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Aspettavo che Aviva mi chiamasse, piagnucolando che la moglie li aveva scoperti e Levin l’aveva lasciata.

Siccome non mi chiamava, pensai che stesse affrontando la cosa da sola, che si stesse dimostrando una persona matura. Conoscevo lo stereotipo della madre ebrea invadente – come ho già detto, mi piace Philip Roth – e probabilmente rispondevo ad alcuni dei requisiti. Ma in tutta sincerità non ero una madre del genere e non lo sono neanche adesso. Avevo un lavoro appagante. Avevo amiche. Mia figlia era il mio amore ma non era la mia vita.

Così decisi di lasciarla in pace. Le mandai una crema al profumo di lavanda, di Crabtree & Evelyn, ma niente di più. La lavanda era la sua preferita.

Aviva non si fece sentire, nemmeno per ringraziarmi. Ma la settimana dopo si fece sentire Jorge. «Allora, Rachel, l’estate si avvicina. Sarebbe meglio mettersi in moto, se vogliamo organizzare prima della fine dell’anno scolastico.»

«Ma Embeth non le ha detto nulla?»

«Oh-oh. Non vorrà tirarsi indietro all’ultimo momento?»

«No, figuriamoci. È che... forse ho capito male, ma credevo che Embeth avesse concluso che la raccolta fondi non fosse una buona idea.»

«Assolutamente no, le ho parlato proprio stamattina. Era ancora dei nostri. Anzi, mi ha detto che era gasatissima.»

«Gasatissima? Embeth ha detto così?»

«Non ricordo se abbia usato proprio questo termine. Un attimo... Sì, esco tra poco», gridò a qualcuno nella stanza accanto. «Oggi qui è un manicomio.»

«Sta succedendo qualcosa?»

«È sempre un manicomio. Dunque, se ci sta ancora, ci stiamo anche noi.»

Non so perché non dissi di no. A mia discolpa, ero confusa. Un po’ come quando sei al cellulare con qualcuno e comincia a prendere male e tu fai finta di sentire, sperando che nel frattempo la comunicazione si sistemi, prima che l’altro si accorga che sono cinque minuti che non capisci niente. Perché non diciamo subito che non si sente più? Perché ci sembra di dovercene vergognare?

«Per me va bene, ma dovrò parlarne al consiglio.» Ovviamente non avevo nessuna intenzione di parlarne al consiglio. Mai e poi mai mi avrebbero permesso di organizzare un evento politico. Alla Boca Raton Jewish Academy la politica era una mina antiuomo. Dio non volesse che Levin tirasse in ballo, per dire, l’assassinio di Rabin!

«Ma certo. Potrebbe essere il secondo giovedì di maggio? È l’11.»

«L’11 maggio...» Tracciai un segno immaginario sul calendario. Nel giro di un paio di giorni avrei chiamato Jorge per dirgli che il consiglio era contrario a un evento politico per la raccolta di fondi e sarebbe finita lì.

La cosa che mi lasciava inquieta era il comportamento di Embeth e cosa significava, alla luce del silenzio di Aviva.

Telefonai ad Aviva e le chiesi come stava, come andavano le cose e se aveva ricevuto la crema.

«È un po’ liquida», mi disse. «La crema. Secondo me hanno cambiato formula.»

«No, è che l’ultima volta avevo comprato la crema per le mani, che è più densa. Stavolta ti ho preso la lozione per il corpo.»

«Non ci siamo lasciati. So che è questo che vuoi sapere, in realtà.»

Volevo saperlo, ma volevo anche sapere se Embeth aveva parlato con suo marito. «Aviva, cosa farete se sua moglie lo scopre?»

«E perché dovrebbe scoprirlo? Chi glielo dirà?»

«Un membro del Congresso ha tanti occhi addosso. È un personaggio pubblico.»

«Ci sto attenta. Ci stiamo attenti, tutti e due.»

«Vorrei che avessi un uomo con cui non devi stare attenta.»

«Mamma, lui non è come gli altri uomini. Per lui, ne vale la pena. È...»

«È troppo vecchio per te, Aviva. È sposato. Ha dei figli. Non pensavo di averti educato con così poco buon senso.»

«Quante volte ancora ci toccherà parlarne?»

«Non capisco il suo interesse per te.»

«Grazie, mamma. È così difficile credere che un uomo come lui potrebbe essere interessato a una ragazza come me?»

«Non è quello che intendevo. Insomma, Aviva, è un uomo adulto. Ha la mia età. Che cosa avete in comune?»

«È per questo che non ti ho più chiamato.»

«Ma se lei alla fine lo scopre? Allora lo lascerai? O ti lascerebbe lui?»

«Non lo so. Ciao, mamma.»

«Aviva, se...»

La sentii riagganciare.

 

 

Circa una settimana dopo, il rabbi Barney, presidente del consiglio scolastico, entrò nel mio ufficio senza bussare.

«Cos’è questa storia di organizzare una serata di raccolta fondi per il membro del Congresso Levin? Un tale Jorge Rodriguez mi ha detto di averne parlato con lei.»

La settimana precedente, Jorge mi aveva lasciato tre messaggi e io l’avevo ignorato. Era stato uno sbaglio. Uno che fa quel lavoro è abituato a essere rimbalzato e a fare di tutto pur di ottenere l’attenzione di qualcuno. Era ovvio che mi avrebbe scavalcato.

Risi, per prendere tempo. «Ma non è niente. Lo sa come sono insistenti, alle volte, questi assistenti dei politici, sono sempre alla ricerca di soldi. Ho accettato di vedere Embeth Levin per cortesia, era la mia vicina al Woodfield. Non mi sono potuta sottrarre, con Aviva che lavora per suo marito. Non ricordo se gliel’avevo detto.»

«Non è quello che mi ha riferito Jorge Rodriguez. Secondo lui, è stata lei a lanciare l’idea di una serata coi leader ebrei, e adesso è sull’agenda pubblica del membro del Congresso.»

«No, non ho dato il mio consenso a nulla del genere. Se ne è parlato per pura cortesia.»

Il rabbi Barney sospirò. «Politici. Comunque la stampa locale ha riportato la notizia dell’evento. A questo punto non vedo come si possa non farlo.»

Che cazzo stai dicendo? «Perché?»

«Se annulliamo tutto, daremo l’impressione di aver sostenuto Levin ma di non sostenerlo più. Non vogliamo dare l’impressione di sostenerlo, ma nemmeno di non sostenerlo. Si tratta di una situazione estremamente scomoda, Rachel. Non la ritengo responsabile dell’accaduto, tuttavia le consiglio di essere più cauta, in futuro, coi suoi incontri di cortesia. Adesso è la preside della Boca Raton Jewish Academy.»

Era chiaro che invece mi riteneva responsabile. Da un certo punto di vista, mi offesi. Se fosse andata come l’avevo presentata io, non sarebbe stata colpa mia. Ovviamente non era andata così, dunque era colpa mia, ma lui non lo sapeva.

Il rabbi Barney mi diede istruzioni di organizzare l’evento, ma di cercare di ridimensionarlo il più possibile. «Cerchiamo di non farci licenziare.»

Non appena il rabbi se ne fu andato, chiamai Jorge.

Il quale Jorge mi disse: «Stavo cominciando a risentirmi. Pensavo che m’ignorasse di proposito».

 

 

Aviva mi telefonò quella sera. «Cosa stai cercando di farmi?» strillò.

«Ti ho educato a pensare che il mondo ruoti attorno a te?» ribattei. «Ci sono cose che non hanno a che vedere con te. Sapendo quello che so su Levin, credi che abbia voglia di organizzare una raccolta fondi per lui nella mia scuola? Io non c’entro niente.»

«Allora perché hai chiamato il suo ufficio?»

«No, Aviva.» Mi aspettavo che Dio mi fulminasse sul colpo, non avevo mai raccontato tante menzogne in vita mia. «Avevo chiamato mesi fa, ben prima che tu andassi a lavorarci. Qualcuno, a scuola, aveva avuto l’idea di organizzare una serata coi leader ebrei. Avevo chiamato i Levin perché me l’aveva chiesto la scuola, perché li conoscevo e tuo padre aveva operato la madre di Levin, e perché Levin è il maggior leader ebreo che conosca. È una coincidenza, amore, nient’altro. Forse è stata Embeth ad avere l’idea di trasformarlo in un evento di raccolta fondi, ma di certo non è venuta da me.»

«Allora tirati indietro. Sei la preside. Puoi farlo. In quella scuola non succede niente senza il tuo consenso.»

«Non è così semplice. Il suo staff l’ha inserito nell’agenda. E uno che si chiama... Jorge?»

«Sì, Jorge Rodriguez. È il responsabile dei finanziamenti.»

«Okay, hai presente chi è. Questo Jorge mi ha scavalcato e ha interpellato il rabbi Barney. E ormai è diventata una questione diplomatica. Ho le mani legate.»

La sentivo respirare, quindi non aveva riagganciato.

«Va bene, mamma, ti credo. Devo chiederti di promettermi che non dirai niente della...» Abbassò la voce. «Della nostra relazione, a nessuno. Promettimi che non parlerai col membro del Congresso né con sua moglie.»

«Aviva, figurati se lo farei. Non tirerò certo in ballo la vostra relazione, ma dovrò parlarci per forza. Sarebbe impossibile non parlarci. Erano nostri vicini di casa.»

Scoppiò in singhiozzi.

«Aviva, cosa c’è?»

«Scusami», disse, con una voce che non aveva più nulla di prepotente. «Sono stanca. Mi manchi. E ho vent’anni ma mi sento tanto vecchia. Mamma, penso che dovrei troncare. So che hai ragione. Solo che non so come fare.»

Il mio cuore fiorì come una rosa in serra. Tante menzogne erano servite, se il risultato era quello. Mi licenziassero pure per quella serata di narishkeyt, ne era valsa la pena, se ero riuscita a salvare mia figlia e il suo buon nome. «Mi stai chiedendo un consiglio?» domandai, cauta, per non spaventarla.

«Sì, ti prego.»

«Parlagli senza amarezza. Digli che il tempo che avete passato insieme è stato bello, ma che non è il momento giusto, per nessuno di voi due, per portare avanti questa relazione.»

«Sì.»

«Digli che capisci che la sua vita è complicata. Che sei troppo giovane per sistemarti con qualcuno. Che la fine dell’anno scolastico è un buon momento per rivalutare le cose. Lo è davvero, Aviva.»

Aviva riprese a singhiozzare.

«Cosa c’è, amore?»

«Non conoscerò mai un altro come lui.»

Mi morsi la lingua così forte che sentii in bocca il sapore del sangue. Le cose che non ho detto!

Se mai scriverò le mie memorie, le intitolerò così. Rachel Shapiro: Le cose che non ho detto!

La vita in un istante
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