Capitolo 32
«Attaccano.»
Il pensiero si trasmise mentalmente tra i Protettori, alle luci dell'alba. Gli occadi stavano avanzando; in prima linea, destrana e arcieri. Non era una carica e Aeb rifletté sulla tattica insieme coi fratelli.
«I cani all'avanguardia, gli arcieri per indebolirci. L'esercito seguirà dopo.»
Come un solo uomo, i Protettori impugnarono le armi: ogni guerriero mascherato sguainò uno spadone e un'ascia da combattimento.
«Siamo in numero sufficiente per difenderci con efficacia.» Aeb diffuse l'idea nel gruppo. «La concentrazione è tutto. Siamo una cosa sola. Combattiamo come una cosa sola.»
«Siamo una cosa sola, combattiamo come una cosa sola.» Il mantra echeggiò nelle varie menti, conferendo loro la forza del pozzo delle anime e corroborandone la convinzione di essere invincibili. Erano pronti.
Da tutte le parti scoccarono frecce, e i destrana furono sguinzagliati. I loro ululati furono coperti dal ruggito degli occadi.
«Scudo.»
Le frecce rimbalzarono. Le grida di guerra degli occadi si affievolirono, ma i destrana continuarono a correre. Cani enormi, grandi quanto puledri, con la bocca irta di zanne. Un'altra raffica di frecce; non più di cinque superarono lo scudo. Nessun Protettore cadde.
C'erano settanta destrana, smaniosi di uccidere. Balzarono in cerca di un collo, di una coscia o di un ventre, ma i Protettori erano pronti. Aeb abbassò l'ascia sul cranio di una bestia che era saltata verso il compagno, uccidendola all'istante.
«Aeb, spada a sinistra quarto inferiore.»
Lui colpì senza guardare, sentendo la spada affondare nel petto di un destrana. Il pensiero era giunto nel momento stesso in cui aveva percepito l'animale: una semplice indicazione, ma era tutto ciò che gli serviva. Aeb affondò l'ascia nel dorso di un terzo cane, mentre con la spada teneva ancora infilzato a terra l'animale colpito poco prima.
Gli ordini si susseguivano in tutto il cerchio, e le spade e le asce gli tenevano dietro. Settanta destrana erano troppo pochi, ce ne sarebbero voluti almeno trecento, e quelli che non scapparono a nascondersi dietro le gambe dei padroni morirono senza riuscire a sferrare una zampata o ad azzannare i Protettori. Troppo lenti, troppo prevedibili.
Tra i ranghi degli occadi calò il silenzio. Senedai esitò prima di ordinare altre raffiche di frecce. Di nuovo lo scudo tenne. Solo un Protettore fu ferito, a una coscia; arretrò per curarsi.
I corni da guerra risuonarono. I Protettori non si trovarono di fronte a una carica precipitosa, ma a un'avanzata cauta e serrata.
Aeb percepì il nervosismo degli occadi mentre si avvicinavano e lo comunicò mentalmente ai fratelli. «Il loro comandante non ha il coraggio di combattere questa battaglia. Gli incutiamo timore. Cercate quelli al comando. Combattete come una cosa sola. Siamo una cosa sola.»
«Combattiamo come una cosa sola, siamo una cosa sola.» Il secondo mantra echeggiò nelle menti.
Nessun pensiero fu rivolto al numero soverchiante di guerrieri che avanzavano; tutti erano concentrati sulla totalità che costituiva il loro essere.
I destrana erano morti; il loro sangue luccicava sul terreno in quella mattina umida, sotto la pioggerellina. Gli occadi sapevano con certezza che i primi a entrare in battaglia sarebbero morti. Era inevitabile.
«Verso la vittoria. Non possiamo fallire.»
Lord Senedai faticò a tenere la bocca chiusa mentre assisteva al massacro dei suoi cani da guerra. I destrana erano temuti da tutti gli uomini, la loro ferocia e la loro bramosia d'uccidere erano leggendarie. I Protettori, però, non avevano quasi battuto ciglio, avevano solo fatto un passo indietro quando ciò consentiva loro una migliore angolazione per colpire. Sembravano sapere da dove arrivasse l'attacco prima ancora che partisse e, anche se la vista poteva essere ingannata dalla distanza, Sene-dai avrebbe giurato che alcuni di loro colpivano senza guardare, centrando sempre il bersaglio. Non si muovevano alla cieca, erano una forza precisa e ordinata, e ciò spaventò il Lord degli occadi più di qualsiasi altra cosa.
I destrana si erano lanciati alla carica ululando in gruppi compatti ed erano morti tra i gemiti, coi corpi mutilati che si contorcevano. Senedai si scosse da quei pensieri quando le grida dei suoi si trasformarono in echi in mezzo alla nebbia e alla pioggia. Un silenzio teso e inquietante avvolse l'esercito degli occadi; nessuno aveva visto un solo nemico cadere. Tutti guardavano il comandante, aspettando gli ordini; i segnalatori erano pronti, in attesa, alla sua sinistra.
«Mio signore? Non dobbiamo perdere l'impeto.»
«Lo so!» ribatté Senedai. «Segnalate di avanzare da tutte le direzioni. Marcia lenta. Costringiamoli a guardare mentre ci ammassiamo sotto il loro naso e ad avere paura di quello che tra poco li travolgerà. Solo i ranghi anteriori. Le retroguardie stiano pronte a un mio ordine.»
Le bandiere si sollevarono e i corni suonarono. Gli occadi avanzarono. Senedai aveva il cuore che gli batteva forte nel petto mentre si spostava gridando parole d'incoraggiamento, esortando a tenere un passo lento, anche se nessuno degli uomini che aveva vicino desiderava lanciarsi verso una morte certa.
Dalle rovine della residenza di Septern non ci fu reazione. I Protettori rimasero immobili, col sangue che gocciolava dalle spade e dalle asce; i volti mascherati non lasciavano trapelare niente e i corpi trasudavano un'aggressività controllata.
Di nuovo fu ordinato agli arcieri di tirare. Di nuovo una raffica di cento dardi fu deviata da una barriera invisibile. Eppure non c'erano maghi.
«Che diavolo sta succedendo?» sbottò Senedai, travolto dalla frustrazione. «Chi sono quegli uomini?» mormorò, impaurito.
D'un tratto si udì il canto agli spiriti. Levatosi come un rombo dalle prime linee in ogni direzione, si diffuse tra l'esercito degli occadi facendo formicolare la pelle di Senedai e rinfrancandogli il morale tentennante. Era il canto per affrontare la lama del nemico, per accettare la morte da guerriero, se fosse giunta, e per legare per sempre gli spiriti al popolo degli occadi. Ripetute all'infinito con rabbia, le parole uscivano dalle labbra fino a creare una cacofonia che sovrastò il cozzare delle armi e il pestare di migliaia di piedi. Alla fine la marcia partì, il tempo del canto aumentò spingendo i guerrieri ad avanzare. Davanti a loro, la forza mascherata si mosse con le asce sollevate e le spade puntate verso terra, pronta a respingere l'ondata che stava per abbattersi.
La minaccia aleggiava pesante nell'aria del mattino, permaneva bassa e cupa mentre le nubi in alto dispensavano una pioggia leggera in attesa però di scatenare un diluvio.
Darrick aveva condotto il suo esercito direttamente verso l'orda che li aspettava, pretendendo ordine e velocità. Sapeva che gli occadi stavano osservando, proprio come i suoi esploratori osservavano loro, e voleva mostrare un atteggiamento sicuro e determinato. Perciò esortava i soldati mentre marciavano con la cavalleria che segnava il tempo davanti, senza mai variare il passo.
In campo aperto, a poco più di un miglio da dov'era accampato Tessaya, Darrick fece fermare la colonna. Un unico suono di corno fu seguito da una ridda di ordini lanciati da un centinaio di bocche, ma ogni uomo, elfo e mago sapeva cosa fare. Furono istituite le posizioni difensive, fu stabilito un perimetro, fu eretto il posto di comando e furono infine costituite le linee dei reggimenti. I maghi avevano accanto guardie munite di spade, gli elfi scrutavano la foresta Grethern a sud e i rilievi spogli a nord. Furono scavate le buche per il fuoco e le latrine, montate le tende; gli animali vennero chiusi in recinti e sorvegliati, i carri dei furieri e degli armaioli svuotati. I magazzini e le forge erano attivi in meno di un'ora dall'arrivo.
Un sorriso comparve sulle labbra di Darrick. «Non male, se si considera che meno di un migliaio sono soldati esperti», commentò.
Blackthorne ridacchiò. «Be', i contadini e i viticoltori di Blackthorne sono sempre stati gente pratica.»
Darrick lo studiò con attenzione, non capendo se scherzasse.
Gresse gli diede la conferma. «E i difensori vittoriosi di Gyernath se ne stanno lì a guardare, eh?»
«Hanno avuto il permesso di assistere i miei esperti», disse il barone più giovane, con gli occhi che gli luccicavano sotto le sopracciglia scure.
Darrick si schiarì la gola. «Dovreste dare agli occadi qualcosa su cui riflettere.»
«Mi aspetto che Tessaya cada in preda a un terrore cieco quando saprà dell'efficienza dei vinai e dei vendemmiatori di Blackthorne», disse Gresse. Darrick si accigliò di fronte alla frivola battuta e l'espressione di Gresse s'irrigidì. «Scusate, generale. Diteci quando pensate di avanzare.» Si sedette su una delle sei sedie disposte intorno al tavolino su cui erano disposte le mappe, nella tenda di comando.
«Pranzeremo, poi alzerò la bandiera di tregua e mi avvierò con una piccola scorta di una decina di cavalieri.»
«E noi», aggiunse Blackthorne.
Darrick si accigliò di nuovo e guardò fisso l'alto e severo barone. Stavolta non vi colse nessuna traccia di umorismo.
«Conosco Tessaya. Compra, o meglio comprava, i miei migliori vini», spiegò Blackthorne. «Forse potrebbe ascoltarmi.»
«E voi, barone Gresse?»
«Cavalcherò al vostro fianco, per conferire maggior sostegno e peso al discorso. Tessaya non lo deve vedere semplicemente come uno stratagemma. Una delegazione di tre balaiani anziani potrebbe avere una certa influenza su di lui.»
«D'accordo. Tessaya è un uomo difficile da affrontare, ora che si trova così all'interno delle nostre terre.» Darrick provò un sollievo che sapeva non avrebbe dovuto provare nelle vesti di generale, ma nei due baroni c'era qualcosa che ispirava sicurezza. Ritenne fosse un'effettiva determinazione a vincere, un rifiuto di accettare la possibilità della sconfitta; di certo era quello che vedevano i loro uomini ed era la ragione per cui un pugno di soldati e un esercito di contadini avevano tanta rilevanza sull'esito della guerra. «Tessaya rispetterà la bandiera di tregua?»
«Sì, e non perché sia particolarmente onorevole», rispose Blackthorne. «È un uomo intelligente, per nulla incline a sacrificare i suoi se può garantirsi la vittoria negoziando la resa.»
«Ma incline a effettuare valutazioni sbagliate nel momento cruciale», commentò Darrick. «Per esempio, avrebbe potuto affrontarci a Understone in una posizione molto più forte. Credo che si sia fatto prendere dal panico.»
«Forse», convenne Blackthorne. «Ma non dobbiamo presumere che sbagli di nuovo.»
Due ore dopo, i tre si allontanarono a cavallo dall'accampamento, con la scorta disposta in fila alle loro spalle e un unico cavaliere davanti che portava la bandiera metà bianca e metà verde, usata per richiedere un colloquio pacifico.
A poco meno di cinquecento passi dall'esercito degli occadi furono fiancheggiati da trenta guerrieri muniti di asce che, spuntati dalla foresta senza dire una parola, si accostarono svelti ai cavalli. Erano una guardia d'onore, e Darrick si sentì paradossalmente un po' più tranquillo rispetto a quand'erano soli, anche se indicò ai due maghi di mantenere gli scudi.
Poco dopo raggiunsero la sommità di un rilievo, e gli occadi apparvero sotto di loro. L'accampamento si estendeva su pascoli e campi coltivati. Centinaia di fuochi ardevano nel cielo umido del primo pomeriggio; bandiere e stendardi giacevano flosci e le tende, che parevano quasi aggrapparsi al terreno, erano ben ordinate e spaziate. Rinunciando per ragioni di tempo a palizzate e torri di guardia, gli occadi avevano invece istituito una linea di sentinelle lungo il confine. Nessun attacco furtivo sarebbe stato possibile e Tessaya voleva che lo sapessero.
Quando entrarono nell'accampamento, la tranquillità di Darrick svanì. Migliaia di occhi si girarono a guardare, il brusio di chi lavorava e parlava cessò e una violenta ostilità pervase l'atmosfera. Da tutte le parti i guerrieri delle tribù accorsero per vedere più da vicino il nemico; sciamani con la pelle dipinta avanzarono per guardare malevoli il gruppo venuto a parlamentare, muovendo mani e bocche per maledire.
Ma nessuno superò la guardia d'onore che si faceva strada a forza nella calca sempre più fitta, diretta a una tenda identica a tutte le altre tranne per l'ingente forza di sicurezza che la circondava e per gli stendardi conficcati nel terreno su entrambi i lati dell'ingresso a formare uno stretto passaggio.
La guardia d'onore fece fermare il corteo e indicò ai balaiani orientali di scendere.
«State coi cavalli.» Darrick diede le istruzioni al caposquadra, un mago elfo. «Non guardate nessun guerriero negli occhi e tenete saldi quegli scudi.»
«Sì, signore», replicò l'elfo, il cui tono di voce tradiva la paura che gli serpeggiava nel ventre.
Il generale vide gli occadi premere da tutte le parti verso la tenda del comando. Se le trattative fossero andate male, la delegazione orientale non avrebbe potuto in nessun modo fuggire.
«Abbiate fede», disse Blackthorne, cogliendo lo stato d'animo di Darrick. «Se dovessimo morire, il nostro esercito ha ancora tutti gli elementi giusti per vincere.»
«Confortante l'idea che non abbiano davvero bisogno di me», osservò il generale.
«Sapete cosa intendo.»
La tela marrone all'ingresso della tenda fu scostata e un vecchio sciamano fece cenno di entrare. La tenda era arredata in modo semplice: a sinistra, un basso giaciglio; a destra, un tavolo con carne, pane, caraffe e calici. Su entrambi i lati dell'ingresso c'era un guerriero di guardia. Il vecchio sciamano, con indosso una tunica marrone, si portò alle spalle del comandante, che sedeva eretto e guardava i nuovi venuti al di sopra di un piatto di cibo mangiato a metà.
«Benvenuti nelle mie terre», disse Lord Tessaya, mentre un sorriso irritante gli compariva sul volto segnato.
«Vi ringrazio per averci concesso udienza», disse Darrick, ignorando il rozzo tentativo di provocazione. «C'è una questione cruciale di cui dobbiamo discutere.»
Tessaya annuì. «La vostra resa. Confermerà il dominio degli occadi sulle terre orientali e impedirà morti inutili.» Guardò oltre Darrick. «Barone Blackthorne, è sempre un piacere vedervi.»
«Sono sicuro che presto potremo goderci la migliore bottiglia delle mie cantine, mio signore», replicò Blackthorne. «Presumendo che le vostre forze non abbiano trovato modo di accedervi. Ma, se non ascolterete il generale Darrick, è un piacere di cui verremo privati tutti quanti.»
Lo sciamano si piegò e sussurrò all'orecchio di Tessaya.
«Conosco già la vostra disperata ricerca di aiuto al di là di questo mondo», disse Tessaya. «Anche se mi ritardate qui con chiacchiere senza senso, Lord Senedai distruggerà la residenza di Septern e poi il vostro prezioso Corvo. Ben presto travolgerà i guerrieri mascherati; quando lo farà, Balaia e un altro mondo saranno aperti ai miei eserciti conquistatori. Parlate, generale Darrick. Vediamo se siete bravo a parlare quanto a combattere.» Tessaya si appoggiò alla sedia e bevve un'abbondante sorsata dal calice che teneva in mano. A uno schioccare di dita, una delle sentinelle alla porta si precipitò ad afferrare una caraffa per riempire nuovamente il calice.
«Balaia è in pericolo. C'è un buco nel cielo sopra Parve. Collega il nostro mondo a un altro e dev'essere chiuso, se vogliamo evitare di essere invasi dai draghi. Il Corvo è partito per portare a termine l'impresa. Se Lord Senedai lo blocca, moriremo tutti. Sono venuto qui per chiedervi di fermarlo prima che commetta un crimine colossale in nome degli occadi.» Darrick scrutò il volto di Tessaya, per capire se lo stesse davvero ascoltando. Restò imperturbabile di fronte allo sprezzo che gli vide comparire sul viso.
«Mi dovete credere uno stupido, e questo mi affligge molto», disse Tessaya. «Dovreste provare rispetto per tutto quello che ho conseguito, invece inventate storie cui non crederebbe neanche un bambino.»
«È la verità», affermò Blackthorne. «Sapete che sono un uomo d'onore. Non vi mentirei.»
«Quello che so è che gli uomini disperati mettono da parte i principi che li condurrebbero a morte certa», replicò Tessaya.
«Vi dirò io cos'è vero. I draghi arriveranno qui, certo, e con ciò si avvererà una profezia dei nostri Antichi, a meno che io non li fermi. Cosa che farò. Non esiste nessuna minaccia da quella cosa in cielo. I miei messaggeri mi dicono che è semplicemente il segno del fuoco di Parve, distrutta per mano vostra. Non starò ad ascoltarvi mentre i vostri alleati cercano l'aiuto dell'unica forza che possa impedire agli occadi di marciare su Korina. Però vi dimostrerò più rispetto di quello che avete dimostrato a me. Se rifiutate una resa onorevole e volete fermare gli occadi, sarà sul campo di battaglia. Perciò andate e preparatevi a combattere, se ne avete il fegato. Come previsto dalle regole del colloquio di tregua, conterò fino a trecento per consentirvi di lasciare il campo. La conta è iniziata.» Tessaya rivolse quindi l'attenzione al cibo rimasto nel piatto.
Alle spalle di Darrick, la tela che bloccava l'ingresso della tenda fu scostata. Il generale la ignorò, avanzò a grandi passi e pestò le mani sul tavolo. Fece tremare il piatto e rovesciò il calice, che piroettò versando a terra il suo contenuto. «Che succede se invece dico la verità e i vostri uomini impedissero al Corvo di richiudere lo squarcio? Sarà troppo tardi per chiedere perdono, quando i draghi devasteranno Balaia e voleranno sulle terre degli occadi.» Darrick sentiva la rabbia bruciargli in corpo. Udì una spada che veniva sguainata, ma non vi prestò attenzione. «Cosa farete?»
Tessaya incrociò il suo sguardo e gesticolò per allontanare i suoi guerrieri. Sorrise. «Se questo è quello che credete, sarà meglio che il Corvo riesca a sfuggire al mio esercito del Nord. La conta continua.»
Blackthorne e Gresse si avvicinarono alle spalle di Darrick e lo scostarono con delicatezza.
«Capisco il vostro scetticismo, ma non cambia i fatti», disse Blackthorne. «Come gesto di buona fede, io e Gresse rimarremo qui, vostri prigionieri. Se ciò che diciamo dovesse rivelarsi falso, saremo alla vostra mercé.»
Tessaya si mise in bocca un pezzo di carne. «Siete un uomo coraggioso, barone, e non provo che ammirazione per l'abilità con cui avete sconfitto il mio esercito del Sud. Rimpiango quasi di avere distrutto la vostra città, ma queste sono le necessità della guerra. Mi avete fatto un'offerta generosa, ma che vittoria vuota sarebbe infilzare le vostre nobili teste sulle lance mentre la mia gente viene uccisa dai vostri alleati draghi? Non capite? Ben presto, dopo che vi avrò sconfitto, marcerò vittorioso su Korina. Governerò Balaia. Perciò, vedete, siete già alla mia mercé.» Tessaya fece un cenno allo sciamano, che assentì e si spostò rapido verso la porta della tenda. «Arnoan vi scorterà ai confini del campo. Ci vediamo in battaglia.»
I tre balaiani anziani si guardarono. Darrick si sentì travolgere da un senso di disperazione, e per un istante considerò d'infrangere le regole del colloquio di tregua e uccidere Tessaya; ma sapeva che Blackthorne e Gresse sarebbero intervenuti per bloccarlo. Quel secco rifiuto era piuttosto prevedibile, ma lasciava il Corvo indifeso nel caso in cui Senedai avesse sconfitto i Protettori. Mentre si allontanava a lunghi passi dalla folla, Darrick si ritrovò a pregare che gli abomini xeteskiani fossero all'altezza della loro reputazione.
Sha-Kaan si levò in volo dall'Apertura d'Ali quando il sole cominciò ad abbassarsi in cielo. Il Grande Kaan, stanco per gli sforzi compiuti in battaglia e privo di un corridoio d'interscambio ora che Hirad Coldheart era nel suo regno, allungò le ali per cogliere il vento ad alta quota, diretto di nuovo all'oceano Shedara per far visita a Tanis-Veret.
L'aria fredda gli schiarì la mente; la velocità gli gelava i polmoni quando apriva la bocca per respirare e servì anche a placare la rabbia suscitata dalle parole di Hirad Coldheart. Sha-Kaan si accorse di capire il vero senso delle parole del suo dragonene, e ciò gli suscitò sentimenti inconsueti. Era abituato a veder eseguire gli ordini senza discussioni né errori. Eppure il Corvo gli aveva detto che non c'era certezza di successo nella missione e Hirad gli aveva illustrato un concetto balaiano che gli era del tutto estraneo: il meglio che un uomo potesse fare doveva essere ritenuto abbastanza, anche se comportava il fallimento totale o perfino la morte. Sha-Kaan non aveva nascosto il disprezzo; aveva avuto l'impulso di uccidere quel debole umano, ma per l'ennesima volta Hirad era riuscito a fermarlo con logica inoppugnabile.
«Uccidimi e non saprai mai se siamo in grado di farcela. E morirai. Se falliamo, moriremo lo stesso tutti e vedrai realizzato il tuo desiderio.» Il barbaro aveva parlato con calma.
Mentre volava verso un incontro importante, Sha-Kaan riusciva a capire lo sforzo compiuto dai componenti del Corvo. Avvertiva il loro desiderio di riuscire e sapeva che erano consapevoli delle conseguenze del fallimento per loro stessi, per Balaia e per i Kaan. Ma sapere non equivaleva a fare.
Un altro sentimento pervase il drago: una profonda paura. In passato aveva temuto di essere ferito, di affrontare la rabbia dei propri simili, di perdere i piccoli prima che raggiungessero la maturità. Ma la paura che stava provando mentre volava verso i Veret era legata alla possibilità che l'intera stirpe Kaan si estinguesse, e alla constatazione che solo il Corvo potesse fare qualcosa per modificare la situazione.
Quel gruppetto di balaiani andava protetto a tutti i costi, e ciò significava ridurre la difesa davanti alla porta. C'erano troppo pochi draghi sani. Elu-Kaan era quasi in punto di morte, senza il suo dragonene che lo aiutasse, affidato alle cure dei vestare. Tutti i corridoi d'interscambio erano in uso. I Kaan avevano bisogno d'aiuto e c'era solo una stirpe cui richiederlo. La tragedia era che si trattava dei Veret, che avevano preso di mira nell'ultima battaglia sapendo che scacciandoli avrebbero spezzato la stretta mortale dei Naik. Aveva funzionato ma, se i Veret avessero rifiutato la proposta di Sha-Kaan, morte e mutilazioni non sarebbero serviti a nulla.
Abbassandosi di quota nella notte piena del cielo sopra l'oceano Shedara, il Grande Kaan temette che la sua stirpe avesse fatto un lavoro fin troppo accurato. Nessuna guardia si alzò in volo per andargli incontro, nessun Veret cercò vendetta. Nessun drago pattugliava i confini aerei, e la distesa d'acqua era immobile.
Sha-Kaan atterrò sulla roccia dell'incontro; mise la testa sotto la superficie dell'oceano e urlò negli abissi impenetrabili. Cercò con la mente Tanis-Veret, comunicandogli il suo dolore e la sua disperazione per quanto era accaduto nei cieli sopra Teras. Gli comunicò le sue necessità e l'urgenza della situazione. Poté solo pregare i cieli che Yaltemelde lo sentisse. Poi ritrasse la testa e si appiattì sulla roccia, allungando il collo. Era per mantenere i muscoli in estensione e apparire deferente dall'alto, ma soprattutto consentiva ai sensori del corpo di coprire l'intera isola buia spazzata dal mare, per individuare eventuali vibrazioni nell'acqua circostante.
Sha-Kaan attese per quella che gli parve un'eternità, esposto e vulnerabile in caso di attacco. Quando un battito smorzato trasmesso dalla roccia lo avvertì dell'avvicinarsi di un grosso drago che saliva poderoso dagli abissi, si mise a sedere e piegò il collo per salutare il capo dei Veret.
Tanis-Veret comparve in cielo sollevando acqua in tutte le direzioni e creando onde nel punto di emersione. Teneva le ali piegate per sollevarsi ed erano tutte sbrindellate sul bordo posteriore. Urlò il suo scontento e sputò una lunga fiammata in aria girando lento intorno alla roccia; poi atterrò pesantemente, gettandosi acqua con la coda sulla parte sfregiata della schiena. Sollevò il collo e trafisse Sha-Kaan con uno sguardo malevolo. «Sei qui per assistere alla distruzione finale dei Veret, Sha-Kaan?» Guardò il cielo, come se si attendesse di vederlo pullulare di draghi nemici.
«No. Sono qui per offrire alla tua stirpe una possibilità di salvezza», rispose il Grande Kaan, chinando leggermente il capo in un quasi impercettibile gesto di rispetto.
«Parole vuote», ribatté il vecchio Veret. «I tuoi occhi non hanno visto ciò che la tua stirpe ha fatto.»
«Ora noi...»
«Sotto i nostri piedi, quello che resta della mia stirpe si aggrappa alla flebile speranza che i Naik onorino la promessa e ci lascino in pace quando i Kaan saranno distrutti. Siamo rimasti in meno di settanta, molti sono quasi in punto di morte nei corridoi d'interscambio. Tra quelli ancora in grado di volare, io sono quello che sta meglio, anche se le squame della mia schiena non si salderanno mai, tale è stata la ferocia del fuoco, degli artigli e delle zanne dei Kaan.» La voce di Tanis-Veret divenne un'eco di se stessa, spezzata, svuotata. «Non ho nemmeno draghi per sorvegliare i confini. Lasciaci, Sha-Kaan, hai fatto abbastanza.»
Il Grande Kaan non si mosse, e ciò sarebbe stato un palese atto di aggressione se Tanis-Veret avesse voluto considerarlo tale.
Il drago ferito si limitò a scuotere la testa. «Capisco.»
«Per gli alti cieli, Tanis, tu non capisci!» tuonò Sha-Kaan. «Sono venuto qui e ti ho pregato di non allearti coi Naik, di fidarti di noi, ti ho spiegato che vi avremmo protetto da loro. Tu però non hai voluto ascoltare, perciò siamo stati costretti a combattervi perché eravate l'anello più debole. Non è di conforto per nessuno, ma i Kaan non hanno tratto nessun piacere dalla vostra rovina. Ora abbiamo la possibilità di aiutarvi a sopravvivere.»
Una risata si levò come un rombo dal petto di Tanis-Veret, che emise quindi un brontolio di gola. «Come potete aiutarci? Anche i Kaan sono finiti. La porta è troppo grande perché riusciate a difenderla ancora. Lo vediamo tutti. Quando i Naik raduneranno i loro alleati, verrete distrutti, e la vostra dimensione d'interscambio con voi.»
Sha-Kaan chinò la testa. La conoscenza incompleta che Tanis-Veret possedeva lo convinse a dire tutto. «Ora abbiamo i mezzi per chiudere la porta, e abbiamo bisogno di voi per avere il tempo di farlo.»
«Non vedo ragione per fidarmi delle tue parole.»
«Ti faccio un'offerta, Tanis-Veret. Spetta a te accettarla. Sono venuto da solo e con grande rischio per parlarti, e sono onorato che tu mi dia ancora udienza. I nativi della mia dimensione d'interscambio sono venuti qui per utilizzare le loro capacità e chiudere la porta nel cielo. È stata creata dalla loro magia e può essere cancellata con quella stessa magia. Ma saranno a terra, e vulnerabili, quando si metteranno all'opera.
«Se vi unirete alla battaglia dalla parte dei Kaan, potremo difenderli. Se dovessero riuscire, i Kaan ritornerebbero presto in forze. Non credo che i Naik vi lascerebbero in pace, qualora dovessero trionfare. Quello che vi prometto, e sai che le mie parole sono degne di fiducia, è che dopo la vittoria vi proteggeremo. Terremo i nemici lontani dai vostri confini mentre guarirete, resterete al sicuro e vi moltiplicherete. Mai più i Veret e i Kaan si combatteranno. Le nostre terre non sono vicine, non abbiamo motivo di essere in conflitto. Così è per i Kaan.
«Non mi aspetto che tu mi risponda ora. Il destino della tua stirpe dipende dalla tua decisione. Ho bisogno del tuo aiuto, la stirpe Kaan ha bisogno del tuo aiuto. Ora devo andare. Devo prepararmi per la battaglia, come devi fare tu. Forse ti vedrò buttarti in picchiata sui Naik.»
«Che i cieli siano con te, Sha-Kaan», salutò Tanis-Veret, in tono pensieroso. «Risponderò alla chiamata dei Naik, come d'obbligo. Ma questa è l'unica cosa che devo fare.»
«Come desideri, Tanis-Veret.» Il Grande Kaan spiegò le ali, gridò un saluto e volò verso casa col cuore un po' più leggero mentre rivolgeva la mente alla battaglia.