Ventisette
Orlando Appicciafuoco entra, senza bussare, nell’ufficio del questore.
Umberto Pagani sta parlando al telefono, quindi sta usando l’orecchio destro, quello udente. Quindi non sente entrare l’ispettore capo. Quindi, quando alza gli occhi e se lo trova davanti alla scrivania, sobbalza.
L’ispettore capo gli fa segno di tacere e di uscire con lui.
Il questore ubbidisce. Ormai ha capito che la Polizia di Rimini avrà tanti limiti, ma se c’è da dare un ordine a un questore, ah be’, lì non si tira indietro nessuno.
Orlando lo trascina al bar di fronte. Ordina i caffè e gli spiega che ci sono due nuove vittime.
«Le cose stanno precipitando» dice l’ispettore. «È arrivato il momento di tirare la rete. Ma, da soli, non ce la possiamo fare. I pesci sono troppo grossi.»
«E allora?» chiede il Pagani.
«La Confalonieri ha deciso di coinvolgere i Nocs. Bisogna che lei chiami per dire che ne avremo bisogno nelle prossime ventiquattr’ore. Solo che non possiamo usare né i telefoni della Questura, né i nostri cellulari. Il rischio di essere intercettati è troppo alto.»
«Andiamo in Prefettura» dice il questore che sembra improvvisamente attraversato da una scarica di giovanile euforia.
È bastata quella parola, Nocs.
Quando, il 28 gennaio 1982, un commando dei Nocs, in soli cinquanta secondi, liberò il generale James Lee Dozier dalla prigione delle Brigate Rosse di via Pindemonte a Padova, Umberto Pagani c’era. O sognava di esserci, come tutti i poliziotti della sua generazione. L’aveva sognato talmente tante volte che, alla fine, era come se ci fosse stato davvero. Tanto chi è che andrà mai più a controllare?
Quindi adesso di corsa in Prefettura ad allertare i Nocs. Avete voluto la guerra? E guerra sia. Ma senza farsi capire. Sicut nox silentes.