a lavorare per il membro del Congresso.

A quei tempi ero vicepreside della Boca Raton Jewish Academy, che portava gli studenti dall’asilo alle superiori. Erano dieci anni che ricoprivo quel ruolo e uno dei motivi per cui quell’autunno non ero andata spesso a trovare Aviva a Miami era che il mio capo, il preside Fischer, era stato beccato a shtupparsi una delle ragazze più grandi. Aveva diciott’anni, ma comunque... Un uomo adulto, e per giunta un educatore, dovrebbe sapersi tenere lo shlong nelle mutande. Oltretutto quello sciocco di Eli Fischer era deciso a non perdere il suo posto di lavoro e voleva che intercedessi per lui col consiglio. «Mi conosci», aveva detto. «Per favore, Rachel.»

In effetti lo conoscevo, motivo per cui avevo detto al consiglio che secondo me andava licenziato in tronco. Mentre cercavano un rimpiazzo, avevo fatto io le veci di preside, la prima donna a ricoprire il ruolo, per quello che valgono certe distinzioni.

Quando Fischer era tornato a prendere le sue cose, gli avevo portato un biscotto con la glassa bianca e nera. Era un’offerta di pace ma anche una scusa per vedere come andava lo sgombero. Volevo che liberasse quello che sarebbe diventato il mio ufficio. Aveva aperto il sacchettino di carta oleata bianca e mi aveva scagliato contro il biscotto, come un frisbee. «Giuda!» aveva gridato. Mi ero scansata appena in tempo. Il biscotto era di King’s: quasi quindici centimetri di diametro, con una consistenza da pasticceria fine. Che stupido.

Quando rividi Aviva, al Ringraziamento, aveva perso peso, ma per il resto era felice e contenta, perciò pensai che lavorare le stesse facendo bene. Magari ha trovato la sua vocazione, pensavo. Magari la sua vocazione è la politica? Fantasticai di presenziare al suo insediamento a qualche carica, di tamponarmi gli occhi con un fazzoletto di seta di Hermès bianco, rosso e blu. Aviva era sempre stata una ragazza intelligente, con tante energie, ma spesso le disperdeva in troppe direzioni, come i raggi del sole o un sacchetto di biglie lasciato cadere per terra. Ma forse era solo questione di età? Le chiesi se le piaceva lavorare col membro del Congresso.

Scoppiò a ridere. «Non lavoro a contatto con lui, in realtà.»

«Allora cosa fai?»

«Roba noiosa.»

«Non per me! È il tuo primo, vero lavoro.»

«Non mi pagano, quindi non è un vero lavoro.»

«Però è entusiasmante lo stesso. Racconta. Cosa fai?»

«Vado a prendere i bagel.»

«Okay, e poi?»

«Faccio le fotocopie.»

«Ma cosa stai imparando?»

«A fare le fotocopie fronte e retro. E il caffè.»

«Dai, Aviva, ci sarà pure una storia che posso raccontare a Roz.»

«Non ho accettato il lavoro per darti qualcosa da raccontare a Roz Horowitz.»

«Qualcosa su Levin.»

«Mamma! Non c’è niente da raccontare. Levin è a Washington. Io lavoro soprattutto con lo staff della sua campagna. Raccolgono fondi e basta, e raccogliere fondi non piace a nessuno, ma credono in quello che fanno e credono in lui, quindi se lo fanno andar bene.»

«Ma allora ti piace?»

Fece un respiro profondo. «Mamma, sono innamorata.»

Per un istante pensai che stessimo ancora parlando del lavoro, che stesse dicendo di essere innamorata della politica. Ma capii che non era così.

«È presto. Ma penso di amarlo. Lo amo.»

«Chi è?»

Scosse la testa. «È bello. È ebreo. Non voglio dirti troppo.»

«L’hai conosciuto all’università?»

«Non voglio dirti troppo.»

«Okay. Ma dimmi almeno una cosa. Anche lui ti ama?»

Aviva arrossì e il rossore le donava, come quand’era piccola e le veniva la febbre. «Forse.»

Stava tacendo qualcosa. Probabilmente avrei dovuto capire cosa, ma per quanto ovvio non ci ero arrivata. Aveva solo vent’anni, era una bambina, una brava ragazza. Non avrei mai creduto che la mia Aviva si lasciasse coinvolgere in una porcheria come quella. Avevo fiducia in lei.

«Quanti anni ha?» le chiesi. La cosa peggiore cui riuscivo a pensare era che fosse più vecchio di lei.

«È più vecchio di me.»

«Quanto più vecchio?»

«Non quanto il papà.»

«È già qualcosa.»

«Mamma, è sposato.»

Oddio, pensai.

«Ma non è felice.»

«Amore, non te lo dirò mai abbastanza: non immischiarti in un matrimonio.»

«Lo so, lo so.»

«Ne sei sicura? Il tuo buon nome è tutto, in questa vita e nella prossima.»

Aviva scoppiò a piangere. «È per questo che te lo volevo dire. Mi vergogno tanto.»

«Devi troncare, Aviva. Non puoi andare avanti così.»

«Lo so.»

«Smettila di dire ’lo so’. ’Lo so’ non significa nulla. Dimmi piuttosto ’lo farò’, e poi fallo. Non è ancora successo nulla. Non lo sa nessuno, a parte me.»

«Okay, mamma. Lo farò. Promettimi di non dirlo al papà.»

 

 

La quarta o la quinta sera di Chanukah andai giù a Miami per accertarmi che Aviva avesse scaricato l’uomo sposato. Ero in ansia, quindi esagerai coi doni per la sua stanza al dormitorio. Le portai una menorah elettrica, una retina di monete di cioccolato, asciugamani nuovi di Bloomingdale’s (avevo speso sette dollari per farci ricamare il suo monogramma in negozio) e due biscotti bianchi e neri di King’s, perché da piccola erano i suoi preferiti.

«Allora?» le chiesi.

«Mamma, il matrimonio è finito, ma adesso non può separarsi dalla moglie. Non è il momento giusto.»

«Oh, Aviva! È quello che dicono tutti gli uomini sposati. Non si separerà mai dalla moglie. Mai.»

«No, è la verità. Ha un’ottima ragione per non separarsi adesso.»

«Ah, sì? Quale?»

«Non posso dirtelo.»

«Perché? Vorrei proprio sapere qual è questa ottima ragione.»

«Mamma!»

«Come faccio a consigliarti, se non conosco i particolari?»

«Se ti dico qual è la ragione, capirai chi è.»

«Magari no.»

«Ti dico di sì.»

«Allora dimmelo e basta. Che differenza fa, se so chi è? Non lo dirò a nessuno. Quando si tratta di te, sono una tomba.»

«La motivazione è... è che è nel pieno di una campagna elettorale.»

«Oddio. Per favore, tronca. Aviva, devi lasciarlo. Pensa a sua moglie...»

«È una donna orribile. L’hai sempre detto anche tu.»

«Allora pensa ai suoi figli. Pensa ai suoi elettori, a tutti quelli che l’hanno votato. Pensa alla sua carriera. E alla tua! Pensa alla tua reputazione! E, se non è abbastanza, pensa a me, al papà e alla nonna!»

«Smettila di fare scene. Non lo scoprirà mai nessuno. Lo terremo segreto finché non potrà divorziare», disse Aviva.

«Ti prego, Aviva, ascoltami. Questa storia deve finire. E, se proprio non puoi mollarlo, congela tutto finché lui non divorzia. Se è amore vero, durerà fino all’anno prossimo.»

Aviva annuì, come se ci stesse riflettendo, e pensai che forse l’avevo convinta. Mi baciò sulla guancia. «Non preoccuparti. Ci starò attenta.»

Ecco come ci si sente ad avere un figlio che entra in una setta.

Quella notte non dormii. Mi diedi malata al lavoro, cosa che non faccio mai perché non mi ammalo mai e, sebbene all’epoca avessi quarantotto anni, andai da mia madre a chiederle consiglio. «Mamma, Aviva è nei pasticci.» Le esposi la situazione.

«Aviva è intelligente, ma è giovane e non sa di non sapere tante cose», disse mia madre alla fine. «Vai dalla moglie di Levin. La vostra vecchia conoscenza può giustificare la richiesta di un incontro. La moglie lo farà rinsavire.»

«Ma così non tradisco la fiducia di Aviva?»

«Aviva ne sarà ferita, lì per lì, ma sarà una cosa temporanea, ed è per il suo bene.»

«Devo dirle cosa ho intenzione di fare?»

«Decidi tu, ma io eviterei. Non capirebbe. Non riuscirebbe a vedere le cose dal tuo punto di vista e, che sia o no un tradimento, senz’altro lei lo interpreterebbe così. Se non glielo dici, con ogni probabilità non scoprirà mai che sei stata tu.»

Poco prima del matrimonio con Mike, io e mia madre eravamo andate a comprare delle scarpe da sposa. Ricordo che pensavo: Perché prendersi la briga? Devo proprio indossare scarpe bianche? Poi però avevo visto quelle décolleté tempestate di brillanti con tacco dodici. «Mamma, guarda che belle!»

«Insomma», aveva risposto.

«Cosa? Sono stupende!»

«Carine. Ma il tuo abito è lungo fino ai piedi. Nessuno vedrà le scarpe. Tanto vale che siano comode.»

«Io però saprò che le indosso», avevo ribattuto.

Aveva messo il suo solito broncio.

«Ho il trentanove», avevo detto al commesso.

Le avevo provate, giudicandole dolorose ma sopportabili.

«Ha delle splendide gambe», aveva detto il commesso.

«Non le vedrà nessuno», aveva detto mia mamma. «Almeno riesci a camminare?»

Ci provai.

«Che passettini... Ti hanno legato insieme i piedi?»

«Mi sento come Cenerentola», avevo detto io. «Le prendo.»

«Queste scarpe sono un investimento», aveva commentato il commesso.

Mia madre aveva sbuffato, forte.

«Le terrà per tutta la vita», aveva detto il commesso.

«Le terrà in un armadio per tutta la vita», aveva precisato mia madre. «Non le indosserai mai una seconda volta.»

«Quando le hai, scarpe del genere, trovi l’occasione per metterle», aveva detto il commesso.

«Non devi pagarle tu», avevo detto a mia madre, posando la carta di credito sul bancone.

In auto mia madre aveva detto: «Rachel...»

«Chiudiamo la questione delle scarpe. Ormai è fatta. Le ho pagate.»

«No, non è questo. Non so perché me la sono presa tanto per le scarpe. Se ti piacciono, è giusto che tu le abbia. Quello che volevo dirti...» Aveva fatto una pausa, giusto un istante. «Potresti anche non sposarlo.»

«Cosa?»

«Insomma, quello che voglio dire è che potresti sposarlo ma anche non sposarlo.» L’aveva detto con noncuranza, come se stesse dicendo che le era indifferente se per cena c’era un tramezzino o una zuppa.

«Mi stai dicendo che Mike non ti piace?»

«No, mi piace, eccome. Ma, ora che ci penso, volevo sottolineare che è facile mandare a monte un matrimonio, tanto quanto andare sino in fondo.»

«Cosa?»

«Voglio dire che è allettante. È allettante portare avanti una cosa perché l’hai già cominciata. Pensa a Hitler, Rachel.»

Non c’era nessuno che mia mamma disprezzasse più di Hitler. Lo nominava di rado e, quando lo faceva, era in occasioni della massima serietà. «Non capisco dove vuoi arrivare, mamma.»

«Magari a un certo punto quel pezzo di merda ha avuto dei dubbi sulla Soluzione Finale. Probabilmente no, non era un uomo noto per l’introspezione, ma non si può mai sapere. Magari dopo uno o due milioni di ebrei, nel profondo del suo cuore malato, pensava: Basta. Così non si risolve nulla. Casomai, ci stiamo creando più problemi! Non so proprio perché mi è sembrata una buona idea. Ma ormai era in ballo, quindi...»

«Stai sul serio paragonando Mike a Hitler?»

«No, in questa metafora Hitler sei tu e il tuo matrimonio è la Soluzione Finale, e io sono la tedesca buona che non vuole restare a guardare senza intervenire.»

«Mamma!»

«Non prenderla alla lettera. È una storiella, alle volte si usano per far passare un messaggio.»

«Non tu, tu non sei il tipo che racconta storielle. Non su Hitler, poi!»

«Calmati, Rachel.»

«Perché mi dici queste cose? Sai qualcosa su Mike?» In fondo quella era la donna che sosteneva di non sapere cosa fosse la felicità. Non riuscivo a immaginare da dove le venissero quelle idee.

«Non so nulla su Mike», aveva risposto.

«A me sembra di sì.»

«Non so nulla», aveva ribadito. Aveva preso uno scatolino di caramelle dure al limone dalla borsa. Mia madre non era mai sprovvista di caramelle. «Ne vuoi una?»

«No.»

Con un’alzata di spalle, aveva rimesso in borsetta lo scatolino. «Non so niente. Ma mi sembra, a tratti, che la sua attenzione non sia rivolta sempre e solo a te.»

Mi tremavano le mani. «E a cos’altro sarebbe rivolta la sua attenzione?»

«Non lo so. Ma tu sei una donna libera, figlia mia, e hai la possibilità di scegliere. Hai comprato le scarpe, ma magari potresti metterle per andare all’opera. Farebbero un figurone all’opera. E non intendo aggiungere altro.» Mi aveva sorriso e mi aveva dato una pacca sulla coscia. «Sono scarpe molto carine.»

Avevo indossato quelle scarpe al mio matrimonio e avevo finito per slogarmi una caviglia uscendo dalla sinagoga. Per tutto il ricevimento, avevo zoppicato. Non c’era stato verso di ballare.

Mia madre mi ha sempre dato consigli assennati.

La vita in un istante
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