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Erano sei anni che non vedevo Aaron Levin in carne e ossa e mi saltò all’occhio la piccola chiazza calva in mezzo ai riccioli neri.
Aviva c’era, ovviamente. Come avrebbe potuto non presenziare a un evento del genere? Alla Boca Raton Jewish Academy era l’evento dell’anno, e poi lei lavorava per il membro del Congresso ed era mia figlia. Indossava il tailleur di St. John che avevo comprato per il pranzo con Embeth, non sapevo nemmeno che l’avesse preso dal mio armadio. Le stava troppo stretto sul seno, eppure vestita così sembrava ancora una bambina. Non sapevo se l’avesse lasciato, o se lui avesse lasciato lei.
Levin mi salutò con calore. «Rachel Grossman, ti trovo benissimo. Grazie per aver organizzato tutto. Sarà una serata grandiosa.» E così via, shlack da politicante.
«È stato un piacere», dissi, perché era così che si comportavano le persone civili.
E nel suo comportamento nulla lasciava pensare che si scopasse mia figlia. Del resto, cosa avrebbe dovuto fare? Non lo so. Quale comportamento avrei trovato soddisfacente? Lo accompagnai, con uno dei suoi assistenti, nello spogliatoio dietro l’auditorium. Gli studenti avrebbero pronunciato discorsi su cosa voleva dire per loro essere un leader ebreo e poi il membro del Congresso avrebbe tenuto il suo, conferendo un piccolo premio al maturando che aveva dimostrato il maggior potenziale di leadership. Mi ero inventata il premio una settimana prima, per far sembrare la cosa più autentica.
L’assistente si scusò per rispondere a una telefonata e per un attimo io e Levin restammo soli. Mi guardò dritto negli occhi. Erano limpidi, gentili e sinceri, quando mi disse: «Aviva sta facendo un ottimo lavoro».
Mi guardai attorno. «Come, scusa?»
«Aviva sta facendo un ottimo lavoro», ribadì.
Considerai le possibilità.
1. Non sapeva che sapevo della relazione.
2. Sapeva che sapevo della relazione e stava facendo una repellente allusione sessuale.
3. Sapeva che sapevo della relazione e Aviva stava facendo davvero un ottimo lavoro.
Forse non erano le uniche interpretazioni possibili, ma lì per lì mi vennero in mente quelle. Tutte e tre mi facevano venire voglia di prenderlo a schiaffi, ma mi trattenni. Se Aviva l’aveva lasciato, a cosa sarebbe servito prenderlo a schiaffi?
«Bene.»
Si capiva che la mia risposta succinta l’aveva smontato. Era una di quelle persone che hanno bisogno di piacere. «Come sta il dottor Mike?» mi chiese.
«Benone.»
«Speravo di vederlo stasera.»
«Lo sai che il suo studio medico gli dà molto da fare.» E non so perché aggiunsi, ma lo aggiunsi: «Per non parlare della sua vita sociale».
Levin rise. «La sua vita sociale? Che vita sociale ha Mike Grossman?»
«Mi tradisce. Ha un’amante di cui sono al corrente, ma potrebbero anche essercene altre. Per me è stato umiliante. Non so se Aviva lo sappia. Ho cercato di tenerglielo nascosto. Voglio che ami suo padre e lo rispetti. Ma ho la sensazione che i figli capiscano certe cose, anche se non gliele diciamo. Eppure sono preoccupata, Aaron. Che effetto avrà sulla sua moralità, avere un padre così?»
«Mi dispiace.»
«Questo è quanto», gli dissi, e me ne andai a organizzare i miei studenti.
Nel suo discorso, Levin raccontò che ad Annapolis era uno degli unici due ragazzi ebrei e che, di tanto in tanto, non era male scoprire di essere «l’unico». Essere l’unico era un buon esercizio per riflettere su cosa volesse dire essere una minoranza o magari un povero. I pericoli più grandi, per un governo, erano la miopia e l’egocentrismo. I buoni leader e i buoni cittadini dovevano tenere in considerazione anche le necessità di chi non era come noi.
Fu un bel discorso, per un potz.
Invitai tutti a passare nell’atrio dell’auditorium per un rinfresco col membro del Congresso. Ma, chissà come, mi ero persa proprio lui. Andai dietro le quinte e stavo per bussare alla porta del camerino, quando sentii una mano sulla spalla. Jorge scosse la testa. La sua bocca formò un perplesso sorriso di avvertimento. «Non si preoccupi, Rachel. Glielo cerco io. Glielo porto tra un attimo.»
Il membro del Congresso aprì la porta. Mia figlia aveva il rossetto sbavato e il mento arrossato. Nel camerino c’era un odore denso, salato. Ah, perché essere diplomatici? C’era odore di sesso.
«Aviva, tieni.» Le diedi un fazzolettino di carta che avevo in tasca.
«Mr Levin, è atteso nell’atrio.»
Levin disse a Jorge e Aviva di andare avanti. «Rachel, non è come sembra», aggiunse, a bassa voce.
Quando qualcuno ti dice che «non è come sembra», è quasi sempre esattamente come sembra. «Dovresti vergognarti.»
Lui annuì. «Lo so.» Ma la sua ammissione non mi diede soddisfazione.
«Ha vent’anni. Se mai ti passasse per la testa di fare la cosa giusta... Se volessi dimostrarti vagamente uomo, troncheresti subito questa relazione.»
«Sì...» E poi: «Che strano. Attorno a noi... Armadietti, mazze da baseball, un banco da giudice... Cosa portano in scena i ragazzi, quest’anno?»
«Damn Yankees», risposi. Mi domandai se avesse sentito una sola parola.
«Damn Yankees... Qual era?»
«C’è un giocatore di baseball...»
Ma a quel punto eravamo arrivati. Il membro del Congresso sfoderò un sorriso, e io anche.
Attorno all’una del mattino, Aviva entrò in casa con la sua chiave, ma sapevo che stava arrivando perché il guardiano mi aveva chiamato dalla portineria. Sia benedetto il cancello del Woodfield!
Aveva gli occhi gonfi come ciliegie. Mi puntò contro il dito, come l’avvocato di un legal drama. «Lo so che gli hai detto qualcosa!»
«Cos’è successo?»
«Non far finta di non saperne niente. Lo so che è colpa tua.»
«Non faccio finta. Non ho idea di cosa sia successo.»
«Mi ha lasciato.» Le tremava il labbro e poi scoppiò in singhiozzi. «È finita.»
Ah, il sollievo era una boccata di ossigeno. Come scendere da un aereo, dopo un lungo inverno e un volo turbolento, e trovarsi fuori dall’aeroporto in un clima tropicale. Fu un sollievo tanto profondo che mi sentii sciogliere. Volevo sorridere, ridere, gridare, piangere, cadere in ginocchio e ringraziare Dio. Mi avvicinai e cercai di prenderle la mano. «Mi dispiace.»
Lei si ritrasse. «Non toccarmi!»
«Mi dispiace per te, ma sono anche sollevata, sempre per te.»
«Non t’importa che sia felice!»
«Certo che m’importa.»
«Non capisco. Gli hai detto qualcosa? Devi avergli detto qualcosa. Dimmelo, che cosa gli hai detto?»
«Ma niente. Ci siamo a malapena parlati.»
«E dopo che mi hai dato il fazzolettino? Gli hai detto qualcosa? Avevi una faccia così critica e moralista.»
«Niente.»
«Allora dimmi di cosa avete parlato, parola per parola.»
«Aviva, non me lo ricordo nemmeno. Del più e del meno, nient’altro. Abbiamo parlato del papà! E di Damn Yankees.»
«Damn Yankees? Lo spettacolo?»
«È il musical dell’ultimo anno.»
«È colpa mia. Non avrei dovuto...» Non disse cosa non avrebbe dovuto fare.
Si lasciò cadere sul divano di pelle scura, che aveva scelto Mike. Fraintesi il messaggio, prendendolo per una resa. Aveva una macchia biancastra sulla giacca del tailleur – il mio tailleur! – che mi ricordò l’abito blu di Monica Lewinsky. Essere madre vuol dire questo, pensai. Tua figlia ti macchia la giacca e a te tocca pulirla. «Levati la giacca, Aviva. Va portata in lavanderia.»
Se la sfilò e io andai ad appenderla nell’armadio del corridoio.
«Magari è meglio così, amore. Tanto non stavi pensando di lasciarlo tu?»
«Sì, ma non l’avrei mai fatto.»
«Ti preparo qualcosa da mangiare. Avrai una fame da lupo.»
Aviva si alzò. La mia offerta di cibo l’aveva fatta rimontare su tutte le furie. «Mi dici che sono grassa e poi cerchi sempre d’imbottirmi come un maiale!»
«Aviva!»
«Oh, sei furba, tu. Non dici mai che sono grassa, però parli ossessivamente del mio peso. Mi chiedi se mangio bene, se bevo abbastanza acqua. Mi dici che certi vestiti sono un po’ strettini.»
«Non è vero.»
«Dici che non devo tagliarmi i capelli troppo corti perché mi fa sembrare tonda in viso.»
«Aviva, da dove ti viene quest’idea? Sei una bella ragazza. Ti voglio bene, così come sei.»
«BUGIARDA!»
«Cosa? È vero che stai meglio coi capelli lunghi. Sono tua madre. Voglio sempre vederti carina. È un crimine?»
«Solo perché tu sei fissata col tuo corpo, solo perché non mangi mai più di tre bocconi di dolce e ti alleni come una pazza, non significa che io devo pensarla come te e comportarmi come te!»
«Ovvio che non devi pensarla come me.»
«Che cosa ti scoccia di più: che io sia riuscita a conquistare un uomo come Aaron Levin o non esserci riuscita tu?»
«Aviva! Adesso basta. È un’affermazione ridicola e ingiusta.»
«Comunque lo so che gli hai detto qualcosa! Lo so che hai detto o fatto qualcosa. Ammettilo, mamma! Smettila di mentire. Per favore, smettila! Ho bisogno di sapere cos’è successo, altrimenti impazzisco!»
«Perché dev’essere stato per forza qualcosa che ho detto io? Magari venire a scuola gli ha ricordato che sei giovanissima e che la vostra relazione è alquanto inopportuna. Non ti sembra plausibile, Aviva?»
«Ti odio. Non voglio parlarti mai più.» Se ne andò sbattendo la porta.
Mai più durò fino ad agosto.
Alla fine dell’estate, io e Mike affittammo una casa in un paesino fuori da Portland, nel Maine. Chiamai Aviva e le dissi: «Non è abbastanza che non ci parliamo? Mi dispiace per quello che ho fatto e per quello che tu pensi che abbia fatto. Vieni nel Maine con me e il papà. Mi manchi tantissimo. E anche a lui. Mangeremo tutti i giorni lobster roll e biscotti al cioccolato farciti di panna».
«Lobster roll? Con l’astice? Mamma, cosa ti è preso?» esclamò Aviva.
«Non dirlo alla nonna, ma mi rifiuto di credere in un Dio che non vuole farmi mangiare l’astice.»
Si mise a ridere. «Okay. Okay, ci vengo.»
Eravamo lì da quattro o cinque giorni, quando disse: «Mi sembra che l’anno scorso sia stato un sogno. Mi sembra come se avessi la febbre, e finalmente mi sia passata».
«Mi fa piacere.»
«Però a volte mi manca avere la febbre.»
«Ma non lo vedi più?»
«No, certo che no.» Si corresse: «Cioè, non lo vedo nel tempo libero. Lo vedo al lavoro».
La ammirai per essere riuscita a continuare a lavorare per Levin. «È dura?» le chiesi. «Vederlo, ma non stare insieme?»
«Non lo vedo quasi mai. Non sono tanto importante, adesso che non sono tanto importante.»