Diciassette
Costanza Confalonieri si fa lasciare dalla volante in largo Boscovich, sul molo di Rimini.
«Dottoressa, vuole che la segua?» le chiede l’agente preoccupato, vedendola al buio nel posto in quel momento meno frequentato della città, mentre, tra l’altro, ha ripreso a fioccare.
«No, vai pure. Ho bisogno di fare due passi per sgranchirmi gambe e idee.»
L’Alfa della Polizia si allontana illuminando con il lampeggiante blu la neve che cade sopra il tettuccio.
Costanza si infila un berretto di cachemire, se lo cala fino agli occhi e si incammina verso la palata del molo. Non c’è nessuno, solo lei, il mare e la neve. Il mare è l’unico che parla.
Arriva fino al Rock Island e si siede su uno dei gradini all’ingresso del ristorante che, naturalmente, è sbarrato.
Riflette su che bestia strana sia la vita. Solo due giorni prima, guardando la nebbia fitta fuori dalla finestra della sua camera d’albergo (va bene, un Grand Hotel, ma sempre di albergo trattasi), si domandava chi glielo aveva fatto fare e se avesse ancora un senso rimanere lì. A occuparsi di indagini in bilico tra il piccolo e il piccolissimo cabotaggio. A congelarsi nel febbraio romagnolo. No, non era stato il cinema a fare scappare Fellini da Rimini, era stato l’inverno. Costanza ci scommetteva. E si chiedeva se, in fin dei conti, non avesse poi ragione sua madre Olivia che la rivoleva a Milano a occuparsi del figlio, della famiglia, dell’azienda.
Invece ora, eccola qui, quarantott’ore dopo, a capo di un’indagine da serie di Netflix, a guardare sul molo la neve che scende e il faro che, duecento metri più in là, la illumina e la spegne, la illumina e la spegne. In una atmosfera così magica e poetica che Fellini se fosse ancora vivo… no, se fosse ancora vivo, Fellini sicuramente sarebbe rimasto a Roma, però questa immagine l’avrebbe fissata.
Incamminandosi verso il Grand Hotel, Costanza ripensa all’indagine. All’ingenuità, peggio all’idiozia dei due giovani che pensavano di farla franca avendo di fronte non si sa bene chi o cosa, ma di sicuro qualcuno o qualcosa di estremamente potente e spietato. Chissà cosa cazzo li aveva spinti a sfidare questa specie di Spectre. Il bambino in arrivo? L’amore, la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, il carcere, la comunità, le famiglie lontane?
E Vagano? In questo guazzabuglio come si inserisce Vagano? Cosa rappresenta, perché è morto, lui che certamente non aveva rubato niente? Vagano è sempre più la chiave di tutto. Il barbone invisibile, il barbone che mangia le chiavi, il barbone che sa di latino come Seneca.
Nessun dubbio che, per lui, Fellini sarebbe tornato a Rimini.