Capitolo 16

Quando tutti ebbero raggiunto il terreno pianeggiante al di sopra della baia, il Corvo si diresse verso la valle del fiume Tri. Il paesaggio era splendido anche nella penombra dell'alba; in buona parte era ancora avvolto da fitte ombre.

A nord-est, la terra formava dolci rilievi su cui le felci ondeggiavano e frusciavano; gruppi isolati di alberi e di cespugli bassi circondavano stagni con rive sassose, le rocce spiccavano tra le tonalità verdi e brune col loro intenso grigio ardesia.

A sud-est, lo scenario era completamente diverso. La terra precipitava di colpo nella valle del fiume Tri, dove si appiattiva per un tratto, formando una grande prateria verde di erba folta. Le rive ospitavano querce e salici dai tronchi grossi; sul bordo dell'acqua cresceva un groviglio di biancospini selvatici. Qua e là le secche di ciottoli, sommerse nei momenti di piena, davano la misura della larghezza di quel fiume lento, ampio più di quattrocento passi.

A ovest e a sud, l'enorme massa nera della principale catena montuosa di Balaia si stagliava contro il cielo; costellata di altipiani, picchi e rocce franate, digradava verso l'ammasso di colline e infine verso le fertili pianure orientali. Da vicino appariva incredibilmente imponente e Hirad si chiese se il barone Blackthorne, la cui famiglia aveva preso il nome da quei monti, si fosse mai sentito come si sentiva lui in quel momento: piccolo in presenza di una forza straordinaria. Finché le montagne fossero rimaste in piedi, Balaia sarebbe sopravvissuta. Ma, se i draghi avessero attraversato lo squarcio dimensionale in numero tale da sopraffare la stirpe Kaan, i monti Blackthorne sarebbero stati distrutti, ridotti a pezzi. Hirad giurò a se stesso di fare di tutto perché ciò non accadesse.

La vegetazione su entrambe le sponde del Tri, pur rappresentando un'ottima copertura, rendeva difficile il cammino.

Col lupo che svolgeva - forse consapevolmente - il servizio di retroguardia, il Corvo si spinse nell'entroterra fin dove osò, mentre la luce del giorno si diffondeva veloce in cielo. Alla fine, stanchi e allo scoperto, si avvicinarono ai bordi dell'acqua, dove trovarono una radura adatta a piazzare il fornello di Will. Restarono tuttavia nascosti sia dalla riva meridionale sia dalle zone immediatamente a nord. Il lupo scomparve nella vegetazione.

«È bello essere tornati da questa parte dei Blackthorne!» esclamò Hirad, rilassandosi appoggiato a un albero. Sentì la corteccia sfregare contro i muscoli rigidi della schiena attraverso l'armatura di cuoio. Allentò i lacci del corpetto e inspirò profondamente.

Denser scosse la testa. L'Ignoto fissava il bosco circostante, in silenzio.

«Non vale il prezzo che abbiamo pagato», disse Will.

Non era la reazione prevista da Hirad. Il barbaro tirò su col naso e guardò Ilkar, il cui volto tetro non mostrava nessuna sorpresa di fronte all'aria mesta di quanti sedevano intorno al fornello. «Forse dovremmo dormirci un po' su.»

«Ci serve Thraun», disse l'Ignoto. «Ci servono la sua capacità di trovare le piste e i suoi sensi. Se quest'area è pattugliata, e mi aspetto che lo sia, potremmo incontrare grossi guai se non siamo avvertiti in anticipo.»

«Tu non sai trovare le piste?» domandò Erienne.

«Non in modo infallibile come Thraun.»

«Come facevate prima che ci unissimo a voi?» chiese Will, intento a scrutare il sottobosco in cerca dell'amico.

«Non abbiamo mai fatto niente del genere», replicò Hirad. «Di solito facevamo irruzione nei castelli o nei campi di battaglia, combattevamo per tutto il giorno e prendevamo il nostro denaro.»

«Be', dovremo solo stare attenti, no?» disse Denser.

«Non abbiamo tempo per stare attenti», ribatté Ilkar. «Se la biblioteca di Julatsa venisse distrutta prima del nostro arrivo...»

«Lo sappiamo. Non c'è bisogno che tu ci faccia prediche al riguardo.»

«Perché no? Non sembri avere nessuna urgenza.»

«Dico solo che non ha senso farsi uccidere per andare troppo in fretta. Sarebbe altrettanto negativo», replicò Denser.

«Abbassate la voce», li rimproverò l'Ignoto, con voce calma e autoritaria.

La loro avanzata era stata più lenta di quanto sperassero. L'atteggiamento di Denser li aveva influenzati tutti. Dovevano darsi una scossa prima di combattere di nuovo. La determinazione era tutto ciò che possedevano, e in quel momento il Corvo ne era privo.

«Se avete finito di dire ovvietà, vedremo di trovare la migliore soluzione.» L'Ignoto girò la testa verso Will. «Fino a che punto Thraun ti capisce?»

Il ladro scrollò le spalle. «Difficile a dirsi. Riconosce la mia voce, questo è certo, ma possiamo solo supporre quanto capisca realmente. Parole semplici come 'no', 'fermo' e 'corri' credo le capisca; ma non credo di riuscire a persuaderlo, per esempio, a trovare una pista per noi. È più selvaggio di quanto sia mai stato e non è mai rimasto trasformato tanto a lungo.»

«Be', dovremo costringerlo a ritrasformarsi», disse Ilkar.

«Non potete. Non ascolta.» Will si morse il labbro.

«Allora dobbiamo considerarlo perso. Mi dispiace, Will, ma sai cosa intendo.» L'Ignoto si staccò il pettorale. «Potrebbe attaccarci in futuro?»

«Non lo so», rispose Will. «Voglio credere che mi riconosca, per quanto a lungo resti trasformato. Ma lui stesso ha detto che alla fine sarebbe diventato un animale selvatico.»

«Molto più difficile da uccidere, però», osservò Denser.

«Sì», convenne Will. «Ma non si arriverà a questo. I lupi non sono assassini. Cacciano per mangiare, e noi non siamo la prima scelta.»

Come se avesse saputo che stavano parlando di lui, Thraun arrivò silenzioso al campo. La sua improvvisa comparsa accanto alla spalla di Will fece trasalire Erienne.

Il ladro si girò, cinse l'enorme collo con un braccio e avvicinò a sé la testa del lupo. «Sono contento che tu sia qui.»

Thraun gli diede un colpetto sulla guancia, poi si stese di fronte al fornello, muovendo le narici all'odore del legno, del tè e del metallo caldo.

«Come ho detto, alla fine farà quello che vuole», riprese Will. «Se qualcuno di voi pensa di poterlo fermare, be'...»

«A piedi siamo a sei giorni da Julatsa», disse l'Ignoto, riportando l'attenzione del gruppo sulla missione. «Dobbiamo impossessarci alla svelta di alcuni cavalli, ma non possiamo rischiare d'imbatterci in una grossa forza nemica. Ci sono fattorie o paesi che gli occadi potrebbero non avere scovato?»

«No», rispose Ilkar. «Gli insediamenti più vicini che potrebbero essere scampati sono quelli di Lord Jaden a nord, ma sono due giorni in più in una terra ostile nella direzione sbagliata. La nostra unica possibilità per non dover combattere è il lago Triverne, come ha detto Styliann.»

«Di certo sarà sotto il loro controllo», osservò Hirad.

«Non ne sarei così sicuro», replicò Ilkar. «È sede di un'antica magia, il luogo dove, agli occhi degli occadi, dimora la forma più basilare di male. C'era una guarnigione permanente di duecento soldati a guardia del padiglione; potrebbero essere ancora là. E poi Triverne non è la via più diretta per Julatsa, che è un po' più a nord rispetto a qui, dove sono approdati gli occadi.»

«Che ne pensate di una comunione mentale?» suggerì Erienne.

Denser scrollò le spalle. «Se devo. Prima però ho bisogno di riposare.»

«Lo farò io», replicò la maga. «Ne sono capace.»

«Come vuoi», mormorò lo xeteskiano.

«Bene.» L'Ignoto allungò le gambe, cercando di scacciare i problemi dalla mente e di aggrapparsi al filo che li univa. «Sono scettico, lo ammetto, ma, se attraverso la comunione mentale riusciamo a scoprire che il lago è libero, mi sta bene. Altrimenti non sono certo che la deviazione valga il rischio. Dobbiamo anche contattare Pheone, fuori Julatsa, presumendo che sia ancora là, e farci dare la sua posizione. Ma prima, Denser ha ragione, dobbiamo riposare. Monterò io di guardia, e di certo anche Thraun. Proseguiremo dopo mezzogiorno.»

L'alba dell'undicesimo giorno di assedio del College vide il primo aperto conflitto all'interno delle mura. Duecentocinquanta julatsani innocenti erano appena morti. I primi che erano stati uccisi stavano marcendo nel Manto. Barras percepiva la tensione. Aleggiava nell'aria dal primo scontro ma, quando il Consiglio si allontanò dalla porta settentrionale afflitto, disgustato e spaventato, ormai si respirava un'atmosfera di vera e propria minaccia. Stavolta non c'erano stati dimostrazioni di forza o di solidarietà, canti o spacconerie. Solo pianti, urla e accuse furiose prima dell'agonia.

Gli abitanti della città uscirono dagli edifici nel cortile mentre i maghi del Consiglio camminavano lenti verso la torre, tutti con la testa china, persi nei propri pensieri. Kard era vigile come sempre e fece disporre la guardia a protezione del Consiglio, ormai circondato dalla folla in tumulto.

«Oh, dei», mormorò Kerela.

Barras lanciò una rapida occhiata intorno a sé. Il clamore gli ferì le orecchie; la furia dei julatsani stava per tramutarsi in violenza. Brandivano armi, agitavano i pugni. I volti vomitavano rabbia e aggressività.

L'urlo con cui Kard li invitò alla calma fu udito solo da quanti gli erano più vicini, ma ignorato. Con la calca che cominciava a premere, sebbene sui margini fosse frammentata da soldati che la disperdevano, il generale si rivolse a Barras con aria preoccupata. «Credo che tocchi a voi.»

L'elfo si chinò verso Kerela. «Grandine Vocale?»

La maga annuì. «Comunico le tue intenzioni.»

«Grazie.» Barras fece un profondo respiro e chiuse gli occhi, rievocando mentalmente la geografia del College. La sagoma di mana era poco più di una linea tracciata in modo da collegare tutte le costruzioni. La torre, gli edifici di servizio, le mura, l'arena, le aule e gli alloggi. Tutti erano uniti dalla sagoma, tutti erano diventati ricettori, veicoli e amplificatori della voce di Barras, che aprì gli occhi e annuì.

Kerela posò una mano sulla spalla di Kard; subito soldati e membri del Consiglio si tapparono le orecchie con le mani.

Prima che la folla furiosa avesse il tempo di reagire, Barras parlò con voce profonda, sintonizzata sulla frequenza del flusso di mana. «Silenzio.»

La parola riecheggiò con forza nello spazio aperto, stordendo le orecchie non protette, vibrando nelle menti e stroncando il vociare, che lasciò il posto al silenzio. Continuò a propagarsi oltre le strutture del College, come il verbo degli dei, assordante e irresistibile. Il metallo risuonò, i vetri delle finestre tremarono nei loro telai e un rumore simile a un tuono si sparse nella piazza. Poi regnò il silenzio assoluto.

«Parleremo oppure ci disperderemo, non urleremo né combatteremo», disse Kerela. La sua voce, come quella di Barras, era potenziata dalla sagoma di mana tenuta ferma dall'elfo, anche se molto meno potente. Eppure tuonò sulla folla immobile. «Non capite che è esattamente ciò che Senedai e la sua banda di assassini al di là delle mura vogliono? Per gli dei della terra, se ci uccidiamo o ci dividiamo tanto da non riuscire a combattere, avremo portato a termine il suo compito meglio di quanto non possa fare lui.» Il Sommo mago scosse la testa. «Dobbiamo rimanere uniti, altrimenti non saremo in grado di agire.»

«Presto non resterà più nessuno per cui combattere!» urlò qualcuno.

Altri si unirono al coro e Barras sentì chiaramente la parola «assassini». La folla si avvicinò di nuovo.

«Vi prego!» esclamò Kerela. «Vi prego di avere ancora un po' di pazienza e di comprensione.»

«Ma fino a quando? Fino a quando?» ringhiò un uomo in prima fila. Era grosso; i muscoli gli risaltavano sotto la camicia. Portava una mazza. «Mia madre è là fuori. Ogni volta che respiro sento il puzzo del suo corpo che marcisce. Ho il cuore a pezzi, eppure devo stare qui ad ascoltarvi mentre ci supplicate di concedervi più tempo per salvare la vostra lurida pelle.»

Kerela annuì. «Capisco il vostro dolore...»

«Non capite niente!» sputò l'uomo. «Quanti della vostra famiglia sono morti finora, per proteggere maghi che si sono arricchiti alle spalle di Julatsa fin troppo a lungo?»

«Chi è stato a non lasciare che moriste per mano degli occadi?» ribatté Kerela, stentando a controllarsi. «Gli stessi maghi che sono già morti nel Manto, che hanno aspettato fuori per darvi il tempo di correre qui dentro. Vi prego di non giudicarci insensibili nei confronti della nostra gente.»

«Non siamo la vostra gente», replicò l'uomo, mentre la sua voce si propagava chiara tra la folla ammutolita. «Vi chiediamo di rimuovere il Manto e di lasciarci combattere.»

«Quando arriveranno i dordoveriani, combatteremo. E, dove andranno i soldati di Kard, anche voi potrete andare», disse il Sommo mago, incurante che il messaggio potesse essere udito al di là delle mura.

«Sarebbero dovuti arrivare giorni fa», replicò l'uomo, furioso. «Per quanto pensate che ci berremo questa bugia? Abbassate il Manto, subito!»

«E se mi rifiutassi di farlo?» chiese Kerela.

«Potremmo essere costretti a compiere noi stessi dei sacrifici.»

Barras sentì un tonfo al cuore. La nausea, che già gli attanagliava lo stomaco per lo spaventoso scenario al di là della porta settentrionale, aumentò. Kerela era impreparata a rispondere, l'elfo decise quindi d'intervenire e aumentò la Grandine Vocale. «Uccidereste julatsani per costringerci ad agire? Ammazzereste altri innocenti?» domandò, imperioso.

«Non innocenti. Maghi», disse l'uomo. La folla ondeggiò. «Non tutti i maghi godono della vostra sicurezza.»

«Che differenza pensate di poter fare all'esterno, se abbassiamo il Manto? Siamo già troppo pochi. Frammentandoci, ci danneggeremo ancora di più.»

«A voi non importa di julatsa», disse l'uomo. «Tutto ciò che v'importa è conservare quella!» Con la mazza indicò la torre, e il clamore crebbe di nuovo. «Quanti ancora devono morire in quella cosa che avete creato, prima che le vostre teste vuote capiscano cosa sta succedendo? Dobbiamo fermare le uccisioni.» L'uomo fece un passo avanti, e fu respinto da un soldato. Con l'odio nello sguardo, brandì la mazza e l'abbassò sull'elmo della guardia.

Il soldato crollò a terra, col sangue che gli sgorgava da sotto l'elmo. Subito un altro soldato reagì con la spada, colpendo l'uomo nel centro del petto.

Mentre l'urlo di dolore del ferito si levava alto, la folla si scatenò. Si gettò contro la disperata difesa approntata dalle truppe ben schierate di Kard. Barras gridò, invitando alla calma, ma perfino la sua voce potenziata non ebbe effetto. Ai margini della calca vide scoppiare zuffe tra i cittadini e la guardia del College. Una decina di persone si lanciò verso l'arena, dove alloggiavano molti maghi.

La folla stava accerchiando il Consiglio da ogni lato. Gli uomini di Kard proteggevano i maghi, con le spade che scintillavano nella luce dell'alba tenendo a bada la prima fila di rivoltosi.

«Svelti», ordinò Kerela. «Tutti insieme. Esplosione Solare. Coprite il perimetro e tenetevi pronti a correre verso la torre. Kard, al mio ordine copritevi gli occhi. Passate parola ai vostri soldati.»

«Sì, mia signora.» Il generale girò rapido tra i suoi e trasmise il messaggio.

Lasciando perdere la Grandine Vocale, Barras si concentrò sul nuovo incantesimo, che aveva una sagoma piatta. Spostando la vista sullo spettro del mana, vide il disco giallo diventare più intenso a mano a mano che gli altri del Consiglio v'immettevano la loro energia.

Quando tutti ebbero annunciato di essere pronti, Kerela parlò. «Adesso, Kard. Vilif, a te il comando.»

«Esplosione Solare. Spiegamento del lampo», recitò Vilif.

La sagoma di mana svanì in un istante. Barras chiuse gli occhi e se li coprì con le mani. Una luce bianca invase il cortile, accecando temporaneamente chiunque non si fosse protetto. Perfino l'elfo ne percepì la forza sapendo che, pur solo per un istante, l'effetto sarebbe stato doloroso e terribile.

Urla di sorpresa e di sofferenza echeggiarono nel cortile; tante armi caddero a terra con gran fragore. Barras aprì gli occhi e vide persone accasciate al suolo o in fuga senza meta, avendo perso per pochi attimi la vista. La rabbia era stata soppiantata dall'impulso di scappare.

«Andiamo», ordinò Kard, e guidò il Consiglio nel breve tratto che lo separava dalla torre. Lo portò al sicuro prima di voltarsi a sbraitare altri ordini, che videro i suoi sparpagliarsi in squadre disciplinate per difendere gli edifici principali del College.

Barras chiuse le porte della torre e seguì gli altri maghi su per la lunga scala del primo bastione. Lì si radunarono per verificare gli effetti dell'incantesimo.

Per il momento, lo spirito di protesta era stato soppresso. Quando recuperò la vista, gran parte degli abitanti fuggì dal cortile. Qualcuno però rimase, e l'atmosfera si fece di nuovo rabbiosa.

«Ma dove sono i dordoveriani?» domandò Endorr, pallido in volto. Stava guardando a nord, nella direzione da cui con più probabilità si sarebbe avvicinato l'esercito alleato, col grigio turbinio del Manto Demoniaco che offuscava l'aria al di là delle mura del College.

«Non ne ho idea», rispose Kerela. «Ma quel pover'uomo aveva ragione. Avrebbero già dovuto essere qui. Se sono tornati indietro o sono stati uccisi, non credo che niente ci potrà salvare. Ormai, miei cari amici, siamo giunti alla fine. Abbiamo nemici dentro e fuori dal College, e presto dovremo agire. Una volta ripristinata la calma, dobbiamo incontrarci con Kard e stabilire quando interrompere l'assedio.»

«Ma gli occadi ci uccideranno e prenderanno il College», protestò Seldane. «Non è cambiato niente, tranne il fatto che un numero maggiore dei nostri è morto e che gli occadi hanno fortificato meglio le loro postazioni.»

Barras seguì lo sguardo di Kerela, rivolto al cortile: i due morti erano stati rimossi dall'acciottolato, strisce di sangue segnavano il punto in cui erano caduti.

«Abbiamo aspettato il più a lungo possibile», disse infine il Sommo mago. «Non credo che Dordover ci aiuterà.» Voltò le spalle ai compagni. Le lacrime cominciarono a rigarle il viso. «Perderemo il nostro College.»

 

Sha-Kaan provò un sentimento che non avrebbe mai creduto gli appartenesse. Mentre tornava da Keol coi Kaan in formazione vittoriosa dietro di lui, aveva valutato le implicazioni dell'apparente alleanza tra Naik e Veret, e le conclusioni che aveva tratto non gli piacevano. Sentiva il cuore pesante nel petto. Era molto preoccupato.

Per prima cosa, l'alleanza significava che almeno due stirpi comunicavano tra loro. Avevano con molta probabilità lo stesso scopo: la distruzione dei Kaan. Tuttavia, al di là di ciò, Sha-Kaan non vedeva un futuro per quell'alleanza. Per gli acquatici Veret in particolare, la fine dei Kaan avrebbe avuto ben pochi effetti rilevanti.

I Kaan e i Veret si erano reciprocamente tollerati nel corso della storia, perché le loro ambizioni sulle terre emerse erano molto diverse. Perché allora i Veret si sarebbero alleati coi Naik per distruggere i Kaan? Forse ritenevano di essere in grado di vivere nel fiume Tere e nei suoi paraggi. Sha-Kaan sapeva che non sarebbe mai accaduto. I Naik non si sarebbero fatti da parte lasciando che i Veret occupassero la terra della stirpe.

La conclusione fu che i Veret si sentissero minacciati e si fossero alleati per allontanare la minaccia. Ma allora perché non si erano rivolti ai Kaan? E chi rappresentava per loro un pericolo significativo? Nessuna stirpe voleva la vasta distesa dell'oceano Shedara dei Veret, che avevano eliminato molti cicli addietro tutti gli altri draghi che vivevano sul mare.

D'altra parte, i Naik avrebbero potuto distruggere i Veret, se lo avessero voluto; sarebbe stato un atto di natura puramente vendicativa, ma pur sempre fattibile. Sha-Kaan si disse che non fosse al di là delle loro capacità prefiggersi l'estinzione di qualcuno. E, se avevano deciso l'estinzione di una stirpe, potevano mirare a distruggerne altre.

Poteva sì essere un'alleanza basata sulla paura, ma qualsiasi tipo di alleanza si sarebbe ben presto rivelato fatale per i Kaan. Sha-Kaan faceva affidamento sull'odio e sulla sfiducia tra le stirpi per dare al Corvo più tempo possibile, fino al raggiungimento massimo dell'estensione dello squarcio dimensionale. Un'alleanza di quel genere tuttavia avrebbe avvicinato di molto il giorno della sconfitta.

Mentre raggiungeva l'ingresso della terra della stirpe, scacco tali pensieri dalla mente e si godette quel momento di pia-Cere, sorvolando la valle piena di nebbia.

Più tardi, nella quiete dell'Apertura d'Ali, rifletté sull'alleanza tra le stirpi, ne maledisse la natura vendicativa ma ne capì la necessità: era l'unico modo per distruggere in fretta i Kaan. A differenza dei suoi avi, Sha-Kaan non discuteva apertamente dei problemi; annunciava le sue decisioni e stimolava quindi critiche e discussioni.

C'erano due azioni che pensava di dover intraprendere. Primo, parlare coi Veret e scoprire le modalità di quell'alleanza. In seguito doveva spezzarla, crearne forse una sua o scoprire altri stirpi più deboli alleate coi Naik e, se possibile, distruggerle. Quella non era però una prospettiva appetibile, visto quanto erano esigue le forze Kaan.

La seconda azione era molto più personale e non avrebbe dovuto tralasciarla tanto a lungo. Non aveva più contatti con Balaia; non aveva idea di come stessero andando gli scontri e soprattutto era privo del flusso guaritore che lo spazio interdimensionale poteva fornirgli. Doveva selezionare un altro dragonene.

Non era un'operazione semplice. Con le battaglie che infuriavano nei pressi delle Città College di Balaia e al loro interno, le possibilità che i dragonene esistenti reclutassero un mago capace di soddisfare le esigenze di Sha-Kaan erano scarse.

Ciò rappresentava un problema cruciale. Il legame con Septern, tanto tempo prima, e quello coi maghi che lo avevano seguito, fino alla morte di Seran, erano stati affidabili; i dragonene erano scelti con la consapevolezza che possedevano la forza necessaria per il legame con Sha-Kaan. Forzando la sua mente in quella di un mago inesperto, avrebbe rischiato di generarvi confusione e di provocare la morte dell'umano.

Rimaneva una sola possibilità: trovare un uomo che avrebbe retto la forza di quel legame e i cui compagni potessero fornirgli la magia necessaria. Significava spezzare una tradizione antica, ma i tempi erano cambiati. Per andare a parlare coi Veret, Sha-Kaan doveva avere gli strumenti per guarire, e senza un dragonene nello spazio balaiano non ne possedeva.

Allungò il collo e afferrò una balla di erbafiamma, passandola di qua e di là nelle enormi fauci mentre la masticava e la deglutiva. «Allora che sia.» Si allungò completamente sul pavimento umido e tiepido dell'Apertura d'Ali e aprì la mente cerca del suo nuovo dragonene.

 

Era trascorsa un'ora dopo mezzogiorno. La giornata era diventata gelida quando il sole si era spostato al di là dei monti Blackthorne ed erano spuntate le nuvole, spinte da un vento di sud-est.

Il Corvo aveva dormito nel suo riparo, apprezzando il delicato tepore del fornello schermato. Anche Thraun dormiva, col fianco offerto come cuscino all'ansioso Will. L'Ignoto aveva montato la guardia.

Poco dopo mezzogiorno, Erienne aveva effettuato una comunione mentale, entrando in contatto con la maga rifugiatasi tra le colline a nord di Julatsa. L'incantesimo era stato relativamente breve e, quando aveva aperto gli occhi, Erienne non sapeva se sorridere o accigliarsi.

Ilkar incrociò il suo sguardo. «Sei stabile?» le chiese. La comunione mentale, o piuttosto la sua interruzione, lasciava improvvisamente senza un obiettivo il mana incanalato nella mente. Quando il mana tornava a uno stato più normale disorientava talvolta sia l'artefice dell'incantesimo sia il mago contattato.

Erienne annuì e rivolse a Denser un lieve sorriso. Lui le mise dietro l'orecchio una ciocca di capelli che le era caduta sul volto. A quella piccola dimostrazione d'affetto, il sorriso di Erienne si allargò. «Il College è ancora in piedi. Il Cuore è ancora intatto», annunciò.

«La maga sa quanti occadi si trovano dentro e intorno a Julatsa?» chiese l'Ignoto.

«Sì. Pheone dice che circa diecimila occadi occupano Julatsa e stanno erigendo una palizzata per difenderla. Si sono rinforzati dopo la prima vittoria; altri campi a ovest ne ospitano circa cinquemila. Non si sono ancora mossi a sud-est, verso Dordover.»

L'Ignoto si versò una tazza di tè. «E la gente che era riuscita a fuggire tra le colline?»

«Finora sono stati ignorati perché il College resiste ancora. O almeno è quello che pensa Pheone.»

Ilkar era combattuto tra due diverse emozioni: felicità e tristezza. La sua città occupata dagli invasori. I suoi concittadini, quelli che erano riusciti a scappare, costretti a cibarsi di carogne in mezzo alle colline. Ma in qualche modo il College aveva resistito all'uragano.

«C'è dell'altro», proseguì Erienne. «Ci sono gruppi di julatsani tutt'intorno alla città, nascosti tra le colline e nei boschi. Pheone non sa quanti. Un gruppo a sud-est ha intercettato la forza dordoveriana menzionata da Darrick, composta da più di tremila fanti e cavalieri, e ha aiutato i loro esploratori a evitare le linee degli occadi.»

«Perciò laggiù c'è un comandante militare», disse l'Ignoto. «Pheone ha detto qualcosa a proposito di un piano per una controffensiva?»

«Mi stupisce che non abbiano già effettuato un assalto», commentò Hirad. «Possono di certo parlare coi maghi rimasti all'interno del College ed escogitare qualcosa.»

«No, nessuno può parlare col College», replicò Erienne. «Inoltre è difficile coordinare i gruppi di julatsani sparpagliati intorno alla città. La comunione mentale non è così semplice da effettuare.»

«Perché nessuno può effettuarne una col College?» Il cuore di Ilkar batteva follemente. «Pheone è sicura che gli occadi non lo abbiano preso?»

«Sì, ne è sicura. C'è una protezione magica che impedisce anche la comunione mentale.» Erienne trasse un profondo respiro. «Hanno eretto un Manto Demoniaco.»

«Che cosa?» domandò Hirad.

«Per gli dei del cielo, dici davvero?» Ilkar sgranò gli occhi per la sorpresa. Poi, riflettendoci su, la soluzione gli parve come l'unica in grado di frenare un esercito di quindicimila uomini, per quanto grande fosse la paura che gli occadi nutrivano per la magia. Descrisse in breve il funzionamento del Manto, prima di affrontare la questione di cui Erienne e Denser erano già consapevoli.

«Come diavolo facciamo a entrare?» chiese Hirad.

«Non possiamo. Almeno finché il Manto non verrà tolto», rispose Ilkar.

«Questo lo avevo capito», replicò il barbaro, picchiettandosi la testa. «Non sarà brillante come la tua, ma funziona. Quando e se il Manto verrà tolto, come facciamo ad arrivare nella biblioteca prima dei diecimila occadi?»

«Non ci arriveremo», disse l'Ignoto. «Dobbiamo scacciarli prima che il Manto cada. Ci sono tanti julatsani smaniosi di vendicarsi e tremila soldati professionisti... e gli occadi non sembrano essersene resi conto. C'è abbastanza tempo, perché l'ombra non aumenta così rapidamente. Potremo ideare qualcosa.»

«Davvero? Cosa, esattamente?» replicò Denser, scettico. Prima che l'Ignoto avesse il tempo di spiegare, lo xeteskiano grugnì e scosse la testa. «Una comunione mentale», disse, accigliandosi. «È Delyr, credo.» Si stese e chiuse gli occhi per accogliere il contatto da Parve.

Era un contatto che avrebbe cambiato tutto.