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Io e Franny stavamo visitando il salone dell’ennesimo hotel, quando mi disse: «Cominciano a sovrapporsi. Mi pare che questo mi piaccia più del precedente, ma non ne sono sicura».

«È più che altro la sensazione. Che sensazione ti dà?» Parlavo, ma non le stavo prestando attenzione. Pensavo a Ruby. Mi avevano telefonato dalla scuola. Si era chiusa in bagno e si rifiutava di uscire. Non appena avessi terminato con Franny, l’avrei accompagnata a casa e poi sarei andata a scuola per capire chi dovevo ammazzare.

Lo sguardo di Franny si spostava dalla moquette fiorata non proprio pulita alle pareti a specchio. «Non saprei. Nessuna? Tristezza? Che sensazione mi dovrebbe dare?»

«Devi immaginare la sala piena. Immagina le orchidee, le lucine natalizie e il tulle. Immagina i tuoi amici, i tuoi parenti e...» Quale istinto spingeva i bambini che s’imbattevano in uno diverso o più debole a saltargli addosso? Erano le vestigia di un istinto di sopravvivenza risalente a un tempo in cui le risorse erano scarse?

«’E’ cosa?»

«No, nient’altro.»

Franny annuì. «Mi piacerebbe vedere qualche altra possibilità, se a te va bene.»

«A essere sincera, possiamo anche continuare a cercare ma, a meno che tu non voglia cambiare completamente direzione, quindi escludere i saloni degli hotel, hai visto più o meno tutto quello che c’è in zona. Sono sale vuote, Franny.» Guardai furtivamente l’ora sul telefono. Volevo arrivare a scuola di Ruby prima di pranzo.

«Tu quale sceglieresti?»

«La prima che abbiamo visto. Quella del Lodge, ad Allison Springs.» Mi trattenni dal dirle: Motivo per cui ti ci ho portato prima. «Se è ancora disponibile.»

«Hai ragione. Giudicami pure una sciocca, ma m’illudevo che entrando nel salone del ricevimento avrei pensato: ecco il posto dove vivrai la notte più romantica della tua vita, Franny. Ma non mi sono sentita così. Non ho provato nulla. Tutto quel legno scuro...»

«Sei tu che volevi il rustico.»

«Ma sembrava un po’... non so, mascolino.»

«Non lo sembrerà più, una volta che ci avremo messo le orchidee e...»

«E il tulle, lo so. Magari possiamo tornarci subito, per dare un’altra occhiata? Credo che, se lo rivedessi, potrei anche decidere oggi stesso.»

Feci un respiro profondo. «Non posso. Credimi, vorrei tanto sistemare la faccenda, ma devo andare alla scuola di Ruby. Si è chiusa in bagno e non vuole saperne di uscire. E, se non ci arrivo prima della pausa pranzo, tutti i bambini lo verranno a sapere e la cosa potrebbe ingigantirsi, sai come sono i bambini.» Risi. «Scusami se ti annoio.»

«Figurati. Possiamo continuare il giro un’altra volta.»

 

 

«Secondo te perché si è chiusa in bagno?» mi chiese Franny in macchina.

«Probabilmente per sfuggire agli imbecilli che frequentano la sua scuola d’imbecilli.»

«Ma è terribile.»

Odiavo la scuola di Ruby, che sembrava popolata da una percentuale elevatissima di stronzi. Detestavo il vicepreside, che si definiva lo «zar di tutti i bulli». Lo zar, capito? Aveva l’aspetto belloccio e minaccioso di un attore porno. Era ovvio che c’era un unico motivo per cui gli avevano dato quel soprannome: era stato un bullo a sua volta. Padroneggiava la retorica dell’antibullismo (inclusione, ambiente sicuro, tolleranza zero), ma si capiva che in un certo senso dava la colpa di tutto a Ruby. Sarebbe più facile per tutti se Ruby la piantasse di essere così tanto bullizzabile.

«Anch’io ho avuto problemi coi bulli», disse Franny. «Ma quando sono andata alle superiori hanno smesso.»

«Come mai?»

«Sai com’è...» Ridacchiò. «Non per sembrare presuntuosa, ma sono diventata una gran figa.»

«Beata te.»

«Ero contenta, questo è ovvio. Contenta di non vomitare più tutte le mattine prima di andare a scuola. Ma sapevo che era sbagliato, e poi non avevo niente di cui vantarmi. Quelli erano ancora i ragazzi terribili di prima e io ero ancora la ragazza che avevano odiato. E a te è capitato?»

Frenai di colpo. Per poco non passavo uno stop senza fermarmi. Feci un cenno con la mano alla donna che stava attraversando di corsa e le chiesi scusa. Lei mi fece il dito. «Sì, mi è capitato.»

«Però è difficile da credere. Sembri così forte. Sembri un muro, ma in senso buono.»

«Un buon muro. A tutti piacciono i muri.»

«Intoccabile. Imperturbabile.»

Risi. «Una volta, tanto tempo fa, mi facevo toccare e turbare fin troppo.»

«E poi cos’è successo?»

«Sono cresciuta.»

 

 

Bussai alla porta del bagno. «Ruby, sono la mamma.»

La serratura si aprì. Le chiesi cosa fosse successo ed era una situazione così stupida da non crederci. A ginnastica un compagno, «per scherzo», aveva passato la mano sulle gambe delle bambine per stabilire chi si fosse rasata e chi no. Ruby non si era rasata. Non che l’avesse mai fatto. Disse che era l’unica, ma mi sembrò poco credibile. Avevano otto anni ed era pieno inverno, nel Maine. Per quanto mi riguardava, non mi radevo le gambe da tre settimane. Da quando in qua le bambine di otto anni si radevano?

«Perché non mi hai detto che dovevo radermi?» mi chiese.

Mi sedetti sul pavimento del bagno. «Quando cominci, non puoi più smettere. Finché non ti radi, i peli sono morbidi e stanno giù ma, quando cominci, diventano ispidi e prudono. Pensavo che fosse meglio rimandare il più possibile. E poi che c’è di male ad avere i peli sulle gambe? Chi se ne importa, se ci crescono?»

Mi guardò come se lei fosse molto vecchia e io fossi molto giovane. «Mamma», disse, seria, «se vuoi che arrivi alla fine di quest’anno, devi tenermi informata sulle cose giuste da fare. Non voglio attirare l’attenzione su di me.»

«Mi spezzi il cuore.»

«Non lo faccio apposta. Ma come strategia...» Mi guardò, per vedere se seguivo il discorso.

«Strategia.»

«È così che dobbiamo fare. Credo di essere una brava persona. Sono sveglia. Ma queste ragazze... mi stanno addosso per ogni minima cosa. Con loro non si può discutere.»

«Ho capito.»

Tornando verso casa ci fermammo al supermercato, a comprare dei rasoi.

La vita in un istante
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