Trentaquattro
Costanza, uscita dal Palazzo di Giustizia, sale sulla volante che sono da poco passate le dieci.
«Andiamo in Questura, dottoressa?» le domanda l’agente alla guida.
In Questura? pensa lei. E che ci faccio in Questura fino alle sei di sera?
No, troppa tensione, deve assolutamente trovare il modo di non pensare a quello che può succedere nel pomeriggio. Così decide in un botto.
«Mi porti allo Stadio del nuoto a Riccione.»
«Le metto la sirena, vice questore?»
«Le metto le mani addosso, agente? Voglio andare a nuotare, quindi muti come pesci.»
Non impiegano molto. Costanza scende dall’auto, la lascia libera ed entra in piscina. Si compra costume, cuffia e occhialini, si fa prestare accappatoio e infradito e dopo un altro quarto d’ora affronta la prima vasca della piscina olimpionica. Ne fa 75 di vasche, in quasi un’ora e mezzo, e molta della tensione che aveva accumulato si scioglie nel cloro.
Quando esce dallo Stadio del nuoto e la tramontana della periferia riccionese la investe, Costanza ha all’improvviso un crollo degli zuccheri che quasi la stende. La fame e la stanchezza non sono una bella accoppiata per una che, di lì a poco, dovrà affrontare la sfida della vita. Allora rientra nel palazzetto e si fa chiamare un taxi.
Quando sale in auto è spiccia: «Mi porti nel più bel ristorante che conosce» dice al tassista.
Dopo una ventina di minuti, Costanza Confalonieri Bonnet, vice questore in ansia da blitz, entra al Posillipo di Gabicce Monte.
La vista è spettacolare, c’è il mare della Baia degli Angeli, c’è la neve che copre la sabbia dell’infinita spiaggia fino a Milano Marittima, ci sono gli alberi bianchi sulle pendici del Monte San Bartolo.
Anche il pranzo è spettacolare, con il crudo di pesce e il rombo alla griglia.
Quando Costanza paga il conto ed esce ad aspettare il taxi, sono le tre. Alle quattro entra in Questura. Ed è anche riposata, visto che sul taxi ha pisolato.
In ufficio la squadra è presente in formazione tipo. L’ispettore capo Orlando Appicciafuoco è al telefono con la moglie, che ha visto la tivù ed è parecchio preoccupata. L’agente scelto Cecilia Cortellesi è, come sempre, al computer ed è nervosa perché è lento, è lento. Il vice sovrintendente Emerson Leichen Palmer Balducci sta facendo le parole crociate. Guarda Seneca che sta riagganciando e gli chiede: «Portare nell’antica Roma».
«Se ti dico fero, fers, tuli, latum, ferre a te cosa dice?»
«Boh… Ah! La difesa dell’antica Roma di Capello, quella dello scudetto?»
Orlando guarda Costanza che sta entrando in quel momento, ma ha fatto in tempo a sentire tutto, e le dice: «E lui il sovrintendente è, si figuri il sovrinteso».
Costanza ride e si siede alla scrivania. Lo schermo del computer è coperto dai Post-it dei suoi uomini. «La cimice è nella sua lampada, la Tizio» dice quello di Cecilia. «Tutta la mobile è allertata. Sanno cosa fare coi furgoni quando verrà il momento» dice quello di Orlando. Emerson ne ha appiccicati dodici. L’oggetto di tutti quanti è la misteriosa chiave di Vagano. Costanza riesce a ricomporre il puzzle dei Post-it e alla fine legge che «un chiavaio di via Covignano ricorda che tre o quattro anni fa un tizio malmesso ma che parlava bene gli aveva portato un calco fatto col pongo di una serratura per fargli una chiave. La serratura era una Wg tedesca anni Cinquanta. Lui ne aveva vista una perché suo babbo aveva una collezione». Nell’ultimo Post-it, Emerson si avventura in una conclusione: «Una serratura che vuole essere aperta dalla nostra chiave è una roba dei nazisti o di quel periodo lì, gli anni Cinquanta».
Sorvolando sul fatto che di nazisti, negli anni Cinquanta, ce n’erano parecchi nella Patagonia argentina, ma a Rimini difficile, detto questo il ferramenta ha dato indicazioni preziose. Innanzitutto che, se quella chiave apre ancora casa Vagano, l’ingegnere ci abitava da tre o quattro anni. Poi che è una casa vecchiotta, se la porta monta una serratura del 1950.
Ma alla fine si ritorna sempre lì, dove diavolo è a Rimini una casa così?