Capitolo 28
Lord Senedai si aggirava tra le rovine del College mentre i suoi guerrieri si preparavano a marciare rapidamente verso sud. Sapeva che il giovane mago avrebbe parlato: era bravo con la magia, ma debole di volontà sotto tortura. Averlo trovato debilitato e in infermeria era stato un vantaggio in più. Gli altri del Consiglio li aveva semplicemente fatti uccidere; era l'unico modo per ridurre il pericolo. Tutti tranne Barras. Fino a quel momento, l'elfo era riuscito a eludere gli occadi; il College aveva un'ampia parte sotterranea in cui nascondersi. Senedai si disse che non avrebbe lasciato Julatsa senza la testa del vecchio mago. Solo allora avrebbe inseguito il Corvo, che possedeva l'arma per portare i draghi su Balaia e vincere la guerra, l'arma che avrebbe trasformato in realtà il mito della rovina dei popoli d'Occidente. Un uccello messaggero era già in volo per avvertire Tessaya.
«Barras, dove vi siete nascosto?» Senedai stava attraversando il cortile che circondava la torre.
I suoi uomini stavano saccheggiando il College. I ciottoli erano inondati del sangue dei maghi, i cui corpi erano disseminati sui bastioni, nel cortile e nelle sale degli antichi palazzi in fiamme, mentre la popolazione se ne stava raggruppata alla porta sud, sorvegliata dai guerrieri. Per quelli che erano stati da poco liberati dal granaio, il fulmineo ritorno alla prigionia fu troppo, e il pianto di uomini e donne indicava in modo più che eloquente lo stato d'animo dei sopravvissuti. Non c'erano più speranze di salvezza; nessuno sarebbe giunto a salvarli, e tutte le teste erano chine in un gesto di disperata sottomissione.
I pochi soldati ancora in vita, dimostratisi coraggiosi nonostante le circostanze avverse, avrebbero avuto l'onore di scegliere: morire da guerrieri o accettare la schiavitù. I cittadini non avrebbero avuto tale onore; avrebbero ricostruito la città per i nuovi signori.
Senedai smise di camminare; la risposta alla sua domanda si trovava davanti a lui. La torre era l'unico edificio a non essere stato danneggiato dal fuoco e dalla forza degli occadi. I maghi avevano sperato fino all'ultimo che la paura degli occadi per la magia li tenesse lontani dal centro del College. E invece il College era in rovina e la torre era solo l'ennesimo palazzo che attendeva di essere sgombrato.
Senedai sorrise. Tutti gli occadi temevano il potere contenuto in una torre di magia, ma in seguito alla morte di tanti maghi era di certo un potere ridotto. Chiamò a sé cinque o sei uomini, ne scacciò le ansie con un gesto della mano, corroborando in tal modo anche la sua scarsa sicurezza. «Il College è nostro», annunciò. «Chiunque si trovi là dentro è spaventato e sconfitto. Seguitemi, e ci assicureremo la vittoria definitiva.»
Subito dopo essere entrati nella torre, gli occadi cominciarono ad avvertirne il peso. Un'atmosfera soffocante che premeva sulle spalle e sul collo, che chiudeva la gola e rendeva gli arti di piombo. Ciò servì solo ad aumentare l'inquietudine generale, e Senedai dovette sforzarsi per non esitare.
Il Lord tribale temeva di dover perquisire l'intera torre per trovare la sua preda, ma non ne ebbe bisogno. Una volta all'interno, mentre girava intorno alla colonna centrale, udì alcune voci provenire da sotto: mormoravano e cantilenavano. Condusse i suoi uomini giù per una breve rampa di scale che costeggiava il muro esterno. In fondo trovò un'unica porta, all'esterno della quale c'era un uomo. Senedai avanzò con la spada in mano. «Ah, l'ultima linea senile di difesa.»
«Una linea che per dodici giorni ha tenuto a bada i vostri guerrieri senza fegato e senza cervello», replicò il generale Kard. «E farò personalmente in modo che non vada oltre.» La spada era pronta, ma Kard non fece nessuna mossa per attaccare.
«È tempo di una resa onorevole», osservò Senedai. «La battaglia è finita.»
«Quanto poco sapete.»
Dietro la porta chiusa le voci aumentarono di volume e di velocità, per interrompersi d'un tratto ed essere sostituite da una sola. Forte, sicura di sé, determinata. Barras.
«Toglietevi dai piedi altrimenti vi faccio a pezzi», ringhiò Senedai.
«Fate pure.» Kard balzò in avanti e la sua spada lampeggiò alla luce delle lampade.
Era stata una mossa veloce, compromessa però dall'età e dallo sforzo; Senedai riuscì a bloccarla e a rispondere con una stoccata che Kard abilmente parò. I guerrieri che accompagnavano Senedai si fecero avanti e abbassarono le asce simultaneamente.
Il generale deviò un colpo con la spada, ma un altro andò a segno sulla spalla facendolo piombare in ginocchio. La spada cadde a terra tintinnando; Kard si accasciò contro la porta, tenendosi la ferita con la mano mentre il sangue gli scorreva sul braccio e sul petto.
Senedai gli si accovacciò di fronte. «Siete un uomo coraggioso, generale Kard, ma stolto. Non era necessario che moriste.»
Kard scosse la testa, ma non riuscì a sollevarla per guardare in faccia l'avversario. «Vi sbagliate», mormorò mentre l'ultimo respiro gli usciva rantolante dai polmoni. «Era più che necessario.»
A un gesto di Senedai, uno dei guerrieri scostò il generale. Dietro la porta, era calato il silenzio. La torre si mosse leggermente e la polvere scivolò via dal legno e dalle pietre.
«Buttate giù la porta!» ordinò il Lord tribale.
Era chiusa a chiave, ma con un calcio ben mirato si spalancò vibrando sui cardini. Al centro della stanza zeppa di libri e pergamene, sei maghi erano inginocchiati in cerchio. Di nuovo la torre si mosse, e stavolta lo spostamento fu più netto; si udì un rumore di ceramica che s'infrangeva sulla pietra. Un clima di terrore si riversò nel corridoio; Senedai indietreggiò di un passo, i suoi guerrieri di più. L'aria era tanto densa da essere soffocante, paralizzava pensieri e muscoli. La torre tremò, le lampade precipitarono dalle pareti; il fragore del vetro che si rompeva echeggiò nella costruzione. Gli occadi vacillarono; uno cadde spaccandosi la testa su un muro, gli altri si scambiarono occhiate ansiose leccandosi le labbra secche.
«Mio signore?» La supplica era pregna di paura.
Senedai la ignorò. Il suo sguardo incrociò quello di Barras.
Il vecchio elfo sorrise. «Potete prendere i nostri palazzi e le nostre vite, ma non potrete mai prenderci il Cuore.»
«Mi dovete la testa.»
«Il patto è cambiato. Ora vi suggerisco di lasciare la mia torre prima che diventi anche la vostra tomba.» Barras alzò le braccia al cielo e pronunciò parole che Senedai non poteva capire.
La torre oscillò violentemente, alcuni pezzi della volta crollarono, le travi si spaccarono, le pareti si creparono, i pavimenti cedettero. Davanti agli occhi sgranati degli occadi, la stanza in cui i maghi erano inginocchiati cominciò a sprofondare. Il legno gemeva e strideva; pietre e mattoni si abbattevano al suolo col rombo di un tuono. Vibrava tutto.
«Andate via! Lasciate il mio College», gridò Barras. La porta si richiuse sbattendo, spinta da una mano invisibile.
Senedai si voltò verso i guerrieri terrorizzati. «Che aspettate? Andate! Muovetevi!»
Come per esortarli ad affrettarsi, dalla stanza che sprofondava si levò il gemito straziante del legno, dei supporti e delle pietre. I guerrieri si girarono e fuggirono, tallonati da Senedai, mentre le pareti tremavano e la polvere riempiva l'aria. Lampade e bracieri cadevano; la tenebra avanzò lungo le scale alle spalle degli occadi.
Uscirono a precipizio nel cortile illuminato dal sole e si riunirono coi compagni che stavano fissando a bocca aperta la torre che vibrava. Reti di crepe ne ricoprivano la superficie, come ragnatele mal tessute; qua e là nelle pietre si erano creati fori, in corrispondenza dei quali, a terra, si trovavano cumuli di macerie. Era una visione che faceva paura, ma che alla fine suscitò esultanza quando la torre crollò in un turbine di pietre.
Quando la polvere si dissipò e il fragore cedette il posto al silenzio, Senedai ritornò al posto di comando, con la fastidiosa convinzione che quello cui aveva assistito non era la fine della magia julatsana.
La marcia era stata rapida e fiera, con la cavalleria di Darrick in testa e Blackthorne e Gresse che fiancheggiavano il generale. Dopo avere rimandato tremila uomini a Gyernath perché aiutassero a ricostruire e a difendere il porto danneggiato, Darrick organizzò la sua forza, di poco inferiore a ottomila soldati, dividendola in centurie; formò otto reggimenti, ognuno dei quali marciava dietro un comandante a cavallo.
Si sentivano determinati e sicuri, ma anche sereni. Avevano conseguito importanti vittorie: i difensori del porto avevano mantenuto Gyernath; Blackthorne e Gresse avevano impedito a una forza quattro volte maggiore di raggiungere Understone; Darrick aveva contribuito a saccheggiare Parve, distrutto una linea di approvvigionamento degli occadi e bruciato o requisito ogni imbarcazione che aveva trovato. Ormai le azioni di difesa e di disturbo erano terminate. I balaiani orientali andavano all'attacco, e si parlava di liberazione, non di sopravvivenza.
Avevano impiegato due ore a marciare dalla spiaggia alle alture circostanti il castello di Blackthorne. Si erano aspettati di vedere gli occadi barricati nella cittadina - e gli stendardi sventolare sui merli del castello -, di sentire la paura pulsare nel nemico impotente e di condurre una marcia vittoriosa. Ciò che videro cancellò invece ogni senso di esultanza dai loro cuori.
Blackthorne era stata distrutta. Una coltre di cenere, levatasi da fuochi estinti da tempo, aleggiava ancora nell'avvallamento riparato in cui un tempo sorgeva la città. Sotto quella nube scura non era rimasto in piedi nessun edificio. Le rovine annerite giacevano sparse in una vasta zona. Qua e là un pezzo di legno si ergeva fiero dal terreno, bruciato, ma pur sempre in segno di sfida; delle mura però non restava niente. Delle strade, delle case, delle locande e dei negozi, niente. Del castello, antica dimora dei baroni di Blackthorne, niente. Solo lastre di pietra e travi sparpagliate in un ampio raggio. Era uno spettacolo di devastazione che toglieva letteralmente il fiato.
Gresse affiancò a cavallo Blackthorne, poi smontò di sella per stare accanto all'amico pallido e muto. Una lacrima sgorgatagli dall'occhio sinistro gli rigava la guancia sporca di terra. Non era il momento di parlare, ma di stare accanto a Blackthorne, di dargli tutta la forza che aveva.
Quando l'esercito superò la collina, il silenzio si estese. Echeggiarono basse esclamazioni di sorpresa, qua e là gli uomini del barone caddero in ginocchio, persa ogni volontà, stroncato ogni sogno di tornare a casa. Blackthorne non esisteva più.
Il barone fissò immobile le rovine della sua città. Gresse vide diversi pensieri susseguirsi sul volto dell'amico, sul quale infine spuntò e si diffuse un'espressione di rabbia. Alle loro spalle, l'esercito attendeva: chi era originario di Blackthorne, con aria stordita; chi di Gyernath, con rispetto per l'angoscia dei compagni.
Il barone più giovane si girò per rivolgersi a quanti potevano sentirlo. «Sarò breve.» La sua voce echeggiò sugli uomini ammassati. «Laggiù vedete la mia città. Distrutta dagli occadi. Tra voi c'è chi vede solo rovine là dove un tempo sorgeva la sua casa. Io sono tra quelli. Per questo dobbiamo inseguire gli occadi, per questo gli occadi vanno fermati e scacciati per sempre dalle nostre terre. Voglio vendetta. Ma, più ancora, non voglio che nessun altro di voi provi ciò che provo io.»
La nebbia era proprio come Hirad se la ricordava, come polvere davanti al sole, ma stavolta in una giornata segnata da scrosci di pioggia e vento freddo. La luce malinconica non faceva che aumentare la sensazione di qualcosa che non andava nello squarcio dimensionale.
Il tempo però non era l'unico elemento diverso. Davanti alle rovine della residenza di Septern c'erano Styliann e l'esercito di Protettori, visibili nella nebbia come una macchia scura tanto immobile da sembrare parte del paesaggio.
Il Guerriero Ignoto cavalcava lentamente. Nei quattro giorni di viaggio verso la casa, il suo stato d'animo era cambiato a poco a poco, da un senso di feroce determinazione a un atteggiamento introspettivo e stizzoso, fino a uno stato di confusione e rabbia. Mentre il Corvo si dirigeva verso il basso granaio dove l'Ignoto aveva incontrato la morte, l'irresolutezza dell'imponente guerriero provocò uno scambio di battute irose con Hirad.
«Dovresti superarlo e basta», disse Hirad. «Buttarti tutto alle spalle.»
«Questo dimostra esattamente quanto poco tu capisca.» L'Ignoto indicò con un dito i Protettori. «Loro sanno. Comprendono, ma non possono dire niente.»
«Servirebbe, se potessero farlo?» replicò il barbaro.
«Sì, accidenti a te! Servirebbe.» L'Ignoto tirò le redini, per fermarsi. «Davvero non hai idea di come mi senta?»
Hirad scrollò le spalle. «Sei qui, e respiri. Sotto terra non ci sei tu. Lì non c'è la tua anima.»
L'Ignoto trasalì, come colpito. «'Anima'? Per gli dei della terra, un giorno ti s'incastrerà la bocca!» ringhiò. «Non sai niente della mia anima. In base a quello che è giusto, dovrebbe essere con quelle dei miei antenati. In pace. Non in un corpo che non è quello originario ed esposto a questa... merda!» Fece un ampio gesto con le braccia indicando i Protettori, la casa, il Corvo.
«Se vuoi andartene, fa' pure», disse Hirad. «Abbandona gli unici veri amici che hai. Non ti fermerò.»
«Per amor di Dio, Hirad, ascolta quello che sta cercando di dirti», intervenne Ilkar. «Ignoto, hai bisogno di stare un po' da solo. E forse il granaio è il posto giusto.»
Il barbaro sentì la rabbia crescergli in petto, ma la tenne sotto controllo.
L'espressione dell'elfo si era indurita. L'Ignoto gli fece un semplice cenno, lanciò a Hirad un'occhiata fulminante e spronò il cavallo al passo in direzione del granaio e della tomba che non avrebbe mai dovuto vedere.
«Hirad, dobbiamo parlare», disse Ilkar.
«Ora?»
«Se Denser ed Erienne incontreranno Styliann per conto del Corvo, credo che ora sia il momento ideale.»
Il barbaro inarcò le sopracciglia. «Pensi che sia stato un po' insensibile?»
«Non hai perso la dote dell'arguzia, vero?» replicò Ilkar. «Vieni con me, Hirad Coldheart. Vieni con me e ascolta.»
Il Guerriero Ignoto scese da cavallo a una certa distanza dal granaio e lasciò che l'animale si allontanasse in cerca di erba. La sua mente fu invasa dai ricordi e il cuore prese a battergli all'impazzata nel petto, nel collo e nelle orecchie. Rivide i cani da guerra, i destrana, che gli si lanciavano addosso a zanne scoperte con gli occhi che roteavano nelle orbite. Sentì la spada affondare nella carne, l'alito caldo sul volto, la stretta delle zanne sulla spalla e il sangue che gli fuoriusciva dalla gola squarciata.
Si strinse il collo con la mano protetta dal guanto; la vista gli si offuscò. Aveva in bocca il sapore della morte, i suoni intorno a lui si erano attutiti. Cadde in ginocchio e poi in avanti, sostenendosi sulla mano libera, ansimando per respirare; le lacrime gli velarono gli occhi. Tossì e vomitò, allontanò la mano dal collo e la fissò mentre la vista gli si schiariva. Niente sangue. Niente cani, niente morte.
L'Ignoto alzò la testa e scorse il granaio, ma scoprì di avere lo sguardo incollato al tumulo di terra a lato della porta. «Oh, santi dei, salvatemi!» esclamò.
Ma non ci poteva essere salvezza. Perché, seppure l'Ignoto viveva e respirava, il suo corpo si trovava ancora là sotto.
Vomitò di nuovo. La bile gli riempì la bocca e lui la sputò sulla terra spaccata. «Perché non avete lasciato che trovassi la morte?» mormorò, tirandosi su.
Maledisse Xetesk. La sua casa, in gioventù, ma anche il luogo che gli aveva rubato la morte, che gli aveva dato una vita aberrante, orrenda, dietro una maschera. Maledisse la città e i suoi signori, i maghi che ancora possedevano quegli abomini che erano i suoi fratelli.
A ogni passo gli sembrava di avanzare nel fango sino alla coscia, ma arrivò lo stesso fino alla tomba, tenendo gli occhi fissi sul mucchio di terra privo di segni, fatta eccezione per il simbolo del Corvo che vi era stato impresso. Ormai era sbiadito, eroso in poche settimane dal vento incessante.
Quando alla fine l'Ignoto si ritrovò a guardare il suo tumulo solitario, le lacrime gli caddero incontrollate dalle guance picchiettando il terreno. S'inginocchiò e sfiorò la tomba con la mano, sapendo di poter toccare le sue stesse ossa, vedere il suo corpo e la sua faccia. Avrebbe potuto dare una bella occhiata al vero Guerriero Ignoto, il cui corpo si trovava là dove la sua anima voleva essere. In pace. Libera.
Inspirò profondamente e chiuse gli occhi, posando entrambe le mani sulla tomba. Lasciò cadere la testa sul petto. «A nord, a est, a sud e a ovest. Anche se te ne sei andato, sarai sempre un Corvo e sempre noi ti ricorderemo. Abbi pietà di me, che respiro mentre tu non lo fai.» Tacque, riluttante a muoversi. Era consapevole di avere recitato quel mantra a un mucchio di ossa senza anima, ma trovò una strana pace nella veglia che aveva effettuato.
Alla fine si alzò con riverenza, arretrò di due passi dalla tomba e si girò verso la residenza di Septern. Davanti a lui c'era un Protettore, Cil, con alle spalle tutti gli altri. Guerrieri silenziosi che capivano e rispettavano, impassibili dietro le maschere, ma con la mente in subbuglio per l'ingiustizia che l'Ignoto aveva subito. Non potendo parlare, Cil gli posò una mano sulla spalla, che strinse chinando leggermente il capo.
L'Ignoto lo fissò per un istante, poi guardò oltre le sue spalle quelli che gli stavano dietro. Di fronte alla forza radunata lì nel più totale silenzio, ebbe un brivido lungo la schiena; gli si velarono di nuovo gli occhi, stavolta per gratitudine. «Potete sfuggire alla chiamata, ma il prezzo è alto, credetemi. Il dolore della separazione è grande. Io posso ancora sentirvi, anche se non posso essere con voi. Arriverà il momento della vostra scelta.»
I Protettori lo seguirono sulla strada verso la residenza. Aveva fatto la sua scelta ma, mentre lasciava la tomba senza più guardarla, si rese conto di averne un'altra. Non sapeva però se avrebbe avuto il coraggio di compierla.
Solo il tempo potrà dirlo, si disse.
«Se pensate di portare centinaia di Protettori al di là dello squarcio, vi sbagliate», disse Hirad quando Denser ebbe riassunto l'infruttuosa discussione con Styliann.
L'ex Lord della Montagna si era seccamente rifiutato di lasciare che i maghi del Corvo dessero un'occhiata ai testi di Septern e il barbaro ritenne fosse solo questione di tempo prima che decidesse di creare e lanciare lui stesso l'incantesimo. Come il resto del Corvo, era fastidiosamente consapevole dell'esiguità del loro numero.
«Sono ansioso di sapere come intendi fermarmi», replicò Styliann.
«Il punto non è quello che posso fare io ora, ma quello che faranno i Kaan quando arriverete», replicò Hirad. «Non hanno bisogno dei vostri Protettori. E tendono a distruggere tutto ciò di cui non hanno bisogno.»
Styliann indicò intorno a sé. «Distruggere quasi cinquecento Protettori non è semplice.»
Hirad sentì una mano di monito sulla spalla: era Ilkar. Annuì e fece un profondo respiro prima di parlare. «Avete visto le dimensioni di Sha-Kaan, Styliann. Potrebbe fare tutto da sé, e voi lo sapete. Sto solo cercando d'impedire che sprechiate le loro vite, se così...»
In quell'istante i Protettori si mossero; si misero sull'attenti e si allontanarono lentamente verso il granaio, con Cil in testa. Denser e Styliann li fissarono a bocca aperta.
Quando Hirad si rese conto di dove stavano andando, ridacchiò. «Forse non vi ascolteranno comunque.»
«Tornate indietro!» ordinò Styliann. «Cil, conosci la tua chiamata. Torna al mio fianco o affronterai la tua nemesi.»
«Non vi conviene. L'Ignoto s'infurierebbe parecchio», osservò Denser. «Torneranno.»
In effetti tornarono con in testa l'Ignoto, dall'aria ferma e nuovamente determinata.
«Immagino che siamo pronti a partire», disse l'imponente guerriero. «Styliann, potete portare sei Protettori. Gli altri sorveglieranno la residenza.»
«La sorveglieranno da cosa?» domandò Hirad.
Styliann mosse la bocca, ma non emise suono. Il volto, fremente e sempre più rosso, gli tremava di rabbia. Poi sbottò: «Io posso? Per gli dei sanguinanti, chi sei tu per dirmi quello che posso o non posso fare coi miei Protettori?»
«Lo capirete ben presto», replicò l'Ignoto.
«Sorvegliarla da cosa?» ripeté Hirad.
«Gli occadi stanno venendo qui. Non devono seppellire l'ingresso del laboratorio, altrimenti non torneremo più indietro.»
«Perché dovrebbero farlo?» chiese Ilkar.
«Julatsa è caduta», rivelò Cil, infrangendo i voti della sua schiavitù. «Sanno tutto.»
«Come fanno a saperlo?» domandò l'elfo. «Non ho sentito niente.» Aveva un tono disperato; le orecchie gli stavano diventando rosse mentre si sforzava di controllare l'emozione che lo stava travolgendo.
«E forse non lo sentirai», replicò Styliann. «I tuoi maghi sono caduti a uno a uno sotto le spade degli occadi. Le loro onde di mana non si combineranno. Dobbiamo presumere che il Cuore sia stato sepolto con successo. Mi dispiace davvero che Julatsa sia caduta, ma forse tu sei fortunato. Dopotutto, stai per lasciare questa dimensione.»
«Fortunato?» sbraitò Ilkar. «Quei bastardi hanno distrutto la casa di ogni julatsano.»
Denser si schiarì la gola. «Le parole di Styliann sono inopportune ma corrette, presumo. È improbabile che eventuali onde nel tuo spettro del mana abbiano tanta forza in un luogo come quello in cui stiamo andando.»
Ilkar fissò in modo eloquente il fascio di carte in mano a Styliann. «Be', devi sperare che ne abbiano almeno un po' altrimenti questo incantesimo, di qualsiasi natura sia, non verrà lanciato.»
Hirad si accigliò. «Che significa?»
«Niente onde, niente mana», spiegò Erienne.
«Sono tutte supposizioni irrilevanti», dichiarò l'Ignoto. «Quello che dobbiamo fare è andare, subito.»
«Non finché non scopro come fate a sapere che Julatsa è perduta», replicò Ilkar.
«Cil, puoi parlare liberamente», disse Styliann.
Il Protettore rimase in silenzio per un po', controllando il respiro mentre rifletteva sulla risposta. Poi disse: «I demoni osservano. Quando siamo insieme come un corpo solo, percepiamo ciò che vedono».
«Affascinante», commentò Styliann. «Gli effetti collaterali dell'atto creativo sono una sorpresa infinita.»
«Godeteveli, finché potete», ribatté l'Ignoto, inespressivo in volto come le maschere dei Protettori.
Styliann fece un mezzo sorriso. «Mi stai minacciando, Ignoto?»
«Consideratelo un consiglio sincero.»
Hirad si accostò alla spalla dell'Ignoto e chiese attenzione. «Bene, adesso basta chiacchierare. Ci sono alcune cose che dovete sapere su ciò che succederà quando entreremo nello squarcio.» Li informò del dolore durante il viaggio, della devastazione che il Corvo aveva trovato nella dimensione degli uomini-uccello. Parlò dei morti redivivi, nel caso si fossero levati di nuovo, dell'altezza disorientante e delle altre piattaforme in cielo, poste su colonne di roccia. Ricordò loro che erano stati i draghi Kaan a creare tanta distruzione e che lo stesso destino attendeva Balaia se quelli avessero ceduto o se l'incantesimo, una volta individuato, non fosse riuscito a chiudere lo squarcio. Infine disse che, per quanto strano apparisse, non solo Balaia ma la sopravvivenza di tanti draghi dipendeva dal successo del Corvo. «E ora andiamo!» esclamò.
Tuttavia, giunti all'interno delle rovine, incontrarono un nuovo problema.
«Che diavolo è successo qui?» Ilkar guardò Styliann dritto in faccia, poi posò lo sguardo sull'ingresso aperto del laboratorio di Septern.
«Non è stato sempre così?» replicò l'ex Lord della Montagna, sembrando sinceramente sorpreso.
«No», rispose l'elfo. Si accovacciò vicino all'accesso, collocato nel centro della stanza.
Denser si sedette sui talloni, al suo fianco. «Non credo che Styliann sia responsabile», sussurrò.
«Allora cos'è successo?» chiese Erienne.
Ilkar si grattò la testa. «In assenza di una chiave e di forzature, c'è solo una risposta. L'incantesimo di Septern è collassato.»
«Come conseguenza dello squarcio?»
L'elfo alzò le spalle. «Vi viene in mente qualcos'altro?»
«Che importa?» sbottò l'Ignoto.
I maghi si girarono verso di lui, chiaramente irritati dall'interruzione.
«Non possiamo più chiudere lo squarcio agli occadi. Se dovessero sconfiggere i Protettori, anche loro potrebbero attraversarlo, e non ho dubbi che lo farebbero.»
«Non possiamo permettere che gli occadi entrino nella dimensione dei draghi», affermò Hirad. «Per quanto grande sia il potere dei draghi, quei bastardi potrebbero scovarci e prenderci.»
Ilkar si alzò. «Allora cosa suggerisci?»
«Rinforzi», rispose il barbaro. «È la nostra unica alternativa. Darrick ormai sarà diretto a nord.» Si rivolse a Denser. «Mi dispiace, ma è necessario che tu effettui una comunione mentale.»
Il mago oscuro sospirò e annuì. «Cosa volete che dica?»
Il Corvo si trovava davanti allo squarcio che conduceva a una nuova dimensione, sotto un cielo che ribolliva, tra i resti del villaggio devastato degli uomini-uccello. In basso, molto più in basso, cadeva una pioggia di fulmini, di un rosso violento. Era uno squarcio attraverso cui era passato solo Denser, che era tornato terrorizzato farfugliando qualcosa sui draghi.
Per Hirad era una scena già vista; il legame con Sha-Kaan gli conferiva una chiara visione di ciò che li aspettava e gli evocò con singolare chiarezza un pensiero rimasto latente dall'incauto viaggio di Denser. Già allora, si rese conto, sapeva che avrebbe dovuto attraversare da solo lo squarcio, affrontare i suoi incubi e sconfiggere i demoni della sua mente. Il barbaro si rivolse al Corvo, a Styliann e ai sei Protettori alle sue spalle. «Siete pronti?» In realtà lo domandava solo a due di loro. A Ilkar, che dopo la perdita del College aveva dimostrato un coraggio straordinario. E a Styliann, che con la sua determinazione a studiare in dettaglio la devastazione del mondo degli uomini-uccello aveva logorato i nervi di tutti nel breve tragitto fra i due squarci.
L'ex Lord della Montagna annuì, rigido.
Ilkar riuscì a sfoderare un sorriso. «Pronto più che mai.»
«Vorrei poter dire lo stesso», osservò Hirad. «Denser? C'è qualcosa che dovremmo sapere?»
«State solo pronti a ripiegare. Quel posto era un disastro, e non credo sia migliorato.»
In realtà era completamente diverso rispetto alla descrizione di Denser, che aveva parlato di una terra annerita, di un cielo pullulante di draghi e di un fuoco che cadeva dall'aria. Ma, superato lo squarcio, sbucarono all'interno di una grotta. E, anche se là dove atterrarono era buio, una tenue luce verdognola filtrava da dietro un angolo, sulla sinistra.
«Cosa diavolo è questo?» chiese Denser, scrollandosi la terra di dosso. «Lo squarcio dev'essere stato spostato.»
«Non credo sia possibile senza il mago che lo ha creato», osservò Erienne.
«Be', prima questa maledetta roccia non c'era.»
«Qualcuno ha una torcia?» chiese Hirad, sorridendo. «Perché?» domandò l'Ignoto.
«Forse i draghi sono dipinti sul soffitto o qualcosa del genere.»
«Sei proprio divertente», ribatté Denser. «So cosa ho visto.»
«Allora qualcuno deve averla costruita», affermò Styliann. Il tono vagamente autoritario della sua voce squarciò l'aria immobile.
Prima di poter replicare, Hirad fu investito dalla forza mentale di Sha-Kaan. «Benvenuto nel mio mondo, Hirad Coldheart. Adesso vedrai cos'ha provocato la tua sconsideratezza. Jatha vi guiderà dalla grotta.»
Con la stessa velocità con cui era sopraggiunta, la voce mentale svanì e il barbaro si ritrovò a fissare il volto perplesso dell'Ignoto.
«Stai bene?» gli chiese l'imponente guerriero.
Il barbaro annuì. «Era Sha-Kaan. Sa che siamo qui. Lui...» Fu interrotto da un movimento davanti a loro.
Un'ombra si spostò nella luce. Il Corvo si dispose in formazione da combattimento. Hirad, l'Ignoto e Thraun sguainarono automaticamente le spade e si distanziarono nel centro della stanza. Ilkar, Denser ed Erienne si sistemarono dietro di loro. Un istante dopo, i Protettori si disposero a entrambi i fianchi.
Comparve un uomo basso, vestito in maniera semplice, con un'arma legata al fianco. Non mostrò nessuna paura di fronte alla fila di guerrieri che aveva di fronte e sul volto, sopra la lunga barba intrecciata, apparve un sorriso.
Hirad si rilassò e rinfoderò la spada. «Jatha?»
L'uomo assentì e, con corde vocali che non parevano avvezze alle parole, disse: «Hirad Coldheart, Corvo».