Capitolo 15

Era una mattina piuttosto soleggiata. Le sottili nubi che avevano coperto il cielo all'alba erano state spazzate via da un vento fresco da nord-ovest; il sole emanava un delicato tepore.

I quindici soldati e i tre maghi della squadra di sorveglianza a Parve avevano scelto una delle sontuose ville che sorgevano poco lontano dalla piazza centrale. Era un edificio grande, a due piani. La dispensa e la cantina ben fornite, in parte grazie a quanto i soldati avevano recuperato dalle abitazioni vicine, rendevano la vita confortevole.

Ogni uomo offertosi volontario per quell'incarico era consapevole di avere poche probabilità di rivedere le Città College. Tra loro e casa si trovavano intere armate di occadi e i monti Blackthorne. Sopra di loro, lo squarcio che portava nella dimensione dei draghi costituiva una minaccia imponderabile.

L'ufficiale del plotone, Jayash, impediva ai soldati di aggirarsi all'esterno dell'alloggio in gruppi di meno di tre persone. I maghi dovevano essere accompagnati da due guardie ciascuno. Le pattuglie che lasciavano il relativo riparo della piazza erano sempre composte da sei uomini, con un mago di sostegno. Le strade non erano sicure.

Non era stato avvistato niente di pericoloso, ma c'erano i rumori. L'eco di un passo, lo sbattere di una porta in un giorno senza vento, il frettoloso grattare di una mano nella terra, lo spettro di una voce portata dal vento. Qualcuno, probabilmente qualche seguace dei Lord stregoni, era sfuggito alla rete di Derrick. Parve era un posto strano.

Era l'undicesimo giorno di misurazione. Calcolati il tasso di crescita dell'ombra di mezzogiorno e le dimensioni di Parve, bisognava effettuare i controlli, verificare eventuali errori e osservare il cielo.

Nessuno in realtà lo aveva detto, ma quel gruppetto costituiva il primo sistema di allarme nel caso di un altro attacco da parte dei draghi. Un attacco cui non ci si poteva aspettare di sopravvivere.

Jayash e tre soldati guardarono i maghi preparare il terreno per le misurazioni del giorno. Il selciato della piazza centrale recava otto linee di punte metalliche conficcate nella sua superficie, comprese in un'area che misurava quasi mille passi sul lato più lungo e settecento su quello più corto. Ogni linea rappresentava un punto della bussola; la distanza tra ogni punta e il rispettivo avanzamento verso i margini della piazza indicava l'allargamento dell'ombra.

Jayash passeggiò intorno all'area contrassegnata, mentre l'ombra si spostava sul terreno simile a una macchia mostruosa sulla terra che dava i brividi e scacciava il fugace tepore del giorno. Entrò nell'area percorrendo una linea e tornando indietro lungo un'altra, osservando la distanza tra ogni punta. Non era una scienza esatta, ovviamente. Se le nuvole erano fitte, i margini dell'ombra erano più indistinti e inevitabilmente si verificava un errore.

Jayash si fermò alla fine della seconda linea che aveva percorso, quella rappresentante la direzione sud-est, e si accigliò. Le ultime due punte sembravano, rispetto alle altre, un po' più lontane da quelle adiacenti. Guardò a destra e a sinistra. Se la vista non lo ingannava, il fenomeno si ripeteva sulle linee est e sud. «Delyr?» chiamò.

Lo xeteskiano, intento a parlare con Sapon, un collega dordoveriano, alzò lo sguardo.

«Abbiamo avuto qualche problema negli ultimi giorni?»

Delyr alzò le spalle. «Non proprio. Abbiamo visto una lieve accelerazione nella crescita dell'ombra, ma è in parte dovuta all'effetto delle nuvole che rendono indistinti i margini.» Alzò lo sguardo verso il cielo, blu tranne che per lo squarcio sopra le loro teste. «Oggi lo sapremo.»

Jayash annuì. «Ma sapevate del possibile problema da un paio di giorni.»

«Da cinque, a dire il vero. Apprezzo che desideriate conoscere ogni minimo dettaglio, ma in termini scientifici non aveva senso menzionarlo, perciò non l'abbiamo fatto.» Delyr abbozzo un flebile sorriso. «Riceverete una valutazione immediata, seguita da un rapporto completo. Ora, se non vi dispiace, abbiamo poco tempo.» Indicò lo squarcio e l'ombra alla base della piramide, che era quasi scomparsa.

Jayash fece un vago gesto con la mano e indietreggiò per osservare.

Delyr e Sapon percorsero a passo svelto i margini del campo di punte, lasciandone una a terra al termine di ogni linea. Si avviarono quindi in fretta verso la base della piramide e s'inginocchiarono vicino all'indicatore dell'ombra: un lungo pezzo di legno lucidato, fissato nel terreno là dove la parete orientale della piramide si congiungeva col suolo. Quando gli ultimi residui dell'ombra naturale lo abbandonavano, venivano eseguite le misurazioni.

Era un sistema abbastanza buono, ma aveva una pecca, si disse Jayash. Al momento, l'ombra era relativamente piccola e la piramide vicina. Il movimento del sole tra l'istante in cui i maghi concordavano che fosse mezzogiorno e la misurazione dell'ombra era trascurabile. Ma ben presto la piramide sarebbe stata coperta dall'ombra dello squarcio e avrebbero dovuto calcolare lo zenit in un punto più lontano. Inoltre, l'area dell'ombra s'ingrandiva, e ciò avrebbe significato più tempo per effettuare le misurazioni.

Jayash prevedeva che tutti gli uomini sarebbero stati cooptati per eseguire le letture e che avrebbero ottenuto dati sconsolatamente imprecisi, il che lasciava al Corvo un margine d'errore di giorni.

Delyr sembrava inconsapevole di tali problemi. Credeva ancora di poter tornare a casa dopo avere calcolato con esattezza la velocità di crescita dell'ombra. Non capiva di avere addosso il marchio del martire, non dell'eroe.

Era mezzogiorno. Delyr e Sapon si raddrizzarono e tornarono rapidi indietro verso le punte. Lo squarcio restava sospeso in cielo, in attesa, la sua ombra era ampia e nitida, non offuscata da una coltre di nubi, coi margini netti e ben distinti. Veloci e senza parlare, i maghi si collocarono in posizioni opposte, a nord e a sud, e iniziarono a svolgere il loro compito, chinandosi sul terreno per valutare la fine esatta dell'ombra e l'inizio della luce. Quando si ritennero soddisfatti, inserirono le punte nei segni e, con piccoli magli di ferro, le conficcarono nel suolo sotto il selciato della piazza. Muovendosi intorno ai punti di rilevamento in senso antiorario, ripeterono l'operazione in meno di cinque minuti.

Jayash notò subito la costernazione, vide lo sguardo ansioso che i maghi si scambiarono e si avviò verso di loro. Delyr e Sapon s'incontrarono alla linea meridionale e misurarono la distanza tra la punta nuova e quella del giorno precedente usando un pezzo di corda contrassegnato con cura e un legno inciso, dritto come un bastone, in cui avevano praticato due tacche. Effettuarono misurazioni in base a tre punti, poi Delyr consultò una pergamena che aveva estratto da una borsa di pelle lasciata per terra.

«Che c'è?» domandò Jayash, ma conosceva già la risposta.

«Solo un attimo», mormorò Delyr. Lui e Sapon scribacchiarono sulla pergamena, rifecero le misurazioni e inserirono le cifre in un registro. Poi alzarono lo sguardo.

«Valutazione immediata?» disse Jayash.

«Siamo in guai grossi.»

«Prove?»

«Controlleremo ancora domani, ma la velocità cui l'ombra cresce sta aumentando. Non è stabile.»

«Che significa?» domandò Jayash.

«Che, più grande diventa, più velocemente cresce.»

«Perciò c'è meno tempo di quello che avete calcolato in origine.»

«Sì, molto meno tempo», ammise Delyr. «E non abbiamo modo di sapere se la velocità di crescita continuerà ad aumentare. Ma credo di sì.»

«Allora qual è la nuova stima?»

Delyr guardò Sapon che stava scrivendo furiosamente; il dordoveriano sottolineò una cifra sulla pergamena e gliela porse. Delyr sgranò gli occhi. «Sei sicuro?»

Sapon annuì. «Controllerò i calcoli più tardi, ma non si discostano molto dal valore esatto.»

«Be', avevamo trenta giorni prima che l'ombra coprisse Parve. Adesso ne abbiamo otto.»

Jayash rabbrividì, senza più parlare. Rimase immobile sotto lo squarcio e immaginò i draghi che lo varcavano per riversarsi su Balaia.

 

Fu la notte più lunga della vita di Ilkar. L'Ignoto e Denser tracciarono insieme una rotta diretta attraverso il golfo di Triverne, sfruttando il vento sempre più teso perché li portasse dritti al punto d'incontro fra il mare e i monti Blackthorne, sul lato orientale dell'insenatura; lo xeteskiano metteva in pratica il suo desiderio d'imparare a navigare a vela. Più al largo, le onde lunghe aumentarono. La piccola barca beccheggiava sulle onde, ma avanzava con la vela tesa e gonfia.

Qualcosa però non andava. Per Ilkar, era chiaro come il sole in un cielo terso: c'era troppa quiete. Aveva seguito il consiglio dell'Ignoto e tenuto d'occhio l'orizzonte; la prima ondata di nausea era diminuita via via che il cervello aveva registrato una condizione di normalità. Sempre più, quindi, si era ritrovato a spostare l'attenzione sugli altri occupanti della barca. All'inizio Hirad aveva fatto battute e parlato di questioni estranee alla missione, com'era sua abitudine nei momenti di riposo, ma aveva ricevuto in cambio solo sommesse risatine e risposte brevi. Alla fine non c'erano state più reazioni e con una scrollata di spalle il barbaro si era unito al silenzio. La quiete si confaceva ben poco al Corvo. Non avevano quasi discusso della direzione da seguire una volta giunti sulla sponda orientale, solo della necessità di trovare alla svelta dei cavalli per raggiungere Julatsa. Al di là di ciò, non sembrava esserci un piano.

Ignorando lo stomaco che protestava e la testa che gli girava, Ilkar si voltò a guardare l'Ignoto e sentì un brivido in tutto il corpo. Mai incline alla giovialità, in qualsiasi circostanza l'imponente guerriero teneva lo sguardo lontano, svolgendo con provetta abilità il ruolo del difensore, prevenendo qualsiasi pericolo per gli amici prima che diventasse letale. Ma in quel momento si era rinchiuso in sé. Ilkar lo vide lanciare qualche sporadica occhiata nella loro direzione o alla vela in alto e an-cora più raramente mormorare qualcosa a Denser per correggere la posizione della barra del timone. A parte ciò, teneva la testa china in avanti, gli occhi chiusi o fissi sul fondo di legno ai suoi piedi e una postura leggermente accasciata. Ilkar conosceva il motivo di quell'afflizione, e non c'era niente che potessero fare a riguardo.

Nel breve periodo trascorso come Protettore, l'Ignoto era cambiato. Non per il duro regime cui i demoni lo avevano sottoposto, ma per la vicinanza alle anime nel pozzo di Xetesk. Nei giorni successivi alla liberazione, il guerriero sembrava essersi liberato dal legame che lo aveva vincolato; ma quei ricordi stavano riemergendo, perché ogni istante li portava più vicini alle Città College, a Xetesk e al pozzo delle anime, da cui la sua era stata strappata.

«Le senti?» domandò Ilkar.

L'Ignoto alzò gli occhi pesanti e carichi di dolore. Scosse la testa. «No. Ma sono là, e io no. Le loro voci risuonano ancora nella memoria e mi lacerano il cuore. Quel vuoto nella mia anima non si è riempito. Penso che non si riempirà mai.»

«Ma...»

«Ti prego, Ilkar. So che vuoi aiutarmi, ma non puoi. Nessuno può.» L'Ignoto tornò a scrutare il fondo della barca. Le sue ultime parole non furono rivolte a nessuno che potesse udirlo. «Per raggiungere i draghi dovrò passare accanto alla mia tomba.»

Ilkar sentì una fitta al petto e inspirò bruscamente. Intercettò lo sguardo di Denser, che non aveva un aspetto migliore dell'Ignoto, e si sentì afflitto. Aveva sperato che il modo in cui erano scappati dall'accampamento riaccendesse l'entusiasmo dello xeteskiano, ma ormai era chiaro che era stata solo una scintilla scaturita dall'istinto di sopravvivenza.

Denser credeva di avere già adempiuto allo scopo della sua vita: il Ruba Aurora era stato lanciato e i Lord stregoni non esistevano più. Dovevano però chiudere lo squarcio in cielo, altrimenti non ci sarebbe stato un posto dove nascondersi dalle orde di draghi che alla fine lo avrebbero varcato, né per il Corvo né per Erienne e il figlio che portava in grembo. Perché allora il mago oscuro non riprendeva il suo posto nel Corvo e lo guidava, come aveva fatto sino a Parve?

Ilkar sapeva che Denser si sentiva sfinito, ma sapeva pure che aveva ripristinato le riserve di mana. «Grazie per non avermi lasciato cadere, prima», gli disse Ilkar.

«Preferisco doverti sopportare da vivo che saperti morto per mano degli occadi.»

Ilkar lo prese come un'attestazione di affetto, ma nello stesso tempo si rattristò. Il vecchio Denser, riemerso in modo improvviso nell'accampamento degli occadi, era di nuovo sparito, travolto dall'autocommiserazione. L'elfo fece appello a tutto il suo autocontrollo per non rinfacciarglielo. «Sarai stanco.»

Denser scrollò le spalle. «Sono stato peggio. Quando lanci il Ruba Aurora, qualsiasi altro sfinimento scompare.»

«Ma è stato uno sforzo utile», osservò Hirad.

Ilkar guardò il barbaro, che era sdraiato col mantello sotto la testa e aveva gli occhi chiusi. Grazie agli dei c'era Hirad, si disse. Almeno, inconsapevole com'era dello stato d'animo che attanagliava il Corvo, non ne era stato contagiato. Avrebbero presto avuto bisogno della sua forza e della sua aggressività.

Ilkar fece per parlare, ma scoprì di non avere voglia di spronare Denser con ulteriori discorsi. In cambio non otteneva niente, se non le stanche risposte di un uomo che cercava una ragione per continuare a combattere. Il mago elfo scosse la testa. Di certo Erienne e il bambino potevano essere motivi sufficienti per i quali vivere e lottare. Ma perfino lei trovava impenetrabile l'umore del mago oscuro, e la loro distanza fisica su quella piccola barca era un chiaro segno delle difficoltà che stavano vivendo.

A prua si trovava il problema più immediato. Da ore Will non toglieva la mano dalla schiena di Thraun e gli occhi dalla testa del lupo. Una profonda ansia segnava il volto del ladro; quando mormorava all'orecchio dell'amico, non otteneva altro che qualche fremito e un basso ringhio. Thraun non voleva ascoltare.

Cosa avrebbero fatto se non si fosse più ritrasformato? Non era ovviamente una decisione che spettava a loro. Non potevano ordinare al lupo di abbandonarli o di restare col Corvo. Non Potevano dirgli cosa fare. Non potevano controllarlo. Alla fine avrebbe semplicemente smesso di riconoscerli, suppose l'elfo.

A quel punto, i membri del Corvo sarebbero diventati per il lupo una preda qualsiasi. Avrebbero dovuto ucciderlo.

Ilkar sapeva che quella era la paura di Will, ed era una paura che tutti avrebbero dovuto nutrire. Da parte sua, temeva ciò che avrebbero trovato a Julatsa. Avrebbe percepito se il College fosse caduto e il Cuore fosse andato distrutto, come l'avrebbe sentito ogni mago julatsano. Era consapevole che la sua città poteva già essere un cumulo di macerie. Sapeva che gli occadi erano una forza di occupazione e che il Consiglio non avrebbe ceduto il College finché l'ultimo dei maghi non fosse morto in sua difesa. Ma se il Corvo non fosse stato in grado di entrare nella biblioteca, se non avessero trovato ciò che dovevano, nel momento stesso del trionfo gli occadi avrebbero condannato a morte i balaiani orientali, consegnandoli ai draghi.

Ilkar emise un profondo sospiro e guardò la terraferma farsi a poco a poco più distinta. Si augurò che lo sbarco gli riaccendesse un po' di speranza nel cuore, ma sapeva che probabilmente così non sarebbe stato. Il destino di Balaia non era in buone mani.

Tenendosi a monte rispetto al campo degli occadi, il Corvo approdò in una piccola baia delimitata su entrambi i lati da rocce scoscese e ripidi pendii. Sopra di loro si elevava la massa scura dei monti Blackthorne, che si gettavano a precipizio nel golfo. Nel punto in cui erano sbarcati, il terreno piegava bruscamente in direzione del lago Triverne, le cui acque si riversavano in mare poco lontano, formando la foce del fiume Tri.

Avanzando tra gli schizzi, nell'acqua bassa, il Corvo rimise piede sulla terraferma accompagnato dal chiaro sospiro di gioia di Ilkar. L'elfo guardò con sollievo la salita e, più in su, il cielo che si stava rischiarando.

Mentre l'Ignoto legava bene la barca, Denser ripiegava la vela dietro sue istruzioni. Will e il lupo s'inerpicarono su per il pendio di sassi e argilla friabile. Il ladro, che stringeva la borsa degli abiti di Thraun, animato dalla speranza, si aiutava aggrappandosi al dorso del lupo.

«Perché ti preoccupi d'imparare tutto questo?» domandò Ilkar al mago oscuro. Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse bloccarle.

Denser si fermò e corrugò la fronte. «Non capisco...»

«Se t'importa così poco del futuro, perché ti preoccupi d'imparare ad andare a vela?»

Denser socchiuse gli occhi. «Be', forse sto cercando di ritrovare un po' di normalità. Forse sto compiendo un maledetto sforzo. C'è qualcosa che non va in questo?»

L'elfo sorrise, cercando di placare le acque che aveva agitato, consapevole di avere addosso gli occhi del Corvo. «Mi è sembrato solo un po' strano, tutto qui.»

Denser gli si avvicinò a lunghi passi. «Il fatto che tu ignori come mi senta non ti dà il diritto di lanciare battute beffarde. Cosa stai cercando di dire?»

«Che sei imprevedibile e che questo crea un problema a tutti. Quando ripieghi quella vela sei normale, proprio come il Denser che conosciamo così bene. Ma un attimo dopo ti richiudi in te stesso e scompari nel tuo mondo. Noi non sappiamo dove sei.»

Lo xeteskiano stava diventando rosso in volto. «E credi che io lo sappia? La mia testa è un maledetto caos e sto tentando in tutti i modi di capire cosa mi rimane. Ciò che mi serve è un po' di pazienza da parte vostra, non commenti sarcastici!»

Il julatsano indicò Erienne. «Lei non è abbastanza?»

«Ilkar, basta. Lascia perdere», disse la maga. Denser invece si avvicinò all'elfo, finché i loro nasi quasi non si toccarono. «Non osare mettere in dubbio i miei sentimenti per Erienne. Tu non capisci.» Spintonò con forza Ilkar sui ciottoli. «Sta' lontano da me, julatsano, finché non avrai qualcosa di buono da dirmi.» Si avvicinò al pendio e cominciò a risalirlo, solo e infuriato, con Erienne che lo seguiva.

«Ottimo lavoro, Ilkar», commentò Hirad, scuotendo la testa. Si avviò lentamente dietro i maghi, osservando il cielo terso e la luce che avanzava a poco a poco da est.

Presto avrebbero dovuto trovare riparo. Il fiume Tri attraversava terre rigogliose e boscose, abbastanza lontane da probabili insediamenti degli occadi da permettere di viaggiare spediti. Avrebbero dovuto avanzare con cautela, però, stranieri nella loro patria.

Ciò che tormentava Hirad era la mancanza di cavalli. Senza destrieri, la durata del viaggio per Julatsa si sarebbe triplicata; peggio ancora, non avrebbero avuto una rapida alternativa di fuga. Il barbaro conficcò bene i talloni nel terreno e salì più veloce.

 

L'odore di casa era ovunque, trasudava dal terreno stesso su cui Thraun camminava spedito. I colori della foresta e dei fratelli gli riempivano la testa mentre si allontanava a balzi dal bordo dell'acqua, attento che dietro di lui l'uomo-fratello non scivolasse.

Quando arrivò in cima, sollevò il muso e annusò: gli odori della terra e dei suoi abitanti si spiegarono come una mappa davanti a lui. Si voltò verso l'uomo-fratello, rendendosi conto che stava emettendo dei suoni. L'uomo-fratello s'inginocchiò davanti a lui e gli prese la testa tra le mani. Thraun brontolò, mentre un senso di divertimento e una lieve irritazione si mescolavano nella sua mente.

L'uomo-fratello gli disse qualcosa. Una parola risuonò nella testa del lupo, ma le porte non si aprirono. Anzi, la sua coscienza si smarrì in un turbine di pensieri.

Era in piedi sulle zampe posteriori e non aveva peli sulla faccia. Non poteva più ululare e riusciva a correre eretto, senza cadere. Ma non c'era gioia nei suoi sensi, nessuna sensazione del branco intorno a lui. Si sentiva goffo, seppur forte, incerto per quanto riguardava la conoscenza della terra, delle prede e dei pericoli circostanti. I ricordi erano vaghi, ma sapeva che erano ricordi. Gli facevano male dentro, gli tormentavano il corpo e gli laceravano il suo stesso essere. Sapeva che c'era un modo per bloccare quel male, ma lo stava combattendo.

Il male lo spaventò e lui reagì.

 

Il lupo ululò, poi si accucciò sul terreno, con gli occhi gialli fissi su Will e con le zanne scoperte. Emise un ringhio profondo e minaccioso.

Will arretrò di un passo, per la sorpresa, e tese le mani. «Thraun, va tutto bene. Calmati. Calmati.» Arretrò ancora.

Hirad aveva raggiunto la sommità del pendio in tempo per assistere a quella scena. Il lupo si contrasse, pronto a spiccare un balzo, con gli occhi puntati sulla faccia di Will. Ma il ladro riuscì a mantenere la calma. Il lupo alla fine smise di ringhiare, ululò di nuovo, poi si allontanò veloce verso un boschetto.

«Cos'è successo?» domandò Hirad.

Will era pallido come un lenzuolo nella luce che precedeva l'alba. Scrollò le spalle. «N-niente», rispose, con un principio di quel balbettio che lo aveva afflitto per giorni dopo lo spaventoso incontro col famiglio di Denser, a Dordover. «Ho solo cercato di riportarlo in sé, con la parola.»

«Quale parola?»

«Ricorda», spiegò Will, massaggiandosi le tempie mentre osservava la sagoma del lupo allontanarsi. «È la parola che Thraun si dice prima di trasformarsi. Dovrebbe stimolare i suoi ricordi di essere umano. Non ha funzionato.» Will aveva un tono disperato.

Hirad gli posò una mano sulla spalla. «Si riprenderà. Adesso probabilmente sarà andato a trasformarsi, no?»

«Non credo», replicò Will, con un sorriso mesto sulle labbra e con le lacrime agli occhi.

«Cosa c'è di diverso stavolta?» domandò Hirad. «Aveva mai reagito così?»

«No, mai. Thraun odia la forma di lupo. Il suo incubo peggiore è restarne intrappolato per sempre e perdere la capacità di ritrasformarsi. Ma, da quando lo conosco, non ha mai assaggiato il sangue di tante vittime. Mi chiedo solo se non sia preda di una sorta di frenesia che impedisca al suo spirito umano di riaffermarsi.»

«Cosa possiamo fare?»

Will sospirò. «Non lo so. Non c'è un incantesimo che possa riportarlo indietro; la sua condizione non è magica. Dovremo aspettare, e io continuerò a cercare un contatto con lui.»

«È un sistema rischioso.»

«È l'unico sistema.» Will scosse il capo. «Non posso perderlo. Sarebbe come essere morto, perciò tanto vale che io muoia provando a riaverlo con me.»

Hirad annuì. «Capisco quello che provi.»

«Lo so.»