Diciannove
A Rimini il Lady Godiva sta proprio alle spalle del Grand Hotel.
L’ispettore capo Orlando Appicciafuoco scende dalla sua auto privata che saranno le ventidue. Si è portato il vice sovrintendente Emerson Leichen Palmer Balducci perché, pur coi suoi trent’anni di esperienza investigativa, entrare da solo in un sexy disco night club, così recita l’insegna del locale, lo imbarazza mica poco.
Emerson, al contrario, si muove come nel tinello di casa sua. In più conosce il gestore, Ruben Zavoli, perché erano in classe insieme in quarta elementare. E quando Emerson ha sottolineato «quarta» elementare, Seneca Orlando la domanda se l’è fatta: chi dei due non ce l’ha fatta a passare in quinta? Ma se l’è tenuta per sé.
Il locale naturalmente è deserto. Un po’ per l’ora, apre alle ventitré, un po’ perché fuori sembra di essere sul set del Dottor Zivago.
Ruben Zavoli saluta, abbracciandolo, Emerson e poi stringe la mano all’ispettore capo che si qualifica. Ma non serve, perché Zavoli conosce il motivo della visita. E infatti non c’è alcun bisogno di interrogarlo.
Ruben spiega che ha conosciuto Pandora cinque o sei anni prima. Lei ha lavorato prima come sexy star residente, cioè faceva la lap dance tutte le sere. E, be’, sì ogni tanto anche qualcosina in più.
«Il suo nome d’arte era Dora Pigalle. Era una patacca imperiale. Non proprio una escort, diciamo che era una che non dava del lei al cazzo.» Ecco saltar fuori gli studi condivisi con Emerson, pensa Orlando. Diversa specializzazione, ma stessa facoltà. «Poi all’improvviso ha mollato il colpo. Probabilmente c’entra il fatto che si è innamorata di quel negretto» dice proprio così, «negretto». «Però non ha chiuso col Godiva. Qualche mese dopo si è ripresentata, proponendosi come pierre. L’ho presa più per curiosità che per altro. Volete sapere una cosa? Era più brava che mai. Il Godiva ha avuto un badaluppo di addii al celibato, di feste post-convenscion, di robe aziendali. Insomma lavoravamo bene insieme. Ma non faceva affari solo con me, Pandora aveva anche il suo bel giro di discoteche tra Riccione e Cattolica.»
«Lei, Ruben, si era reso conto che era incinta?» chiede Appicciafuoco.
«Ah dì, non sono mica invornito! Normalmente aveva un fisico che gli occhi non si stancavano mai di guardarla. Però dopo non era solo fuori, mi sembrava cambiata anche dentro. Non so se mi spiego, era come inquieta, preoccupata.»
«E Vagano, il senzatetto, lo conosceva?»
«Porca boia, e chi non conosceva Vagano? Girava un po’ troppo qui intorno al locale, per noi non era una bella pubblicità. Così l’ho convinto che dalle dieci di sera qui intorno non doveva farsi più vedere. Perché se gli parlavi piano, lui capiva.» Come te, pensa Orlando. «Prima delle dieci, be’ facesse un po’ quel che voleva.»
«Ha per caso idea di dove abitasse?»
«Ma va’ là. Neanche lontanamente.»
«Grazie. Adesso però vorremmo parlare con le sue ragazze.»
«Nessun problema, ma cascate malino, perché in una serata così sfigata ce n’è una sola, Karina. Vi porto in camerino da lei. Karina è un po’ la sindaca delle mie ragazze. Sta qui da cinque anni. Eccoci. Vi lascio con lei.»
Karina Makarova si presenta. È ucraina, di Odessa. Ha due occhi verde smeraldo stupendi, ma per Emerson potrebbe averli gialli che non li noterebbe. Lui guarda altrove, più che il technicolor gli piace il 3D.
Lei all’inizio è un po’ titubante. Per una che fa il suo mestiere, parlare con la Polizia è come per un topo confidarsi col gatto. Poi, però, sentendo che lo scopo della visita è Pandora, si scioglie e diventa un fiume in piena.
La scena è borderline tra il tragico e il comico. Da una parte c’è una donna quasi nuda che, gesticolando come un interprete per non udenti, si commuove, si accalora, si confessa, il tutto in un italiano così-così, ma comprensibilissimo. Dall’altra c’è Emerson che la riprende con il telefonino. Lui dice che deve farlo perché l’italiano è così-così. Ma è la giustificazione a essere così-così.
Comunque sia, aggiustando un po’ qua e un po’ là e sistemando tempi e declinazioni, Karina dice più o meno questo: «Pandora era un’anima bella. Una persona giovane ma che le aveva provate tutte. Una vita non generosa con lei. La droga, la famiglia lontana, la comunità, la lap dance con annessi e connessi qui al Lady Godiva. Però era sempre disponibile ad aiutare gli altri. Le altre. Quelle come me che arrivano in Italia e non sanno niente. La lingua, la storia, neanche la geografia. Che hanno davanti un futuro che viene da chiedersi ma chi te lo fa fare. Il passato. È il passato che te lo fa fare, perché per quanto duro possa essere il futuro è sempre meglio del passato. Di quello che abbiamo passato. E quando avevi bisogno, Pandora c’era. Sempre. Per un consiglio, un documento, un controllo dal medico, una torta per il compleanno, sempre. Poi è arrivato lui, Berhanu. Si erano conosciuti a Sanpa. Fuori poi si erano rivisti, frequentati. E lei, piano piano, aveva perso la testa. Innamorata come non lo si dovrebbe mai essere, come di solito capita solo la prima volta, sui banchi di scuola. Innamorata come sono capaci solo le puttane. Che tu dai tutto e anche un po’ di più. Ma in cambio? Poco, qualcosa, ma poco. Perché in fondo sei solo una puttana. Lui, bello era bello, anche intelligente. Furbo. Troppo. Parlava tante lingue, aveva viaggiato. Il padre era ambasciatore o qualcosa così. Viziato. Una volta ci aveva portato, sì anche a me, a Roma. C’era una festa per quella gente così, diplomatici, in una villa piena di alberi e di camerieri coi guanti bianchi. Berhanu entrava dappertutto. Tirava fuori il suo passaporto speciale ed entrava. Al ritorno, a Cagli, ci hanno anche fermato i carabinieri. Lui gli ha dato quel passaporto lì. Loro si sono guardati, si vedeva che non sapevano cosa fare. Alla fine ci hanno lasciato andare. È quella volta, secondo me, che gli è venuta l’idea. Nel giro della bamba conosceva tutti perché ci era passato. Il mondo della droga in fondo è semplice. Ci sono quelli che stanno di qua e quelli che stanno di là. Uno che sta di là non verrà mai di qua. Ma per uno che sta di qua non è difficile passare di là. Non so esattamente il perché e il percome, però è sicuro che con la sua macchina e il suo passaporto portava i soldi a San Marino. Non ve l’hanno detto? Berhanu stava a Bologna con la scusa dell’università e da lì ogni tanto saliva non so dove, Milano, Torino, la Svizzera. Poi veniva giù coi soldi che erano tanti ma tanti. Non ci stavano in uno zaino. Io glielo dicevo sempre a Pan, è pericoloso. Lei mi dava ragione e un giorno mi fa: sono incinta. Cazzo, dico io. Ma lei mi dice: lui adesso smette e andiamo via. Insieme. Tutti e tre. A Addis Abeba, che chissà dov’è. È a casa sua, diceva, che lì non ci cerca nessuno. Vagano? Sì, anche a Vagano gli volevo bene. Matto, ma sempre gentile. Tante volte parlava strano, credo latino, non capivo. Con lui Pan era diversa. All’inizio lo guardava male, lo odiava, sembrava. Perché? Dicevo io. In fondo era un poveraccio senza testa e senza casa, ma buono. Col tempo è cambiata. Qualche volta era lei a cercarlo. Tanto Vagano stava sempre qui intorno. Non so, per me c’era qualcosa di strano tra loro. Povera, povera Pan…».
Karina non ce la fa più. Del fiume in piena rimangono solo le lacrime.
Emerson smette di riprendere. Il singhiozzo di Karina viene quasi accompagnato dalla musica che ha iniziato a diffondersi nel locale e ha raggiunto i camerini.
Sono le ventitré e il night adesso è aperto, ma sempre deserto. All’improvviso si spalanca la porta e come una furia entra l’agente scelto Cecilia Cortellesi. Mostra il tesserino a Ruben Zavoli che le indica i camerini. È rassegnato, ormai ha capito che non è serata.
Cecilia arriva nel retropalco. Non degna di uno sguardo Karina, o quel che ne resta. Si rivolge subito ai colleghi. Con la faccia stravolta dice: «Vi devo parlare!» poi esce dal camerino, seguita da Appicciafuoco e Balducci.