Capitolo 10

La notte seguente, la compagnia di Parve si divise in tre gruppi. Dopo il pasto serale e la comunione mentale, Styliann e Ilkar ebbero una breve conversazione prima che l'ex Lord della Montagna allertasse i Protettori e facesse preparare i cavalli. La notizia che il suo incarico a Xetesk era stato usurpato aveva minato profondamente la sua sicurezza.

Quando si era voltato a guardare Styliann durante la giornata passata a cavallo, Ilkar aveva notato che ogni fermezza era scomparsa dalla postura delle sue spalle e ogni luce dai suoi occhi, sostituite da qualcosa di ben più sinistro: una furia repressa, che covava nel profondo e gli incupiva i tratti, che gli contraeva le labbra e gli irrigidiva il collo.

Styliann non aveva voluto rivelare la sua meta, aveva detto solo che doveva raggiungere il più presto possibile un alleato. Il fatto che il tragitto lo avrebbe portato a sud della baia di Gyernath, lungo la stessa via che Darrick avrebbe seguito il mattino dopo, per lui non aveva nessuna importanza. I Protettori avevano scarso bisogno di riposare, dichiarò, e la cavalleria di Darrick lo avrebbe soltanto rallentato. Quando se ne andò, coi Protettori disposti in formazione difensiva a diamante, Styliann si lasciò dietro un senso d'inquietudine.

Il Corvo, che aveva intenzione di partire presto per imboccare la pista a nord di Terenetsa prima dell'alba e ridurre così le probabilità di essere avvistato, si trovava con Darrick.

Il generale non era entusiasta all'idea di seguire le orme di Styliann. «Se incontra qualche problema, sarà dieci volte peggio per noi, ma non lo sapremo finché non ci ritroveremo in mezzo ai guai.»

«Prendete una via diversa», suggerì Denser, con un'alzata di spalle.

«Si dal momento che ce ne sono centinaia tra cui scegliere.» Thraun ridacchiò.

Darrick annuì. «Be', sì. È una coincidenza che abbiamo scelto proprio la stessa strada, tra le tante opzioni.»

Una risatina si diffuse intorno al fuoco.

«Ho solo suggerito la soluzione più ovvia», borbottò Denser.

«Probabilmente dovresti limitarti alla magia», osservò Thraun, con un sorriso che gli addolciva i tratti marcati.

«Perché accidenti dovrei? Il Ruba Aurora non sembra averci portato nessun beneficio.» Denser aveva un'aria infuriata.

Darrick decise d'ignorarlo. «È possibile raggiungere la baia di Gyernath da numerose vie, ma tutte tranne una implicano rischi per cavalli e cavalieri.» Il generale si sfregò le mani e se le scaldò sul fuoco, anche se non faceva particolarmente freddo. «Il problema della via migliore è che ci sono cinque o sei villaggi da evitare. Se Styliann decide di distruggerli invece di aggirarli, potrei trovarmi in serie difficoltà a raggiungere la baia.»

«Allora venite con noi», suggerì Hirad.

Darrick scosse la testa. «Non voglio mettere a rischio la vostra missione. Comunque sia, ce la farò. Ce la faccio sempre.» Ridacchiò.

«Per gli dei, parlate come Hirad», disse Ilkar. Il suo stato d animo, seppure ancora cupo, era migliorato da quando Styliann aveva confermato che il College di Julatsa non era ancora caduto.

«Quanto dista la baia da qui?» chiese Hirad.

Darrick alzò le spalle. «A sud di Terenetsa la strada diventa più agevole, almeno per un paio di giorni. Credo che, salvo interruzioni, daremo qualche problema agli occadi tra una decina di giorni.» Si lisciò i capelli che il vento gli gettava in faccia.

«A quel punto, noi dovremmo essere a Julatsa, o nei paraggi osservò l'Ignoto.

«In quello che ne rimane», precisò Ilkar.

«Non potete effettuare una comunione mentale con qualche altro mago?» chiese Darrick.

«No, purtroppo non ho mai studiato l'incantesimo. Non ha molte applicazioni per un mago mercenario», rispose Ilkar. «E poi nemmeno Styliann - molto migliore di me in questo campo - ha istituito un contatto all'interno del College. Le sue informazioni provengono da un mago nascosto all'esterno della città.»

«Quindi come facciamo a essere sicuri che il College sia salvo?» domandò Will.

«Perché la torre è ancora in piedi e non ci sono rumori di battaglia», rispose Ilkar.

Darrick si accigliò. La sua fronte si aggrottò sotto i ricci capelli castano chiaro. «Non posso credere che gli occadi si siano semplicemente fermati davanti alle mura del College.»

«Hanno paura della magia», ipotizzò Ilkar. «E hanno perso il potere dei Lord stregoni. È probabile che il Consiglio abbia creato qualche ostacolo magico. Quanto durerà l'incantesimo, non posso dirlo.»

«Abbiamo la posizione del mago che Styliann ha contattato a Julatsa? Potrebbe dimostrarsi prezioso», disse l'Ignoto.

«È una maga», lo corresse Ilkar. «Non ha voluto dare la sua esatta posizione, ma Denser riuscirà a contattarla.»

«Bene, quando supereremo il golfo di Triverne dobbiamo metterci in contatto con persone come lei.»

«Lo vedo già», commentò l'elfo. «Il Corvo che conduce una banda di ribelli julatsani in un audace attacco contro gli occadi, con a capo l'Ignoto.» Ilkar diede un colpetto al braccio dell'imponente guerriero. «Credo che vada oltre anche le nostre capacità, ma grazie per l'idea.»

Il Guerriero Ignoto si stirò e sbadigliò. «Non scartiamola. Se molti sono riusciti a fuggire e se le voci sull'arrivo di una forza dordoveriana sono vere, potremmo liberare noi stessi il College.»

«Penso che tu sia già nel mondo dei sogni, Ignoto.»

«O almeno dovreste esserlo», affermò Darrick. «Stendetevi un po', vi sveglierò fra quattro ore.»

 

La rotta degli occadi, in ritirata verso la sua città, regalò al barone Blackthorne e al suo esercito un importante vantaggio: le piste per Gyernath erano sgombre e sicure. Il barone aveva inviato una decina di cavalieri veloci al porto meridionale per avvisare il Consiglio del loro arrivo, e con la comunione mentale aveva tenuto al corrente i maghi dell'eventualità di un attacco degli occadi. La sua missiva sigillata specificava inoltre esigenze e richieste basilari per quanto concerneva uomini, cavalli e approvvigionamenti. Non chiariva tuttavia cosa avesse intenzione di farne.

Blackthorne era seduto con Gresse, che era in fase di lenta ripresa, in un accampamento a sei giorni da Gyernath. Lo stato d'animo dei suoi uomini stava migliorando. La loro azione si era fatta mirata, non era più circoscritta soltanto a limitare i danni; avevano un obiettivo ed era un obiettivo in cui tutti potevano credere: si sarebbero ripresi le loro case.

«Quando avremo riconquistato Blackthorne, passeremo a Taranspike», affermò il barone più giovane.

Gresse sorrise, dall'altra parte del fuoco. «Credo che le nostre priorità ci costringeranno a fermarci nei paraggi della baia di Gyernath», osservò. «Taranspike aspetterà. In fondo, Pontois non la distruggerà. È un peccato che non abbia dato il suo notevole contributo alla lotta per il Paese.»

«Maledizione a lui», bofonchiò Blackthorne. Il barone Pontois era sempre stato arrogante e pieno di sé. Blackthorne se lo immaginava seduto alla tavola di Gresse a sghignazzare con gli amici, dopo avere fatto irruzione nel castello indifeso di Taranspike per reclamarlo come suo.

Non sarebbe durata. Che fosse caduto a causa degli occadi o di una forza condotta da Blackthorne, il barone attendeva con ansia il giorno in cui Pontois avrebbe strisciato come un verme, in preda al terrore. Blackthorne non si considerava un uomo futilmente violento ma, mentre guardava Gresse e notava dolore e amarezza dietro il coraggio, sapeva che avrebbe potuto con tranquillità cavare il cuore a Pontois e servirlo su un vassoio contornato dei suoi visceri.

«Dobbiamo mandare messaggeri a tutti i baroni e i Lord, non solo a quelli dell'Alleanza Commerciale di Korina», osservò Gresse.

«A tutti, tranne che a Pontois», precisò Blackthorne. «Preferirei morire che vederlo combattere al mio fianco.»

«Condivido.»

«Provvederò quando raggiungeremo Gyernath. Allora avremo un'idea migliore sulle forze a nostra disposizione.» Blackthorne guardò in lontananza nel buio, saggiando l'aria e tormentandosi il labbro superiore coi denti inferiori.

«Che c'è?» domandò Gresse.

«Ci vorranno dai dieci ai dodici giorni per raggiungere Blackthorne. In quel lasso di tempo, gli occadi potranno scegliere se rinforzare o radere al suolo la mia città. Una cosa è certa: non se ne staranno ad aspettare senza fare nulla. Dobbiamo abbreviare il viaggio di due giorni, altrimenti potremmo arrivare troppo tardi. Non voglio salire in cima ai monti Balan solo per vedere bruciare il mio mondo.»

 

Le candele arsero fino a tarda notte nella torre di Julatsa. Il Consiglio del College era in riunione da tre ore per considerare le esigue alternative di fronte alla minaccia di Senedai e allo spettro della rivolta tra quanti si trovavano al riparo dietro il Manto Demoniaco.

Con uno strappo alla tradizione, il generale Kard aveva preso parte alla seduta: viste le sue conoscenze, escluderlo sarebbe stato impensabile.

«Tutto si riduce a un pugno d'interrogativi», riassunse Kerela, dopo avere ascoltato molteplici interventi sulla necessità di preservare la magia julatsana e l'equilibrio che essa conferiva a Balaia, sul debito di gratitudine che la gente di Julatsa aveva nei confronti dei maghi e sul fatto che il benessere a lungo termine di Balaia veniva prima delle esigenze immediate di quanti sarebbero stati presto sacrificati nel Manto Demoniaco. «Gli occadi attueranno la minaccia? Possiamo impedire a chi è dentro di vedere ciò che accade fuori? Se non possiamo, come giustificheremo il nostro rifiuto di cedere il College per evitare la perdita di vite umane? E cedere il College costerebbe più vite di quante ne verrebbero salvate?»

«Ottimo riepilogo», osservò Barras. «Credo che Kard possa rispondere alle prime due domande. Generale?»

Kard annuì. «Ripeterò per tutti quello che ho già detto a Kerela e a Barras. Senedai manterrà la parola. Ma forse è soltanto un problema teorico: credo che tutti quelli che stanno intorno a questo tavolo siano pronti a scoprirlo nel modo più drammatico. Non mi aspetterei niente di meno; cedere subito a una simile minaccia sarebbe una misera resa.»

Barras, che insieme con Kerela stava accanto a Kard a un capo del tavolo, cercò di soppesare la reazione del Consiglio. Ciò che vide fu un inasprimento della volontà, una fermezza e una determinazione a procedere. Restò un po' sorpreso. La compassione era un sentimento più che vivo nel Consiglio, in tempi normali. Ma d'altra parte, rifletté, quei tempi erano tutt'altro che normali.

«Possiamo impedire a chiunque di assistere agli omicidi», proseguì Kard. «Limitiamo già l'accesso alle mura per ragioni di sicurezza, e non ci sono edifici da cui si possa vedere la base del Manto, nemmeno dalla torre. Se proibiamo qualsiasi accesso alle mura, possiamo negare che stia accadendo qualcosa al di là di esse.»

«Inaccettabile», replicò brusco Vilif.

«Non ho detto che è accettabile», osservò Kard. «Ho detto che è possibile.»

«Si può impedire la vista, ma non l'udito», precisò Seldane. «Quando Senedai massacrerà cinquanta persone tre volte al giorno, si sentiranno grida per tutto il College. Pensate alle ripercussioni quando i rifugiati scopriranno la verità.»

«E da domani mattina gireranno voci», aggiunse Cordolan. «In effetti, mi stupirei se non girassero già ora. Non manco di rispetto all'onestà dei vostri soldati, generale, ma in molti hanno sentito la minaccia di Senedai. La gente parla.»

«Vi garantisco che non mi faccio illusioni», replicò Kard. «Credo che il punto sia questo: non possiamo tenerlo segreto. Se cercassimo di farlo, finiremmo solo per alienarci il rispetto della nostra gente», affermò Kerela. «Perciò, come giustificheremo il nostro rifiuto di arrenderci?»

Si dimenarono tutti sulle sedie e, quasi a un ordine concordato, rivolsero gli sguardi ovunque fuorché su altri membri del Consiglio.

In quel silenzio colmo d'imbarazzo, Kard prese la parola. «Un rifiuto di arrendersi comunica molto chiaramente che, in ultima analisi, riteniamo la magia più importante della vita. E questo è difficile da giustificare. Per gli dei, non sono un mago, perciò posso solo immaginare il vostro turbamento.

«Ma non abbiamo ancora esaminato le conseguenze delle alternative a livello personale. Cedere il College non solo è sbagliato sul piano dell'equilibrio della magia su Balaia, ma anche nei confronti di elfi e di uomini. Consegnarsi in mano a Sene-dai significa due cose: il massacro di ogni mago all'interno di queste mura e la schiavitù di tutti i julatsani sopravvissuti. Personalmente, preferirei morire.»

Era un sentimento condiviso, anche se motivato da ragioni diverse, rifletté Barras. Kard voleva la vita che conosceva; il Consiglio, la continuazione della magia julatsana, e per garantirla era pronto a mettere a rischio quasi tutto.

«C'è un'altra cosa», intervenne Torvis, e il suo vecchio volto non recava nessun segno della consueta arguzia. «I nostri 'ospiti', come li ha definiti con tanta appropriatezza Kerela, non possono costringerci a rimuovere il Manto Demoniaco. Anche se ci uccidessero, le cose non cambierebbero. Se non acconsentiremo a smantellarlo, il Manto resterà attivo per cinquanta giorni, dopo i quali Heila si farà indubbiamente vivo.»

Kard scosse la testa.

«Avete qualcosa da eccepire?» Torvis si accigliò. «Stavo solo esponendo i fatti.»

Il generale scostò la sedia e cominciò a girare lentamente intorno al tavolo, seguito da tutti gli sguardi. «Questo modo di pensare genera conflitti. Dire: 'Noi non cambiamo e voi non potete costringerci, neanche se ci uccidete' m'indurrebbe a fare proprio quello, se sentissi amici e familiari morire al di là delle mura. Vi ucciderei solo per assicurarmi che voi moriate insieme con quelli spinti nel Manto.

«Se volete che quella gente vi segua il più a lungo possibile, dovete indurla a credere che, al di là della sofferenza che c'è fuori, le conseguenze di una resa sarebbero peggiori. Dovete spostare l'attenzione sulla vita che i julatsani condurrebbero da schiavi di Senedai e degli occadi. Dovete ribadire che i dordoveriani stanno arrivando, e mai addurre come argomentazione la sopravvivenza della magia julatsana. Dovete appellarvi a loro, non imporvi.»

«Perché non lo fate voi, se conoscete così bene i julatsani?» lo sfidò Vilif.

Kard smise di muoversi, ritrovandosi all'estremità del tavolo di fronte a Barras. Annuì. «Va bene, lo farò.»

 

Tessaya attese mentre la nuova palizzata veniva innalzata intorno a Understone e le fortificazioni di pietra venivano erette dai prigionieri.

Il tempo era prezioso. Darrick e il Corvo stavano arrivando, la terribile forza d'attacco sarebbe tornata; erano tutti diretti a est, tutti verso la battaglia. Tessaya doveva cercare d'impedire che si unissero agli eserciti restanti a sud, alle Città College e soprattutto a Korina. Sapeva che quattro giorni non erano abbastanza, ma prevedeva che Taomi fosse vicino a Understone, dato che aveva incontrato poca resistenza nell'attraversare la baia di Gyernath e sulla poco popolata via verso nord, invece Senedai doveva avere trovato molti più problemi con le Città College.

Tessaya passava ore a scrutare i cieli nuvolosi. Guardava a sud in attesa di scorgere i punti scuri che avrebbero indicato l'avvicinarsi degli uccelli, e d'un tratto, dopo tre giorni, fu ricompensato: un unico uccello, alto nel cielo meridionale. Si legò i capelli per evitare che gli andassero sul viso e guardò il volatile avvicinarsi, mentre si trovava nella torre di guardia meridionale, appena ultimata. Era sicuramente uno dei suoi. Lo capiva dal modo di volare: alternava planate per riposare a bruschi battiti d'ala, stabiliva la propria posizione grazie alle lievi variazioni delle correnti d'aria e all'ondulazione del terreno.

Mentre l'uccello si avvicinava, Tessaya si mise il nastro d'identificazione rosso e verde al polso e lo mosse lentamente sopra la testa. La stoffa a strisce svolazzò nel vento teso. Con un frullo d'ali, l'uccello bianco e grigio atterrò sul parapetto della torre di guardia. Tessaya lo prese e lo avvicinò delicatamente al petto con un braccio, piegò il collo per premergli le labbra sul capo e tolse i messaggi dalle zampe. Poi lo rimandò in volo, verso il ricovero sopra la locanda, dove avrebbe riposato e mangiato.

«Più affidabile del fumo», disse alla sentinella. Srotolò le carte in codice.

«Sì, mio signore», replicò il guerriero, ma l'abbozzo di sorriso gli morì sulle labbra quando incrociò lo sguardo di Tessaya, che aveva letto il primo messaggio. «Mio signore?»

«Maledetti!» sibilò Tessaya. «Maledetti.» Ignorando la sentinella, si avvicinò a grandi passi alla scala a pioli e la discese più velocemente di quanto la prudenza dettasse.

I suoi cavalieri non avevano trovato Lord Taomi. Ma avevano trovato gli uomini e gli sciamani massacrati e lasciati a marcire; avevano trovato pire costruite secondo la tradizione orientale e prove di una frettolosa ritirata a sud. Avrebbero continuato a cercare, ma a passo lento. Imbattersi nella retroguardia dell'esercito che inseguiva Lord Taomi sarebbe stato sconsiderato.

Chi può essere stato?

L'avanzata era stata troppo rapida perché chiunque li inseguisse da Gyernath li avesse superati. Rimaneva solo il ricco barone Blackthorne, il cui vino aveva un sapore aspro nei ricordi di Tessaya. Trovava tuttavia difficile credere che Blackthorne, seppure bene armato, potesse avere radunato una forza tale da creare seri problemi a Taomi. Non senza aiuto.

Tessaya lesse le missive un'ultima volta prima di allontanarsi verso gli alloggi dove venivano tenuti i prigionieri. Il grassone, Kerus, avrebbe dovuto rispondere a qualche domanda; in caso contrario, alcuni dei suoi uomini sarebbero stati giustiziati. Era ormai finito il tempo della ragione. Bisognava conoscere tutto sulle forze da fronteggiare e, per farlo, il Lord delle tribù Paleon era disposto a considerare qualsiasi metodo.

 

L'alba stava per squarciare il cielo a oriente. Barras si trovava sul bastione più alto della torre e guardava giù, verso la città silenziosa, mentre un vento gelido gli colpiva la faccia.

In un momento del genere era facile immaginare che fosse tutto com'era sempre stato. Che nessun esercito di occadi occupasse le terre al di là delle mura del College, che le prime luci non avrebbero comportato il massacro di cinquanta innocenti. Innocenti le cui anime avrebbero alimentato l'appetito insaziabile dei demoni, gravando per sempre sul cuore dei membri del Consiglio.

Due cose tuttavia minarono subito la fugace serenità d'animo dell'elfo: l'opprimente Manto Demoniaco che li circondava e che col suo male lo stringeva in una morsa d'ansia, e la torre degli occadi, ormai quasi completata, che li sovrastava.

Il Consiglio aveva sbagliato nel valutare la funzione della torre. Gli occadi non avevano nessuna intenzione di creare una breccia nel Manto usando quella struttura, che s'innalzava nel cielo per una settantina di passi. Le ruote servivano a manovrarla lungo le mura del College e il rivestimento d'acciaio a proteggerla dal fuoco e dagli incantesimi; gli occadi volevano vedere all'interno del College.

Barras ravvisò il buon senso dell'iniziativa, pur maledicendone l'attuazione. Con la sua vista acuta, controllò il perimetro della città nell'oscurità che precedeva l'alba. Il velo grigio del Manto Demoniaco divenne via via più visibile mentre la luce cominciava a filtrare nel cielo. Gli occadi, o meglio i loro prigionieri, non erano rimasti in ozio; ovunque si scorgevano prove della loro intenzione di occupare a lungo quella terra.

Torri di guardia erano già state costruite in cinque o sei punto, e gli invasori stavano innalzando anche una palizzata. Sarebbe stato un lavoro lento; il legname adatto non abbondava nei paraggi e Julatsa era una città estesa. Ciononostante, entro tre settimane, la palizzata li avrebbe circondati. Gli occadi sarebbero stati così molto più difficili da scacciare.

Barras spostò lo sguardo all'interno delle mura del College. La torre e le numerose strutture di servizio dominavano il centro del comprensorio. Davanti a lui, tre lunghi edifici, dove venivano collaudati gli incantesimi a distanza, si estendevano a Partire dal lato opposto del cortile lastricato che circondava torre stessa. Ogni edificio misurava più di sessanta passi, era basso e con strutture rinforzate, e nel corso dei secoli aveva visto alcuni dei più grandi successi e delle tragedie più spaventose di Julatsa. Ormai però erano alloggi di emergenza.

Lo stesso valeva per tutte le aule, la vecchia sala per le riunioni, l'auditorio principale e l'arena, dove gli apprendisti maghi speravano di riuscire ad accogliere il mana scagliato dagli avversari e temevano in caso contrario le conseguenze per la propria sanità mentale. Solo l'accesso alla biblioteca e alle dispense restava proibito ai rifugiati.

Nonostante l'ora, circa un centinaio di persone si aggirava nel cortile; molti, per intervento di Kard, conoscevano il destino cui stavano per andare incontro gli sciagurati in mano agli occadi. Il generale non aveva dormito; insieme con un membro del Consiglio a turno, aveva fatto visita alla popolazione riunita entro le mura del College, per spiegare la situazione nel modo più esauriente possibile.

Fino a quel momento le loro parole avevano suscitato tristezza e ansia, ma non rabbia. Barras avrebbe dovuto presenziare all'ultimo incontro, ma per prima cosa doveva cercare di far guadagnare al College un po' di tempo.

Scese in fretta dalla torre, attraversò rapido il selciato in direzione della porta settentrionale, salì fino alle mura e si ritrovò faccia a faccia con una sentinella.

«Mio signore?»

«Devo parlare con Senedai.» Barras proseguì verso i bastioni che attraversavano la porta. Il Manto Demoniaco era quasi a portata di mano; ben più in là, guerrieri nemici stavano seduti intorno a un fuocherello, nel centro di un piccolo spiazzo tra il College e i primi edifici della città. «Voglio parlare col vostro Lord!» gridò il mago.

Gli occadi alzarono lo sguardo, accigliati. Uno si mise in piedi e si avvicinò di più, portandosi una mano all'orecchio.

«Devo parlare col vostro Lord», ripeté Barras. Fu accolto da una serie d'imprecazioni e scrollate di spalle. «Imbecilli», bofonchiò il mago. Si raddrizzò e parlò più forte. «Senedai. Portate qui Senedai. Capito?»

Ci fu un silenzio che parve durare un'eternità, prima che una sentinella annuisse e si allontanasse in fretta, facendo una battuta ai compagni, che scoppiarono a ridere.

«Ridete, finché potete», mormorò il mago, ricambiando il sorriso e facendo un piccolo segno di saluto. Non dovette aspettare molto prima che il comandante degli occadi si avvicinasse a lunghi passi.

«Elfo, ce l'avete fatta per un pelo!» esclamò Senedai, fermatosi a distanza di sicurezza dal Manto. «Confido in una resa immediata.»

«La resa ci sarà, ma non all'alba. Non siamo pronti.»

«Allora cinquanta dei vostri presto moriranno.» Senedai fece per girarsi.

«No, aspettate.»

Il Lord degli occadi allargò le braccia e si voltò di nuovo. «Ascolterò, ma non farà differenza.»

«Non capite pienamente la nostra situazione.»

«Oh, invece sì. Siete disperati. Non avete modo di uscire e state cercando di guadagnare un po' di tempo. Mi sbaglio?»

«No», rispose Barras, sapendo che il suo tentativo, una vera e propria scommessa azzardata, era quasi sicuramente destinato a fallire. «Mettetevi nella nostra posizione. La nostra gente ha paura. Abbiamo bisogno di più tempo per calmarla, per rassicurarla sulle vostre onorevoli intenzioni. Ma soprattutto per sistemare le nostre cose.»

«Perché?» ribatté Senedai. «Non potete portare niente con voi, e tutto ciò che resterà sarà nostro. La vostra gente ha ragione di temere la nostra forza e la nostra ferocia, ma l'unico modo per dimostrare loro che non distruggiamo insensatamente ciò che conquistiamo è metterla nelle nostre mani.»

«Faccio appello alla vostra generosità, ma anche al vostro buon senso e al vostro discernimento», replicò Barras. «Possiamo calmare la nostra gente, e questo aiuterà sia voi sia noi> ma abbiamo bisogno di più tempo. Ben più importante Per voi è che il College sia sicuro, quando infine varcherete trionfanti le porte. Il mana è una forza pericolosa per chi non conosce. Se entrate adesso, senza un mago, non vi posso garantire di sopravvivere.»

«Mi state minacciando, mago?» La voce di Senedai si alzò di volume e s'indurì di tono.

«No. Sto solo dicendo la verità.»

«E avete aspettato fino al nuovo giorno per dirmi questa verità.»

«Mi dispiace, ma non ci siamo mai trovati in una posizione del genere, prima, e non avevamo idea del tempo necessario a chiudere la della nostra magia. Ma dobbiamo farlo: in caso contrario, l'intera città sarà distrutta.»

Senedai cambiò posizione, fece per parlare e poi si bloccò, mentre il dubbio s'insinuava sul suo volto.

Barras colse l'occasione. «Se volete, potete iniziare a uccidere degli innocenti, ma non apriremo le porte e non rimuoveremo le nostre difese. E non perché non c'importi della nostra gente. Il College dev'essere reso sicuro affinché esista senza maghi, e noi siamo responsabili dell'intera Julatsa, non solo di quanti tra la popolazione decidete di condannare. Vi supplico di credere alle mie parole.»

Senedai fissò a lungo e intensamente Barras, con un'espressione che tradiva incertezza per il fatto di non possedere nessuna conoscenza utile a confutare le parole dell'elfo. «Devo riflettere», disse alla fine. «Quanto ci vorrà per chiudere questa di mana?»

«Sei giorni, forse di più», rispose Barras, con una scrollata di spalle.

«Mi ritenete proprio uno stupido», ribatté Senedai. «Sei giorni! E non ho prove che diciate il vero. Cosa potete darmi per verificare le vostre parole?»

«Niente. Ma mentendovi non guadagniamo niente. Non ci sono aiuti in arrivo e non abbiamo mezzi per procurarceli. Capisco che siate impazienti di proseguire, ma prima avete bisogno di mettere in sicurezza questo posto. Finché non saremo pronti, anche voi non lo sarete. Quello che faremo aiuterà tutti quanti.»

«Se mi state mentendo, vi taglierà di persona la testa.»

«D'accordo.»

«Sei giorni», brontolò Senedai. «Potrei darvene due o tre. Potrei non darvene nessuno. Le urla dei morenti vi diranno quando la mia pazienza si sarà esaurita.» Fece per allontanarsi, ma si girò di nuovo. «Giocate sulla mia ignoranza della magia. Forse interrogherò uno dei maghi prigionieri. M'istruirò un po'.»

«Pensavo che fossero tutti morti.»

«Come me, non dovreste credere a tutto ciò che vi viene detto.» Senedai chiamò una sentinella e si allontanò dallo spiazzo.

 

«Questo sì che significa saper negoziare», affermò Kerela. Lei e Kard erano insieme con Barras in uno degli edifici di servizio del College, mentre la folla si era radunata per ascoltare il discorso del generale.

«Allora, cosa dovete fare esattamente per smantellare la magia julatsana?» domandò Kard, con un sorriso amaro sulle labbra.

«Non ne ho assolutamente idea. Per quanto ne sappia, niente», rispose l'elfo. «Mi ha sorpreso il fatto che Senedai sapesse così poco della natura casuale del mana e della sua innocuità nel suo stato naturale.»

«Buon per noi.» Kard diede una pacca sulla spalla a Barras. Poi s'incupì. «Non ci darà sei giorni, lo sapete. Non è così stupido.»

«Anche un giorno solo salverà centocinquanta vite», osservò Kerela.

«Non trascurare il modo di ragionare degli occadi. La magia li terrorizza a un livello molto profondo», disse Barras.

«Per quanto terrorizzato sia, questo non gli impedirà di saccheggiare la città.» Kard si sistemò l'uniforme tirandosi giù la giacca. La folla cominciò a zittirsi. «Ho ascoltato quello che avete detto, ma ben presto Senedai si lascerà sopraffare dall'impazienza. Per lui i prigionieri non significano niente, soprattutto quelli che non sono in grado di svolgere lavori pesanti. Dobbiamo aspettarci che le donne e i vecchi siano i primi a essere gettati nel Manto, fra non più di tre giorni.»

«Sono d'accordo», affermò Kerela. «Non può verificare niente di quello che hai detto, Barras, e presumerà che tu gli la mentito e sacrificherà vite umane nel Manto anche solo Per metterci fretta.»

Barras annuì. Capiva che avrebbe dovuto parlare di nuovo con Senedai. L'ebbrezza della sua piccola vittoria svanì.

Kard si rivolse al gruppo di circa trecento persone. «Grazie per essere venuti e per la pazienza dimostrata. Alcuni di voi avranno ormai sentito cosa sta accadendo all'esterno delle mura. Ma, per quanti non lo sanno, spiegherò ora la situazione.» Barras lasciò vagare la mente. Tre giorni. La superiorità del nemico nei loro confronti era probabilmente di otto a uno. Da Dordover stavano arrivando gli aiuti, ma il Manto non poteva essere oltrepassato dalla comunione mentale, come da qualsiasi altro incantesimo. Nel frattempo, c'era bisogno di elaborare un piano. Non avrebbero ceduto il College con tanta remissività.

Se Julatsa era destinata a cadere, lo avrebbe fatto in una battaglia che sarebbe vissuta per sempre nella leggenda.