Capitolo 27

Sulle mura di Julatsa imperversava i battaglia. Gli incantesimi sfrecciavano sullo spiazzo acciottolato intorno al College, le esplosioni ne scuotevano le fondamenta. Il risuonare del metallo, le grida di uomini e donne, il tonfo sordo delle catapulte, il fluire del mana e il fuoco di fila degli incantesimi arrivavano a ondate. Tutto filtrava nel Cuore, dove si trovava Ilkar.

Con un orecchio sempre attento al combattimento che si svolgeva all'esterno, pronto a reagire a ogni evenienza, l'elfo sfogliava un testo dopo l'altro in cerca di note, riferimenti e passi che trattassero dell'opera di Septern.

A poca distanza, in biblioteca, Denser ed Erienne stavano mettendo sotto pressione i bibliotecari e gli archivisti che Bar-ras aveva assegnato loro, sperando in qualche progresso che si faceva sempre più improbabile via via che il tempo passava.

In una stanza relativamente lontana dai rumori di morte, Hirad e l'Ignoto dormivano. Non che avessero bisogno di silenzio. L'arte di un guerriero consisteva anche nella capacità di dormire dietro la linea del fronte. Hirad era particolarmente abile a conquistarsi qualche attimo di riposo anche quando il sangue gli imbrattava la faccia; un innato senso del pericolo lo svegliava sempre prima che la sua vita fosse a rischio.

Ilkar si sfregò gli occhi e fissò tetro la massa di libri, pergamene e fasci di carte che doveva ancora controllare, paragonandoli alla pila relativamente esigua che aveva già esaminato. Sapeva che sarebbe stato difficile. I testi completi di Septern erano rari e quella pila di cinque volumi rilegati si trovava già accanto al suo gomito destro: erano stati tra i primi a essere portati nel Cuore da Barras, quando la minaccia degli occadi era aumentata. Ma tutti e tre i maghi del Corvo sapevano che buona parte della saggezza di Septern, scribacchiata su pezzi di pergamena, annotata su altri testi o appuntata sul retro di qualche rotolo, era andata perduta, nascosta o trascritta. Tutto ciò che avevano erano indicazioni, riferimenti incrociati e la conoscenza incompleta degli archivisti. Seguendo un'altra vaga pista rintracciata nella pergamena precedente, Ilkar sospirò e continuò a leggere.

 

Nella biblioteca di Julatsa le ore passavano lente, anche se il lavoro aveva una scadenza che nessuno poteva dimenticare.

L'arrivo di Erienne e Denser era stato accolto con diffidenza dagli archivisti, tre anziani e un giovane studente, che li guardavano dall'alto in basso e arricciavano il naso a ogni richiesta, sebbene Barras li avesse rassicurati sulla buona fede e sull'impegno dei due maghi del Corvo.

«Chissà perché i bibliotecari sono uguali ovunque», aveva mormorato Denser, poco dopo l'arrivo.

«Potrebbero essere fratelli di quelli di Dordover», aveva convenuto Erienne.

«Una sola magia, un solo mago», aveva replicato Denser, coprendole la mano con la sua.

Erienne aveva sorriso e posato una mano sul ventre, immaginando il bambino che si muoveva dentro il suo corpo, anche se in realtà non riusciva a percepire niente.

L'atteggiamento gelido degli archivisti si era ammorbidito nelle ore seguenti, quand'era risultato chiaro che i maghi del Corvo non avevano intenzione di depredare i segreti julatsani. Alle risposte brusche e ai libri sbattuti con malagrazia sul tavolo si erano sostituiti lievi sorrisi, parole di aiuto o d'incoraggiamento e infine consigli per condurre le ricerche.

Lo studente dell'archivio sedeva con loro al tavolo a esaminare i testi di riferimento della dottrina julatsana e ogni tanto sollevava nervoso la testa, quando i rumori della battaglia giungevano alle sue orecchie.

«Non corriamo immediato pericolo», affermò Denser.

«Come lo sapete?» chiese Therus, mentre dal volto lentigginoso traspariva tutto il riverente stupore per la vicinanza col mago che aveva lanciato il Ruba Aurora.

«Hirad Coldheart non è ancora comparso per ordinarci di salire sulle mura», rispose lo xeteskiano. «Sta' calmo. I vostri soldati hanno un grande coraggio. Non cederanno.»

Tranquillizzatosi, Therus riprese a leggere.

Erienne sorrise e Denser si appoggiò allo schienale, osservando i grandi scaffali di testi magici, ricerche teoriche, di analisi degli incantesimi e della dottrina: questi ultimi gli erano incomprensibili e chiese che fossero portati a Ilkar.

Erano seduti a un tavolo accanto alla porta, di fronte a un corridoio fiancheggiato da librerie a cinque ripiani che, contornate da altri tavoli, si estendevano per oltre sessanta passi. Altri cinque corridoi simili costituivano il livello inferiore, e ulteriori scaffali erano disposti lungo le pareti; i testi più in alto erano accessibili solo con le scale. Due gallerie contenevano il resto della saggezza accumulata da Julatsa e dalle sue alleate: le ringhiere ornate e lucidate riflettevano la luce soffusa gettata da Sfere di Luce. Al piano di sotto venivano conservati testi più vecchi e delicati, in sale dove di rado brillava la luce.

Nella biblioteca di Julatsa, come in quella di Xetesk, si respirava un'aria antica; l'odore di muffa era una delizia per le narici dei topi di biblioteca. Stranamente, per un edificio che conteneva tanta conoscenza e tanto potere latente, la biblioteca non era gravata dal peso del mana. Nessuna massa incombeva opprimente come un giogo sul collo e, mentre si massaggiava la schiena rigida con una mano e con l'altra teneva quella di Erienne, Denser ne fu molto lieto.

«A che punto siamo?» chiese, rivolgendosi a chiunque avesse voluto rispondere.

«A niente di particolarmente utile», rispose Erienne, ringraziando con un cenno mentre altre pergamene chiuse da nastri venivano collocate sul tavolo da un bibliotecario. «Abbiamo stabilito un possibile legame tra la creazione controllata del portale di Septern e la connessione dimensionale usata a Understone, ma finora nella dottrina non c'è nulla che possa unire i due in un modello di chiusura.

«Therus si ricorda vagamente di un'annotazione a margine, in un testo julatsano, riguardante il flusso di mana e l'alterazione dimensionale causata dalla creazione di uno squarcio, ma non riesce a trovarlo, e tu hai scoperto un modo per mantenere il fornello della tua pipa a una temperatura che bruci più efficacemente il tabacco.»

«Anche questo è molto importante», commentò Denser, con un luccichio negli occhi.

Erienne contrasse le labbra. «È un'abitudine disgustosa.»

«È il mio unico vizio.»

«Non direi.»

Therus si schiarì la gola. «Mi dispiace interrompervi, ma ho trovato qualcosa.»

«Di buono?» chiese Denser.

«Non del tutto.»

«Be', sentiamo.»

 

I sogni si susseguivano nella mente di Thraun con una chiarezza che al risveglio non avrebbe dimenticato. Tutti i pensieri, le sensazioni, gli odori e gli impulsi della sua metà da lupo gli fluivano nella mente umana. Per la prima volta, avrebbe ricordato tutto. La sua coscienza lottava per emergere da un gorgo di sfinimento e di dolore. Gli si era aperta una voragine nel cuore e le proteste dei muscoli e dei tendini affaticati non facevano che potenziare quella sinfonia di dolore.

Thraun aprì le palpebre su una realtà che prima aveva visto solo con altri occhi. Il bianco, ricordò. Era il colore delle pareti, delle lenzuola e delle bende; anche delle persone, alcune stese immobili, altre in movimento. Lì c'era conforto, ma mescolato con la morte.

Borbottò la prima di una marea di cose all'amico che non era riuscito a proteggere, i cui occhi, chiusi per sempre, non vedevano più il mondo. Il suono che emise si trasformò da un sussurro a un grugnito. Quasi subito sentì una mano sulla fronte, poi il tocco freddo di un panno umido. Mise a fuoco lo sguardo e fissò il volto di una donna anziana, la cui pelle rugosa circondava due occhi di uno stupefacente azzurro chiaro.

«Non temere», gli disse la donna, sorridendo. «Qui puoi riposare al sicuro.»

Thraun non sospettava che fossero al corrente dell'altra sua forma, ma la rassicurazione lo placò. Non aveva l'energia per elaborare parole di ringraziamento, ma la donna sembrò capire.

«Non nascondere il tuo dolore. Piangere è umano. I tuoi amici gli hanno reso grande onore e lui è in pace. Adesso riposa. C'è dell'acqua accanto al giaciglio. Io sono Salthea. Chiamami, se hai bisogno.»

Thraun annuì e voltò la faccia dall'altra parte, non volendo che la donna vedesse le prime lacrime scorrergli sulle guance.

 

Mentre aspettava che arrivasse Ilkar, Denser rilesse più volte l'appunto trovato da Therus, ed Erienne fece lo stesso. Il senso era piuttosto chiaro. C'erano altri scritti, scritti importanti che descrivevano in dettaglio la creazione attiva di squarci interdimensionali, il modo in cui si preservavano nonostante gli urti del vuoto in cui viaggiavano e in cui influenzavano lo spazio circostante, le implicazioni comportate dall'unione di due dimensioni e dal dissolvimento di tale legame. Erano gli scritti di cui il Corvo aveva bisogno per trovare in fretta una risposta di qualche tipo al problema che aleggiava sopra Parve.

Secondo l'annotazione in un rapporto effettuato al Consiglio julatsano più di trecentocinquanta anni prima, Septern aveva tenuto una serie di lezioni in un simposio al lago Triverne, in cui aveva esposto buona parte delle sue conoscenze sulla magia dimensionale. Aveva lasciato i testi degli interventi in eredità al College promotore dell'iniziativa. Era un atto tipico di Septern: non si era mai sentito vincolato a nessun College, nonostante le origini dordoveriane.

Per il Corvo, era un vero peccato che in quell'occasione il College promotore fosse stato Xetesk.

«Roba da non credere», affermò Erienne.

«Visto il desiderio di Styliann di andare a Xetesk da solo e senza aiuti, la cosa non mi sorprende», replicò Denser.

«Pensi che sappia di quei testi?»

«Senza ombra di dubbio. Li conosceranno sia Styliann sia Dystran.»

La porta della biblioteca si aprì. Ilkar entrò a grandi passi, massaggiandosi il collo per alleviarne la tensione. Denser lo ragguagliò in breve.

«La prossima mossa?» domandò il julatsano, scuotendo la testa. «Cosa pensi che farà Styliann?»

«Sa quello che dobbiamo fare ed è consapevole dell'importanza degli scritti. Il fatto che non ce ne abbia parlato a Parve mi suggerisce una cosa: vuole venire con noi nella dimensione dei draghi.»

«A che scopo?»

«Forse, secondo lui, potremmo non trovare la soluzione da soli», ipotizzò Denser. «Più probabilmente, è curioso di visitare quella dimensione ed è in cerca di un potenziale guadagno per sé e per Xetesk.»

«Guadagno?» Erienne aveva un tono sprezzante.

«Se riuscirà a stringere un patto coi draghi o a ottenere garanzie che aiutino Xetesk, lo farà.»

«Ma non può andare senza di noi, giusto?» domandò Ilkar.

«Perché no?» replicò Erienne.

«Perché possediamo entrambe le chiavi del laboratorio di Septern», rispose l'elfo. «Perciò ha ancora bisogno che lo aiutiamo a raggiungere la dimensione dei draghi. E sono sicuro che i Kaan non si piegheranno così facilmente alle sue richieste. Non so se Styliann comprenda bene quanto sono potenti.»

«Il Lord della Montagna ha una tale arroganza», borbottò Erienne.

Denser le lanciò una brusca occhiata, ma non commentò quelle parole. Invece chiese a Ilkar: «Lo porteremo con noi?»

L'elfo alzò le spalle. «Non abbiamo molta scelta. E credo che pure Hirad e l'Ignoto siano di questo parere. Dobbiamo chiudere lo squarcio in fretta. Ci preoccuperemo in un secondo momento delle motivazioni di Styliann.»

Denser annuì. «In questo caso, e tornando alla tua domanda, la prossima mossa, o meglio la mia prossima mossa, sarà effettuare una comunione mentale con Styliann. Dato che abbiamo, a quanto sembra, bisogno gli uni dell'altro, sarà meglio che almeno conosciamo le reciproche posizioni.»

Ilkar annuì. «Sarà meglio svegliare gli altri e trovare un modo di uscire di qui.»

«Come sta andando la battaglia?» domandò Erienne.

Tutti e tre percepirono di nuovo i rumori dell'esterno.

«Esattamente come ce l'aspettavamo. Gli occadi avanzano verso le mura, ma vengono ricacciati indietro dalle frecce e dagli incantesimi. I proiettili delle catapulte vengono respinti dai nostri scudi; in realtà gli occadi non cercano di lanciarli oltre le mura, all'interno del College vero e proprio. Sanno cosa fare e anche noi, ma non abbiamo soluzioni. Logoreranno i maghi; poi sferreranno una forte offensiva, e alla fine ci prenderanno.» Ilkar era impassibile, ma gli altri ne percepirono lo scombussolamento interiore. Non solo avrebbe assistito all'assedio del suo College, ma sarebbe stato costretto a lasciarlo prima che cadesse.

«E i dordoveriani?» chiese Denser.

«Be', rappresentano la nostra unica, vera possibilità. Si stima che ci raggiungeranno domani mattina, ma è essenziale che attacchino nel luogo giusto. Potrebbero anche essere per noi la migliore occasione per andarcene sani e salvi.» Ilkar si grattò la testa. «Torno nel Cuore. Erienne, hai notizie di Thraun?»

«Si. è svegliato una volta, ma sta di nuovo dormendo. Fisicamente, ha solo bisogno di riposare. Per quanto riguarda lo spirito, chi lo sa?»

«Tenetemi aggiornato, d'accordo? Ci vediamo tra poco.»

Denser guardò la porta chiudersi dietro l'elfo. «Vado a riposare. Effettuerò una comunione mentale, quando sarà calato il buio.» Si chinò e baciò Erienne. «Non dimenticare di reintegrare le tue energie. Abbiamo bisogno di te.»

Erienne gli scompigliò i capelli. «Non ti preoccupare per me, una notte di sonno basterà. Ma tu sta' attento. Una comunione mentale con Styliann è pericolosa.»

 

Barras si trovava sulle mura settentrionali del College, dov'era stato per buona parte del giorno, protetto da uno Scudo di Pietra; osservava i bastioni difesi con incantesimi dalla minaccia delle catapulte e degli arieti. Anche se gli occadi non avevano raggiunto le mura, il mago assisteva con un senso di disperazione sempre più profondo allo svolgersi della battaglia.

La giornata era iniziata con un oltraggio: gli occadi avevano cosparso i morti julatsani di olio, cui poi avevano dato fuoco con frecce incendiarie. Con la pelle cerea e coi vestiti secchi come paglia, i corpi erano arsi rapidamente, privando i julatsani della possibilità di onorarli con una sepoltura. Proprio mentre un soffocante fumo grigio scuro saliva a ondate lungo le mura, gli occadi avevano sferrato il primo attacco, nascosti dalla terribile coltre che avevano creato.

Tenendosi a distanza dal fumo accecante e soffocante, i maghi avevano sommerso l'area all'esterno delle mura con Globi di Fiamma, Pioggia di Fuoco e Grandine di Morte. Costretti a proteggere con uno scudo magico le mura dalle inevitabili falle e dai contraccolpi, avevano attuato un'azione di sbarramento dispendiosa in termini di mana, che aveva avuto termine solo quando alcuni soldati col volto protetto da un panno avevano segnalato la ritirata del nemico.

Quella era stata, per tutta la giornata, la tattica di Senedai: attacchi sporadici ma prolungati in uno qualsiasi dei punti intorno alle mura, mai tali da rappresentare una seria minaccia per l'integrità delle difese, ma sufficienti a richiedere l'uso ininterrotto d'incantesimi. Senedai sapeva cosa stava facendo e circoscriveva al minimo le perdite.

Se Barras avesse ascoltato la rapida valutazione dell'assedio fatta da Ilkar, avrebbe concordato su ogni punto. Gli occadi avevano tempo o pensavano di averlo; i julatsani alla fine sarebbero stati presi per sfinimento, proprio com'era accaduto lungo i confini della città. Una breccia era tutto ciò di cui gli occadi avevano bisogno.

Barras si sfregò gli occhi. Era sicuro che, contrariamente alle abitudini, gli occadi avrebbero attaccato per tutta la notte, forse con maggior ferocia per costringere più maghi e soldati a restare sulle mura, e privare di un vero riposo chi non era in servizio. Tutti quelli che stavano di guardia erano posti di fronte all'enormità dell'impresa, e ciò fiaccava il morale.

Nella relativa calma ai margini del cortile, e perfino quando si salivano le scale dei bastioni, era possibile distaccarsi dalla realtà dell'assedio, ma bastava un'occhiata perché cambiasse tutto. Al di là delle mura, fuori dalla portata degli incantesimi, si trovavano gli occadi. Migliaia di guerrieri in attesa, a volte silenziosi, a volte intenti a cantare a squarciagola i loro canti di vittoria e di odio. Era una marea in subbuglio, che attendeva la tempesta per trasformarsi in un'onda gigantesca. Erano locuste pronte a depredare i campi maturi. Eppure temevano ancora la magia. Li rendeva cauti, proprio come in passato. Se non fosse stato così, il primo attacco sarebbe di certo bastato; Senedai però aveva preferito non impegnare una parte consistente dell'esercito.

Di conseguenza i julatsani, pur temporaneamente sollevati, dovevano parare colpo dopo colpo, indebolendosi sempre più, ed erano costretti ad assistere al saccheggio e alla distruzione della città. In una decina di punti ardevano roghi. Quando non era permeata dalle grida degli occadi, l'aria era pervasa dal rumore dei muri che crollavano e del legno che si schiantava.

Non c'era via d'uscita, ma Barras serbava ancora una piccola speranza. Il Corvo era all'interno del College e... «Quando arriveranno i dordoveriani?» chiese a Seldane, appena tornata da una comunione mentale.

«Avanzano lenti», rispose la maga. «Ora che l'assedio si avvia a conclusione, ci sono squadre di razziatori ovunque. I dordoveriani sono bloccati nelle foreste, a tre ore da qui. Se riescono a coprire la distanza nella notte, attaccheranno poco dopo l'alba.»

«Devo ricordarmi di svegliarmi presto», mormorò Kerela.

«L'ultima valutazione sulla nostra forza magica?» chiese il generale Kard. Per tutto il giorno aveva seguito qualche membro del Consiglio nei vari giri sulle mura.

Con un cenno, Kerela invitò Vilif a parlare.

Il venerando segretario del Consiglio, curvo e senza capelli, inarcò le sopracciglia. «La situazione non è per niente buona. La Pioggia di Fuoco e i Globi di Fiamma, pur efficaci, sono estenuanti se lanciati a queste distanze e a ripetizione. Se l'attacco continuerà per tutta la notte con la stessa intensità, domani a metà pomeriggio tutti i maghi saranno stremati. E allora, mio caro amico, sarà tutto nelle vostre abili mani.»

La notte era calata su Julatsa, e gli occadi non si erano ritirati. I colpi delle catapulte risuonavano sordi contro le mura protette dallo scudo; di tanto in tanto volavano oltre, causando sporadici danni agli edifici e a chi era abbastanza stolto da aggirarsi allo scoperto.

Stanco e in preda agli sbadigli, Denser era seduto accanto a Erienne nella stanza spoglia della torre. Lei aveva appena ultimato la comunione mentale con Pheone, che si era unita alla forza dordoveriana. Hirad e l'Ignoto, riposati e impazienti, avevano invece divorato piatti di carne e verdure e avevano intenzione di allenarsi per un'ora o due prima di riposare insieme col Corvo fino all'alba. Thraun dormiva ancora.

«Potremmo andare avanti a cercare per giorni, ma non credo che qui scopriremo altro», osservò Ilkar. «Abbiamo trovato alcuni dettagli essenziali, ma la chiave di tutto sta a Xetesk e non ha senso fingere che non sia così.» Era infuriato per il fatto che Styliann si fosse portato in vantaggio su di loro, ma per qualche motivo non se ne stupiva.

«A essere onesti, potrebbe essere una benedizione», commentò l'Ignoto. Bevve una lunga sorsata di birra e si pulì la bocca con la mano. «Abbiamo tutti riconosciuto che il diversivo creato dai dordoveriani sia la migliore occasione che abbiamo per andarcene. Non solo, se non riusciranno a porre fine all'assedio, il College alla fine cadrà e, mi dispiace, Ilkar, ma quello che stiamo facendo non può essere interrotto per salvarlo.»

«Lo so», replicò l'elfo. «Lo sappiamo tutti. Siamo preparati.»

«Dobbiamo informare Kard e il Consiglio», disse l'Ignoto. «Ci servono cavalli, provviste, qualcuno che apra la porta nord al momento giusto e, se riusciamo a ottenerlo, sostegno per fare breccia nella linea.»

«Lo otterremo», replicò Ilkar. «Kerela non è un'idiota. Le parlerò io.»

«E Styliann?» chiese l'Ignoto, rivolgendosi a Denser. Il mago oscuro si ricompose e appoggiò le braccia sul tavolo. «Non è stata una comunione mentale facile», spiegò. Nonostante l'umore, intorno al tavolo si diffuse una risatina. «Styliann è chiaramente deciso a venire con noi, anche se non lo ha detto in modo esplicito. Sa che dobbiamo entrare in possesso dei testi che ha trovato e dice che c'incontrerà alla residenza di Septern per discuterne. Sappiamo tutti cosa significhi.»

«Quando partirà?» chiese Hirad, solo vagamente seccato dal piano di Styliann. Ormai non si stupiva più di ciò che vedeva o sentiva. Dopo il Ruba Aurora e i draghi, niente poteva più sorprenderlo.

«Domani, come noi. E potrebbe anche arrivare prima di noi.»

«Ha con sé i Protettori?»

«Certo.»

Hirad si accigliò. «Quanti?»

«Non ha voluto dirmelo.»

L'Ignoto si rivolse a Erienne. «Aggiornaci sui dordoveriani.»

«Non c'è molto di nuovo da dire. Stanno marciando lenti verso la porta nord e sono stati raggiunti da alcuni gruppi di julatsani nascosti in mezzo ai boschi. Mi sono presa la libertà di riferire a Pheone della nostra necessità di andarcene, e lei trasmetterà l'informazione al comandante dei dordoveriani. Tuttavia il loro primo dovere è liberare Julatsa. Non c'è altro.»

«Ti ha dato qualche indicazione sull'attacco dordoveriano?» chiese Hirad.

«In che senso?»

«Hanno in mente un fronte d'attacco ampio o una formazione a cuneo per creare una breccia?»

«Non me l'ha detto», rispose Erienne. «Dubito fortemente che lo sappia.»

«Non ha importanza», tagliò corto l'Ignoto. «Sappiamo qual è il nostro compito. Ora riposate. Hirad, vieni con me. Andiamo da Thraun. Dovrà essere pronto alle prime luci dell'alba.»

 

Styliann era seduto con Dystran nella torre del Lord della Montagna, sgomento di fronte all'ammasso di roba che l'usurpatore aveva accumulato in pochi giorni soltanto. L'ordine è tutto, si disse. Un giorno Dystran lo avrebbe capito, forse, anche se probabilmente considerava terminata la fase dell'istruzione.

Styliann sorseggiò il vino rosso proveniente dai vigneti Blackthorne - non di una tra le annate migliori, ma comunque squisito - e si guardò intorno. Dystran gli sedeva di fronte, dall'altra parte del fuoco, il cui calore si era già diffuso alle pietre; era spalleggiato da due guerrieri e da due maghi, che squadravano con palese diffidenza il vecchio Lord della Montagna.

Sebbene avesse solo Cil come guardia, Styliann riteneva di avere un notevole vantaggio sull'avversario. «Allora qual è la tua risposta?» domandò, posando il bicchiere vuoto sulla mensola del caminetto. Sentì il calore del fuoco sul braccio.

«La vostra proposta è francamente incredibile», esordì Dystran. «E, dato che vi rifiutate di sottoporvi a un Rivelatore di Verità, resto scettico sulla veridicità di quanto affermate.»

«Suvvia, Dystran, il mio rifiuto ad accettare un Rivelatore di Verità ha ragioni di tutt'altra natura, come ben sai. Ti sto offrendo tutto ciò che desideri, in cambio di un solo fascio di carte che sappiamo entrambi devono arrivare al Corvo perché possiamo sopravvivere tutti quanti.»

«Ma chiedete anche l'esercito di Protettori!»

«Nel caso ti fosse sfuggito, gli occadi ci hanno invaso in massa, e io devo raggiungere in tutta sicurezza la residenza di Septern. Sarai libero di effettuare l'atto di Rinuncia tra sette giorni, e i Protettori saranno di nuovo tuoi. La mia è una richiesta semplice. E poi, quando lascerò il College, avrai il potere d'impedirmi di tornare.»

Dystran scosse la testa, incredulo. «Promettete di non sfidare la mia autorità?»

«Sì. Firmerò gli atti che confermano la tua ascesa al potere non appena li avrai fatti preparare.» Styliann si versò un altro bicchiere di vino. «Non vedo ragione per cui tu debba rifiutare.»

«Ed è proprio questo che mi preoccupa.»

Styliann ridacchiò. «Sono contento di vedere che gli ingranaggi della tua mente funzionano ancora. Tuttavia la mia offerta racchiude tutto ciò che vuoi e niente che tu non voglia.»

«Perché? Non riesco a capire perché rinunciate tanto mitemente a tutto quello per cui avete vissuto.»

«Non mi sorprende che tu non riesca a capire», convenne Styliann. Compativa Dystran per l'incapacità di vedere veramente le cose. Lo compativa, ma ne era lieto. «Ci vengono però aperte delle strade cui non osiamo voltare le spalle.»

«L'ombra di mezzogiorno è una di queste?»

Styliann inclinò la testa. «Sì, in un certo senso.»

Dystran spostò lo sguardo sul fuoco, ma Styliann lo vide tremolare mentre un turbine di pensieri gli vorticava in testa. Era probabilmente assorto in una comunione mentale stretta coi suoi aiutanti. Il silenzio fu breve.

«Verranno preparate le carte. Le firmerete e lascerete subito la città per tornarvi solo col mio permesso e riportare le pagine di Septern che vi vengono prestate allo scopo di salvare Balaia. È accettabile?»

«Sì.» Styliann si alzò. «Ora ti lascio al tuo lavoro. Il Lord della Montagna si godrà una breve pausa di riposo. Aspetterò le carte nella grande sala da pranzo.»

«Vi verranno consegnate delle vettovaglie.»

«Grazie.» Styliann tese la mano, che Dystran strinse un po' riluttante. «Al prossimo incontro.» Afferrati gli scritti di Septern, l'ex Lord della Montagna lasciò la torre.

Più tardi, mentre tornava dai Protettori in attesa, con Cil che lo seguiva conducendo una fila di sei cavalli carichi, Styliann guardò le carte e le pergamene che aveva in mano e si meravigliò di fronte alla stupidità del nuovo Lord della Montagna. Non aveva fatto obiezioni sui documenti che Styliann aveva selezionato, non li aveva nemmeno guardati; eppure erano le chiavi del potere e dell'influenza, e lo rendevano una pedina insignificante. Un giorno se ne sarebbe reso conto. E quel giorno Styliann avrebbe provato un grande piacere.

 

Non era propriamente notte, non in base alla concezione di Hirad. Era a ridosso del muro nord; una fila di sei cavalli sellati, tranquillizzati con la magia, era legata lì vicino mentre fuori imperversava l'ultimo assalto al College. Il bagliore residuo degli incantesimi era ben visibile nel buio che precedeva l'alba, inondava il cielo là dove i fuochi di un centinaio di edifici in fiamme avevano già lasciato il segno.

Fiamme e grandine si abbattevano sugli occadi, le cui grida si mescolavano agli ordini dei maghi che dirigevano il fuoco e il ghiaccio. Il rumore delle corde degli archi s'intercalava alle voci. Mancava lo stridio metallico delle spade; nessun nemico aveva scalato le mura, ma si avvicinavano sempre più.

Hirad era contento di restare nell'ombra e di ascoltare. Non c'era niente che potesse fare e doveva prepararsi, come tutti i membri del Corvo. La mattina e l'attacco dordoveriano, quando fossero sopraggiunti, sarebbero stati difficili. Rischiosi. E il Corvo non era incline a correre rischi superflui.

Mentre il barbaro se ne stava appoggiato al muro, accarezzando distrattamente il dorso del cavallo, vide la porta della torre aprirsi e una figura enorme chinarsi per uscire, seguita da una più sottile: l'Ignoto e Ilkar. Sorrise quando s'incamminarono lenti verso di lui conversando, proprio come due amici usciti a fare due passi. Hirad tuttavia immaginava cosa si stessero dicendo, e la temperatura del mattino non era certo oggetto delle loro chiacchiere.

Poco dopo, la luce di una lampada dell'infermeria si riversò nel cortile e comparvero tre sagome. Al centro, un uomo alto procedeva gobbo e chino; i suoi compagni lo precedevano sempre di mezzo passo. Era una marcia silenziosa.

«Sei qui da molto?» domandò Ilkar al barbaro.

«Abbastanza da sentire il logorio della difesa», rispose Hirad. «Stai bene?»

«Quanto lo si può essere a quest'ora assurda.»

«Notizie dei dordoveriani?»

«Dobbiamo tenerci pronti», disse Ilkar.

«E basta?»

«Be', non hanno fornito un piano tattico di battaglia con punti d'infiltrazione, interventi magici e difesa dei fianchi, se è questo che chiedi.» Ilkar scrollò le spalle. «È stata una comunione mentale breve, non una discussione da tavola rotonda.»

«E poi vi chiamate maghi, io proprio non so...» L'allegria di Hirad di fronte all'irritazione dell'elfo svanì quando comparve Thraun.

Qualcuno gli aveva raccolto i capelli a coda; la chioma metteva in risalto gli occhi cerchiati di rosso, dallo sguardo assente, che spiccavano sul volto tirato e spaventosamente stanco, testimonianza delle lacrime che aveva versato e di quelle che ancora doveva versare.

Il barbaro ebbe un tuffo al cuore quando ripensò all'assassinio di Sirendor. Non c'era niente che si potesse dire, ma il silenzio non era un'alternativa. «Il dolore si attenuerà.»

Thraun lo guardò prima di scuotere la testa e abbassare di nuovo lo sguardo a terra. «No. L'ho lasciato morire.»

«Sai che non è vero», disse l'Ignoto.

«Come uomo avrei potuto fermarli. Come lupo potevo solo capire la mia paura. L'ho lasciato morire.»

Hirad aprì e chiuse la bocca. Decise di non replicare a quelle parole, invece chiese: «Sei in grado di cavalcare?»

Thraun assentì.

«Bene. Abbiamo bisogno di te, abbiamo bisogno della tua forza. Tu sei un Corvo, e noi ti saremo sempre accanto.»

Thraun fece un altro cenno, ma le spalle presero a tremargli. «Come io sono stato accanto a Will? L'ho lasciato morire.»

«A volte anche fare del nostro meglio non basta», osservò Hirad.

«Ma io non l'ho fatto. Ero perso nella bestia, e per questo Will è morto.»

«Non è colpa tua», intervenne Erienne.

«Sì, invece», mormorò Thraun. «Sì.»

 

Durante tutta la mattinata gli occadi sferrarono un attacco dopo l'altro, come se percepissero un cambiamento nell'aria. Si scagliavano contro le mura con furia e ferocia sempre più intense. Erano migliaia. Scale e torri cozzavano contro le pietre julatsane solo per essere distrutte dal fuoco, e i guerrieri spazzati via dal vento e dalla grandine. Però continuavano ad arrivare e, via via che i maghi si affaticavano, la minaccia di combattimenti corpo a corpo sui bastioni si faceva più vicina.

Durante una tregua temporanea, mentre i nemici si raggruppavano per l'ennesima volta al di fuori della portata degli incantesimi, il Corvo si portò sui merli della porta nord per valutare la situazione. Gli edifici della città venivano sistematicamente distrutti; i materiali utili subito destinati a nuovi utilizzi, tutto il resto frantumato o bruciato. Ovunque tremolavano fuochi, e la zona spianata si allargava di ora in ora.

Hirad si voltò verso l'Ignoto mentre i colpi di catapulta sfrecciavano sibilando sopra le loro teste per piombare sugli edifici e nel cortile deserto. Non c'era neanche bisogno di voltarsi a guardare. Il grosso guerriero stava fissando impassibile la marea degli occadi, stimando le probabilità di fuga e valutando nel contempo la tattica del «colpisci e fuggi» che tanto sfiniva i maghi della difesa julatsana.

«A cosa pensi, Ignoto?»

«Facciamo troppo conto sul fatto che i dordoveriani creino un varco ampio. Se non colpiamo anche noi da questo lato, non spezzeremo le linee.»

«Sei sempre ottimista, eh?»

«Sono solo realista.»

«Cosa suggerisci?»

«Be', presumiamo che i dordoveriani colpiscano lungo un fronte che vada da quello stendardo rosso con l'orso a quello con la testa di toro, laggiù.» L'Ignoto indicò due stendardi che sventolavano a circa settanta passi l'uno dall'altro. «Possiamo essere sicuri che si creerà una breccia su entrambi i lati per un tratto di otto, dieci passi al massimo, quando gli uomini lasceranno il fronte per combattere alle loro spalle. Se possiamo incrementarle con un attacco da qui, aumenteremo di molto le nostre possibilità. È semplice.»

Hirad ridacchiò. «Lo abbiamo già fatto prima», disse, sfoderando un sorriso sempre più largo di fronte all'espressione accigliata dell'Ignoto. «Anche se tu non eri sempre con noi. Fidati.»

L'imponente guerriero annuì e si voltò di nuovo verso gli occadi.

 

L'attacco arrivò senza preavviso, proprio quando il sole superò lo zenit. I maghi julatsani si stavano preparando per un altro assalto degli occadi quando, dalla periferia nord della città, il fuoco avvampò e un fragore di crolli si propagò nell'aria. I lampi che si susseguivano gettavano ombre e luci accecanti su tutta Julatsa, ammantando il cielo di tonalità rosse, arancione e azzurre.

Dai bastioni settentrionali si levarono grida di esultanza; i maghi persero la concentrazione, e lungo i bastioni le facce si girarono e le braccia puntarono in una direzione. I dordoveriani erano arrivati.

Per alcuni istanti che parvero eterni non ci fu reazione da parte degli occadi. Poi uno strepito di ordini concitati si levò tra le forze a nord rivolte verso il College. I ranghi si ruppero e si mescolarono mentre gli occadi predisponevano la difesa in base alle tribù e agli stendardi. I posti liberati venivano occupati da altri, ma l'intero assembramento si assottigliò; quanti erano stati inviati nelle retroguardie si allontanarono per le strade. Mentre gli occadi parevano essere caduti in preda allo sconcerto, il College fu pervaso da un'atmosfera di sollievo. Le espressioni cupe dei julatsani lasciarono il posto ai sorrisi, e dalle ceneri nello sconforto nacque la speranza. I difensori del College esultarono di fronte ai loro salvatori.

Quando i rumori dei combattimenti corpo a corpo giunsero dalla città sull'onda di un fuoco di fila sempre più intenso d'incantesimi, Hirad ritenne di avere visto abbastanza. «È ora», disse.

Il barbaro, l'Ignoto e Ilkar scesero di corsa i gradini fino a raggiungere il drappello in attesa sotto il corpo di guardia. Il Corvo avrebbe cavalcato dietro cinque maghi protetti da scudi e davanti a duecento fanti.

Balzando in sella, Hirad guardò gli altri. «Pronti?» Vari cenni gli confermarono che era così. «Sbrighiamoci, allora! Gli occadi non se ne staranno lì ad attenderci.»

A un segnale dell'Ignoto, la porta nord si spalancò. La piccola forza uscì al galoppo puntando verso il nemico che, chiaramente sviato dall'attacco alle retrovie, non reagì subito.

I due maghi al centro lanciarono Coni di Forza che avevano richiesto una lunga preparazione; i due incantesimi si abbatterono con violenza sulle linee degli occadi, scagliando verso la morte gli sfortunati che si spiaccicarono contro gli edifici e i cumuli di macerie. Un attimo dopo, dai palmi dei maghi che Mentre il mago osservava, alla sua destra si levò un grido. Migliaia di nemici si stavano riversando nella piazza davanti alla porta nord. Alle loro spalle la polvere della battaglia coi dordoveriani riempiva ancora l'aria, ma Barras percepì che qualcosa che non andava.

Accanto a lui, una maga sedeva riparata dai merli, intenta ad accettare una comunione mentale. Pochi istanti dopo, la donna alzò lo sguardo verso l'elfo. Le sue lacrime gli fecero capire tutto prima ancora che la donna dicesse: «I dordoveriani sono sconfitti. Si ritirano».

Barras sentì una fitta al cuore e faticò per non lasciar trasparire la disperazione. Si abbassò e aiutò la donna ad alzarsi. «Vieni. Non ti preoccupare. Possiamo ancora sconfiggerli.» Ma mentre si girava per impartire gli ordini successivi sapeva che Julatsa era ormai perduta.

Allertato dagli avvertimenti lanciati lungo le mura, Kard schizzò verso la porta nord. Il sudore gli sgorgava copioso sulle membra stanche, ma lo spirito era sempre indomito. Gridando parole d'incoraggiamento mentre correva, arrivò accanto a Barras e si chinò verso l'elfo. «Ci siamo, amico mio. Quando sarà il momento, vi porterò nel Cuore.»

Barras assentì. «Ma ritardiamo il più possibile quel momento, eh?»

Kard sorrise e cominciò a sbraitare ordini ai suoi uomini, stando al loro fianco mentre combattevano per arginare l'infinita marea di occadi. Coi rinforzi reduci dalla vittoria sui dordoveriani, arrivarono altre scale d'assalto, un secondo ariete. L'intensità della battaglia aumentò.

Gli occadi avevano raggiunto le mura in quattro punti e ricacciavano indietro i difensori con ferocia. Troppo vicine perché potessero essere difese con la magia, le mura dovettero essere protette solo dai soldati. Quando gli occadi le assaltarono, fu ben presto evidente che i difensori non erano abbastanza numerosi.

Kard chiamò le squadre di riserva, urlando e agitando le braccia. La sua sagoma e la sua voce inconfondibili erano un richiamo per i suoi. Barras e gli altri maghi scagliarono Globi di Fiamma e Pioggia di Fuoco sulla massa rumoreggiante.

Ma, pur pagando un alto prezzo in termini di vite, gli occadi subito si riorganizzarono e ripresero l'assalto.

«La porta!» gridò Kard. «Tenete la porta!»

Come a sottolineare le sue parole, il tonfo poderoso di un ariete si trasmise lungo le pietre del corpo di guardia settentrionale. Subito gli incantesimi saettarono verso l'esterno e verso il basso, ma il fuoco non si era quasi nemmeno spento che gli occadi sparpagliatisi erano già tornati verso l'ariete percependo la vittoria.

A sud, il rombo dell'attacco crebbe mentre gli occadi creavano ulteriori accessi alle mura. Una donna gridò quando un guerriero nemico arrivò nel cortile interno e fu subito abbattuto da un soldato.

La difesa crollò in modo rapido. I colpi di catapulta si abbattevano di nuovo sul College, l'ariete continuava a cozzare contro la porta nord; il legno rivestito di ferro scricchiolava, le Chiusure Difensive sibilavano e le squadre di riparazione lottavano disperatamente per rinforzare la porta. Sulle mura, numerose brecce di varia entità avevano logorato la difesa.

D'un tratto Kard si voltò verso Barras, pulendosi il sangue dalla faccia. «È il momento!» esclamò.

«No, possiamo trattenerli», replicò Barras, cercando con gli occhi un barlume di speranza che non trovò.

Kard lo afferrò per un braccio. «No, Barras, non possiamo. Ora andate. Vi proteggerò.»

L'elfo strinse la mano a Kard, cupo in volto. «Addio, mio vecchio amico.»

«Fate quello che dovete fare», replicò Kard. «Conoscervi mi ha reso un uomo migliore.»

Ma morto, pensò Barras, precipitandosi verso le scale.

Cinque maghi abbandonarono la lotta per unirsi a lui. Erano i prescelti: il compito che dovevano svolgere avrebbe significato per loro la morte, ma pure che la loro memoria sarebbe stata serbata per sempre.

Mentre correva verso la torre, con le grida di Kard che gli risuonavano forti nelle orecchie e il tumulto tutt'intorno ridotto a un frastuono attutito, Barras scrutò i bastioni sud in cerca di Kerela. Sorrise quando vide il Sommo mago indicare verso la città per dirigere incantesimi e soldati.

Quasi si fosse sentita i suoi occhi addosso, Kerela si voltò e lo vide.

Barras rallentò sino a fermarsi. Per un istante, i due elfi si fissarono come a rivivere ogni momento trascorso insieme. Lui sentì una pulsazione di mana calda e delicata avvolgergli il corpo. Kerela sorrise, gli fece un lieve cenno col capo e lo salutò.

Barras ricambiò il gesto e continuò a correre verso la torre, fissando nella mente tutto quello che vedeva. Sapeva che non lo avrebbe più rivisto.