Capitolo 1
Sarebbe stata una gloriosa vittoria. Da un pianoro sopraelevato, Lord Senedai delle tribù Heystron osservava il fumo che si levava a ondate sopra Julatsa via via che i singoli edifici venivano dati alle fiamme. L'odore acre del fumo era delizioso alle sue narici; attraverso la foschia che si creava, Senedai vedeva il fuoco bianco e nero che gli sciamani usavano grazie al legame coi Lord stregoni per distruggere quanto restava del cuore della città. Non c'era niente che i julatsani potessero fare per fermarli.
Il fuoco bianco, che saettava dalle mani e intaccava pietra e legno di quella che un tempo era una fiera Città College, fuoriusciva dalla punta delle dita di un centinaio di sciamani e demoliva palazzi, recinti, barricate. Là dove uomini e donne scappavano terrorizzati, il fuoco nero strappava la carne dalle ossa e cavava gli occhi alle vittime che crollavano urlanti in agonia.
Senedai non provava nessuna compassione; chiamò i suoi luogotenenti. L'unica cosa che frenava l'avanzata verso il College erano i maghi che difendevano ancora ampi tratti dei confini cittadini e i soldati che proteggevano i maghi dalle spade dei guerrieri nemici. Senedai decise che era giunto il momento di porre fine a quell'irritante resistenza.
Mentre si lanciava verso la battaglia dando ordini e osservando gli stendardi e le bandiere ondeggiare a mano a mano che le tribù accorrevano, un muro di fiamme si palesò davanti a lui. Lo scoppio dell'incantesimo scosse il terreno: tutti gli sciamani ne furono inghiottiti e morirono senza avere il tempo di gridare.
«Forza!» urlò Senedai, cercando di superare il fragore della battaglia. Udiva il cozzare delle spade, le grida di panico, di paura e di dolore. Udiva gli ordini disperati, il tonfo del metallo sul cuoio, il rotolare dei sassi e gli schianti del legno.
Ai suoi fianchi, i guerrieri che lo proteggevano si erano disposti a mezzaluna. Lui si teneva appena al di fuori della portata degli archi come facevano tutti gli sciamani, tranne i più temerari. La linea dei julatsani era esigua, quasi sul punto di cedere; Senedai sapeva che, dopo averla sfondata, avrebbe avuto accesso diretto alle mura della città.
Suonarono i corni, e i guerrieri si sollevarono di nuovo. Dietro le linee nemiche, i maghi furono fatti a pezzi dal fuoco nero proprio mentre formulavano incantesimi di protezione. Senedai sentiva in bocca il sapore dell'angoscia degli avversari mentre le asce si alzavano e si abbattevano imbrattando di sangue il cielo annerito dal fumo.
«Voglio che eliminiate quei maghi a destra!» gridò a un luogotenente. «Comunicatelo subito.»
D'un tratto, il terreno si sollevò per un sortilegio julatsano, un'ondata di aria fredda irruppe nella calura del giorno; dal cielo, l'incantesimo Pioggia di Fuoco si rovesciò sugli occadi, che pagarono caro ogni passo.
Un gruppo di sciamani si allontanò di corsa verso destra, bersagliato dalle frecce. Uno di loro cadde con l'asta di una freccia conficcata nella coscia; gli altri lo lasciarono lì a contorcersi. Senedai li guardò correre; ebbe un fremito quando mossero mani e bocche per evocare il fuoco dal profondo delle anime nere dei Lord stregoni e riversarono lo spaventoso potere sulle vittime inermi.
Tuttavia, mentre osservava, Senedai avvertì un cambiamento. Il fuoco che pulsava dalle dita languì, si riprese brevemente, tremolò e infine si esaurì. Le tribù furono pervase da un'ondata di sconforto. Da ogni angolo del campo di battaglia si alzarono grida; gli sciamani si fissarono le mani e si guardarono l'un l'altro con aria perplessa e spaventata.
Un grido di esultanza sempre più intenso si diffuse per tutta la linea julatsana. Subito il fuoco di fila degli incantesimi aumentò e i difensori della città si lanciarono tra i guerrieri disorientati, che indietreggiarono.
«Mio signore?» azzardò uno dei luogotenenti.
Senedai si girò verso l'uomo, che lasciava trasparire un'ansia indegna di un guerriero dell'Ovest. Tornò a posare lo sguardo sull'attacco che vacillava, sulla magia che dilaniava i suoi uomini e sulle spade della difesa che si abbattevano con rinnovato vigore e determinazione. Scostò l'uomo con uno spintone e corse in avanti, incurante del rischio. «Per tutti gli spiriti, non siamo dei guerrieri?» tuonò nel frastuono della battaglia. «Corni, suonate l'attacco! Su tutti i fronti. Maledizione alla magia, combatteremo con l'acciaio. Attaccate, bastardi, attaccate!» Si buttò nella mischia affondando l'ascia nella spalla di un julatsano. L'uomo si accasciò a terra e Senedai ne calpestò il corpo; liberò quindi l'arma e la mosse lateralmente per colpire in faccia un altro avversario.
Tutt'intorno a lui, i membri delle tribù reagirono intonando canti di battaglia e sollevandosi ancora. I corni suonarono altri ordini, gli stendardi dondolanti si raddrizzarono in mano ai portatori e avanzarono di nuovo. Gli occadi si gettarono nella battaglia ignorando gli incantesimi che dispensavano indiscriminatamente morte o ferite menomanti, e videro i difensori ricominciare a perdere forza sotto la ferocia dell'assalto.
Lord Senedai si arrischiò a guardare le linee a destra e a sinistra e sorrise: molti guerrieri sarebbero morti senza il fuoco dei Lord stregoni, ma la giornata si sarebbe conclusa in modo favorevole per gli occadi. Notando la posizione dei gruppi di maghi che scagliavano incantesimi offensivi, parò un rozzo attacco e si lanciò di nuovo nella lotta.
I membri del Corvo stavano in silenzio nella piazza centrale di Parve. La battaglia era vinta. Il Ruba Aurora era stato lanciato, i Lord stregoni erano stati distrutti e la città era tornata a essere un luogo di morti. Sopra di loro, gli effetti secondari dell'incantesimo fluttuavano ancora nel cielo, bruni e mutevoli: una chiazza aliena e malevola sospesa come una bestia predatrice sulla terra di Balaia. Era uno squarcio dimensionale aperto sul nulla.
Lontano, dall'altra parte della piazza, Darrick e i resti della cavalleria avevano annientato ogni resistenza residua e ormai stavano ammucchiando i corpi su pire improvvisate: i propri caduti, in una zona; seguaci dei Lord stregoni e guerrieri dell'Ovest, in un'altra. Il rispetto con cui maneggiavano i propri commilitoni caduti contrastava nettamente col modo in cui trascinavano e gettavano sulle pire i cadaveri dei nemici. Styliann e i Protettori erano nella piramide, impegnati a perlustrare fra le macerie in cerca di qualsiasi cosa indicasse un breve ma catastrofico ritorno al potere degli Antichi.
Il silenzio nella piazza era tangibile. Nessuno degli uomini di Darrick parlò mentre svolgeva il mesto compito. Il cielo sotto lo squarcio era privo di uccelli e il vento che spazzava a folate lo spazio aperto sembrava ridursi a un sussurro quando spirava intorno agli edifici di Parve.
Per il Corvo, la vittoria era di nuovo minata da una perdita. Denser si appoggiava pesantemente a Hirad, Erienne stava dall'altra parte e gli teneva un braccio intorno alla vita. Ilkar era in piedi vicino al barbaro. Di fronte a loro c'erano Will, Thraun e il Guerriero Ignoto. Fissavano tutti in basso la sagoma di Jandyr, avvolta nel sudario; l'arco dell'elfo era posato accanto al corpo, la spada sul petto.
La tristezza amplificò il silenzio in cui era sprofondato il Corvo. Nel momento del trionfo, Jandyr aveva perso la vita; dopo tutto quello cui era sopravvissuto, era un destino crudele.
Per Ilkar era una perdita straziante. A Balaia, gli elfi non erano molti, perché di solito preferivano il caldo delle terre meridionali; pochi si recavano ormai nel continente settentrionale, tranne quelli chiamati dalla magia, e perfino il loro numero stava calando. Il dolore tuttavia era sentito a livello più personale soprattutto da Will e Thraun. Il loro vecchio amico era morto al servizio di Balaia e del Corvo. Quello che era iniziato come un semplice salvataggio era finito sui gradini della tomba dei Lord stregoni, al termine di una caccia disperata per trovare e lanciare l'unico incantesimo in grado di salvare Balaia dall'antico male. Eppure Jandyr era morto senza conoscere l'esito del Ruba Aurora. La vita sapeva essere crudele. La morte, che arrivava in un momento inopportuno, ancora di più.
Il Guerriero Ignoto pronunciò le parole di addio del Corvo: «A nord, a est, a sud e a ovest. Anche se te ne sei andato, sarai sempre un Corvo e sempre noi ti ricorderemo. Balaia non dimenticherà mai il tuo sacrificio. Gli dei sorrideranno alla tua anima. Ogni bene a te, qualsiasi cosa ora e in futuro ti ritroverai ad affrontare».
Will annuì. «Grazie. Apprezziamo davvero il tuo rispetto e il tuo onore. Ora io e Thraun abbiamo bisogno di stare soli con lui.»
«Certo», disse Ilkar, e si allontanò.
«Io mi fermo ancora un po'», affermò Erienne, sganciandosi da Denser. «Dopotutto, era venuto a salvare la mia famiglia.» S'inginocchiò accanto al cadavere, unendosi nel rimpianto al ladro e al mutaforma.
L'Ignoto, Hirad e Denser raggiunsero Ilkar. Si sedettero a ridosso della galleria della piramide, con lo squarcio sopra di loro, presenza enorme e minacciosa.
Più in là, nella piazza centrale, gli uomini di Darrick continuavano ad ammucchiare i cadaveri sulle pire. Grandi chiazze di sangue secco si estendevano sul selciato; qua e là pezzi di stoffa svolazzavano spinti dal vento caldo. Styliann e i Protettori rimasero all'interno della piramide, occupati senza dubbio a decifrare ogni runa, ogni dipinto e ogni mosaico.
Il generale Darrick si unì al Corvo, mentre l'Ignoto finiva di passare le tazze di tè che bolliva nel pentolino di Will.
«Odio quasi doverne parlare», esordì Darrick, dopo un breve silenzio. «Ma, per quanto grande sia la vittoria, noi siamo forse trecento, e tra qui e le nostre case ci saranno almeno cinquantamila occadi.»
«Buffo, vero?» replicò Ilkar. «Pensate a tutto quello che abbiamo compiuto: il risultato è che abbiamo dato a Balaia una possibilità, niente di più. Non c'è nulla di certo.»
«Altro che crogiolarsi nella gloria», osservò Hirad.
«Non sminuite quanto abbiamo fatto», ribatté Denser. «Abbiamo eliminato la certezza del trionfo dei Lord stregoni. Ma soprattutto li abbiamo distrutti e ci siamo dati una vera speranza. Crogiolatevi in questo.»
«Ci proverò», mormorò Hirad, mentre il sorriso gli tornava sul volto.
«Ricordate, gli occadi non possiedono la magia», affermò Denser.
«E noi non possediamo un esercito», ribatté Ilkar.
«Mi chiedo se ci sia qualcosa cui tornare», intervenne l'Ignoto.
«Una comunione mentale aiuterebbe a chiarire un po' di cose», convenne Denser.
«Grazie per il suggerimento», replicò Ilkar. «Perché non ci dormi sopra?»
«Dicevo soltanto», ribatté il mago xeteskiano.
Ilkar gli diede un colpetto sulla spalla. «Siamo un po' lontani da Understone, no?»
«E stata Selyn.»
A quella voce, i membri del Corvo trasalirono e si voltarono. Styliann, il Lord della Montagna, uscì dall'ombra della galleria nella piramide. Aveva un'aria pallida e stanca; i capelli erano flosci sulle spalle, perso ormai da tempo il nastro che gli teneva legata la coda. «Posso?» Indicò il pentolino.
L'Ignoto alzò le spalle e annuì.
Styliann si versò un mestolo di tè e si sedette col Corvo. «Stavo pensando...»
«I vostri talenti sono davvero sconfinati», borbottò Denser.
Gli occhi di Styliann lampeggiarono. «I catalizzatori del Ruba Aurora possono anche essere distrutti, Denser, ma sono sempre il tuo mago superiore; farai bene a ricordartene. Selyn era esperta di comunioni mentali. Poco prima di entrare in città, ha segnalato che ingenti forze dell'Ovest stavano lasciando Parve in direzione di Understone. Non l'avranno ancora raggiunta, perciò dobbiamo affrontarle prima di arrivare al passo.» La sua mascella s'indurì, come se le parole che stava per pronunciare non volessero farsi udire. «Per il momento, dovremo lavorare insieme.»
L'atmosfera si raggelò.
Fu l'Ignoto a parlare. «Il vostro ultimo intervento, seppur gradito, può a stento essere definito uno sforzo per aiutarci. In precedenza avete cercato di ucciderci tutti. Adesso volete che lavoriamo insieme.» Il guerriero guardò preoccupato all'interno della piramide.
«Siamo arrivati qui senza il vostro aiuto. Torneremo indietro senza di esso», dichiarò Hirad.
Styliann li studiò con calma e con un vago sorriso sulle labbra. «Siete bravi, ve lo concedo. Ma ignorate la gravità della situazione. Senza aiuto, il Corvo non raggiungerà mai le terre orientali. Ricordatevi, il passo Understone è stato aperto per voi, ma adesso è quasi sicuramente chiuso. Io possiedo il potere e i contatti per effettuare una comunione mentale e organizzare il vostro passaggio. Voi no, e Darrick in ultima analisi rende conto a me e alle quattro Città College.»
«Sembra che non abbiate affatto bisogno di noi», commentò Hirad.
Styliann sorrise. «Può sempre essere utile ricorrere al Corvo.»
L'Ignoto annuì. «Avete un piano, immagino.»
«Un itinerario. Lascerò la tattica al generale.» Styliann guardò verso Darrick, che era rimasto silenzioso durante l'intero scambio di battute e aveva mutato solo leggermente espressione quand'era stata ricordata la sua posizione nella catena di comando.
«Forse farete meglio a illustrarci il vostro itinerario, mio signore», affermò il generale.
A Hirad pulsava forte la testa. Aveva bisogno di bere: alcol preferibilmente, per scacciare per un po' il dolore. Balzò in piedi e si avvicinò al fuoco.
«Tutto bene, Hirad?» domandò Ilkar.
«Non proprio. La testa mi sta uccidendo.» Una sensazione di freddo gli corse giù per la schiena, come neve caduta da un ramo, e svanì con la stessa rapidità con cui era comparsa.
Ci fu un cambiamento nell'aria, un movimento che non aveva nulla a che fare col vento che soffiava caldo intorno a loro.
Hirad alzò gli occhi al cielo, azzurro chiaro tranne per l'enorme squarcio in costante mutamento. Mentre osservava, la superficie bruna maculata s'increspò, ribollì, si gonfiò... e una frazione di secondo dopo si ruppe. Un frastuono come per un'esplosione scosse la relativa quiete del pomeriggio. Trionfante, apocalittico, terribile.
Hirad cominciò a urlare, si voltò e corse alla cieca in direzione della lontana foresta orientale. Tutte le paure che aveva covato dall'incontro con Sha-Kaan si materializzarono in un istante.
Così presto dopo la vittoria si trovavano davanti alla sconfitta definitiva e alla distruzione totale. Nei cieli di Balaia c'era un drago.
Era il metodo che preferiva: il metodo della spada. Gli occadi erano guerrieri, non maghi. E, anche se il potere dei Lord stregoni li aveva condotti alla vittoria più rapidamente di quanto non osassero sperare, Lord Tessaya era sicuro che avrebbero trionfato anche senza il fuoco bianco e il fuoco nero.
Ormai quella magia - prestata, rubata, donata o comunque la si volesse definire - era svanita. Gli sciamani non esercitavano più nessun dominio e gli occadi erano tornati ad appartenere ai capi tribù. Era nello stesso tempo spaventoso ed eccitante. Se l'unione delle tribù si fosse sgretolata, sarebbero stati ricacciati al di là dei monti Blackthorne dagli eserciti delle quattro Città College. Se fosse riuscito a tenere insieme le tribù, Tessaya riteneva che avrebbero potuto prendere Korina; con la cattura della capitale avrebbero avuto in mano il cuore, l'anima e la ricchezza di Balaia orientale.
Ma Tessaya temeva le Città College, contro cui non aveva difese. Il suo sogno di veder bruciare le torri di Xetesk era svanito, almeno per il momento. Un sorriso beffardo gli balenò sul volto abbronzato e segnato dalla vita all'aria aperta. C'erano altri modi per combattere i maghi.
Per Tessaya, la sconfitta non era mai un'opzione. In particolare quando beveva in preda all'ardore per una recente vittoria contro i maghi.
Il panico aveva rischiato di travolgere le migliaia di occadi che si erano riversate dal passo Understone quando si era sparsa voce che gli sciamani avevano perso il legame coi Lord stregoni. Ma Tessaya, imitando inconsapevolmente Senedai che si trovava a Julatsa, aveva placato l'agitazione scegliendo di cavalcare in testa ai guerrieri dell'Ovest.
L'esercito delle Città College sapeva che stavano arrivando, ma era desolatamente inferiore in termini numerici. Gli occadi avevano infranto a ondate le linee nemiche coprendo coi loro versi gli ordini sbraitati, le grida di paura e i gemiti dei moribondi. Con Tessaya al comando si erano rivelati inarrestabili, il sangue della vittoria pulsava nelle loro tempie; spade e asce tagliavano la carne e spezzavano le ossa. La prima linea si era dimostrata tenace; tuttavia, coi cadaveri dei nemici sparpagliati nel fango davanti al passo e con l'annientamento dei maghi, tutto si era risolto in poco più di un massacro organizzato, e ciò aveva deluso Tessaya.
Seduto nella locanda di Understone, sgombrata dai corpi, rievocò lo scontro, gli errori elementari della difesa e la confusione degli ordini che giungevano alle sue orecchie. Ma soprattutto ricordò quanti erano scappati e quanti avevano gettato le armi per arrendersi prima che le speranze fossero davvero perdute. Era stata così diversa dalla battaglia all'estremità occidentale del passo. Lì aveva visto un nemico organizzato, preparato a combattere fino all'ultimo uomo. Un nemico che aveva tenuto insieme il suo esercito più a lungo di quanto avesse ragione di farlo. Un nemico che poteva rispettare.
Ciò che tuttavia lo aveva deluso di più era stata l'incapacità del generale, che secondo quanto gli avevano riferito comandava la città Understone, di essere all'altezza della propria reputazione. Sarebbe dovuto essere un altro avversario stimolante, invece si era dimostrato un vigliacco alla stregua di tutti gli altri. Darrick era un nome che gli occadi avrebbero ben presto dimenticato di temere.
La porta della locanda si aprì ed entrò lo sciamano più anziano. Senza il potere dei Lord stregoni, non era più un uomo che Tessaya doveva sorvegliare, ma il Lord delle tribù Paleon non gli portava per quello meno rispetto.
I due erano seduti l'uno di fronte all'altro, a un tavolo nell'ombra in fondo all'edificio.
Tessaya gli versò da bere. «Hai un'aria stanca, Arnoan.»
«È stata una lunga giornata, mio signore.»
«Ma ora, da quello che si sente, è finita.» Il baccano dei festeggiamenti si stava intensificando.
«Come vanno le vostre ferite?» domandò Arnoan.
«Sopravvivrò.» Tessaya sorrise, divertito dalla preoccupazione paterna dell'uomo. La bruciatura sull'avambraccio destro gli faceva male ed era ricoperta di vesciche, ma era stata curata, pulita e medicata. Era stato rapido a buttarsi a terra quando il Globo di Fiamma era esploso, perciò era sopravvissuto.
I tagli che sfoggiava sulla faccia, sul petto e sulle gambe erano soltanto trofei di feroci combattimenti. Alla sua età e con la sua influenza, l'aspetto non contava; e poi era stanco delle attenzioni delle donne. La sua stirpe sarebbe sopravvissuta alla guerra; tra i suoi figli c'erano neonati in fasce come pure giovani muscolosi. Ormai il loro padre aveva condotto le tribù alla vittoria, lì a Understone. E poi dove?
Era un interrogativo che chiaramente turbava Arnoan. «Cosa porterà il mattino?»
«Riposo e rafforzamento. Non perderò di nuovo il passo Understone», disse Tessaya. La sua espressione s'indurì. «Lord Taomi e la forza meridionale dovrebbero unirsi a noi al massimo tra un giorno. Poi potremo pianificare la conquista di Korina.»
«Credete davvero che potremo farcela?» Tessaya annuì. «Non hanno eserciti. Solo difese cittadine e riservisti. Noi abbiamo diecimila uomini qui, quindicimila a due giorni dal passo, altri venticinquemila che hanno attraversato il golfo di Triverne per attaccare le Città College e qualsiasi cosa ci porterà il Sud. Chi ci fermerà?»
«Mio signore, nessuno mette in discussione il nostro vantaggio militare. Ma la forza dei maghi delle Città College è notevole. Sottostimarla sarebbe un errore.» Arnoan si protese, tenendo le dita ossute intrecciate davanti a sé.
Tessaya sollevò il braccio bruciato. «Pensi che corra il rischio di farlo?» Socchiuse gli occhi. «Arnoan, sono il Lord più vecchio delle tribù e comando il consiglio tribale più grande; questo perché ho da sempre l'abitudine di non sottostimare il nemico. I maghi sono potenti e le Città College si leveranno contro di noi in forze; ma un mago si stanca rapidamente e, senza qualcuno che lo protegga, viene ucciso con facilità. Perdere la nostra magia è stato un duro colpo, ma siamo nati con la spada, non con gli incantesimi in mano. Gli occadi governeranno su tutta Balaia, e io governerò loro.»
Nessun aiuto sarebbe giunto a Tessaya da sud. Gli occadi erano stati messi in fuga e scappavano verso la città di Blackthorne mentre il barone riposava sui dirupi sopra il campo di battaglia che aveva visto la sua vittoria. Con lui c'era il barone Gresse e intorno a loro c'erano cinquecento uomini e maghi, tutti presi a sognare il ritorno a casa.
L'euforia della vittoria presso le alture Varhawk sarebbe però ben presto scomparsa. La situazione restava critica. Tutti i maghi, tranne una decina, erano stati uccisi dal fuoco bianco; la maggior parte dei combattenti era stata ferita, e la sconfitta degli occadi era stata dovuta solo alla confusione generata dalla perdita della magia dei Lord stregoni. Blackthorne e Gresse si erano limitati ad attizzare il fuoco del panico. Se gli occadi avessero deciso di tornare indietro a cercarli, una seconda vittoria sarebbe stata conquistata a caro prezzo.
Blackthorne tuttavia considerava piuttosto improbabile il loro ritorno. Nella baraonda alle alture Varhawk non c'era stato modo di stimare le forze delle singole parti e sapeva che, se fosse stato il comandante degli occadi, si sarebbe ritirato a Blackthorne per leccarsi le ferite e programmare il successivo attacco in attesa di rinforzi dalla baia di Gyernath.
Il barone si portò ai piedi dello strapiombo che aveva scelto come posizione di comando. Lì non c'era spazio per quasi niente, tranne che per un fuoco davanti e per alcuni degli uomini più anziani all'interno. Gresse era là, appoggiato alla parete, con la testa che gli martellava brutalmente e gli scatenava ondate di nausea a ogni movimento.
Le rocce scoscese si allontanavano verso sud e verso nord. Dopo la vittoria, Blackthorne aveva condotto gli uomini e i maghi a sud, sopra vento rispetto al puzzo di tanta morte. I caduti erano stati bruciati sulle pire, gli occadi morti lasciati in pasto agli animali che si cibavano di carogne. Lo strapiombo si trovava in cima a un dolce rilievo, lontano dai margini insidiosi e dai ghiaioni delle alture Varhawk. Sui piccoli piani e sui pendii meno ripidi gli uomini riposavano sotto un cielo caldo ma rannuvolato. In una decina di punti ardevano fuochi, nonostante la minaccia degli occadi, e le sentinelle collocate lungo il perimetro avevano avuto ferree istruzioni di non voltarsi verso la luce fino al termine del turno di guardia. Nelle posizioni chiave, gli occhi degli elfi sondavano la notte per preavvertirli di qualsiasi attacco, e ciò rassicurava i dormienti.
Ormai c'era poco rumore. I festeggiamenti avevano lasciato il posto a un chiacchiericcio eccitato, poi al sommesso bisbiglio delle conversazioni e infine alla stanchezza. Blackthorne si concesse un sorriso.
Alla sua destra, un uomo si schiarì la gola. «Mio signore?» Era Luke, il giovane nervoso che era stato mandato a contare i sopravvissuti.
«Parla, ragazzo.» Con uno sforzo, il barone addolcì i modi severi e gli posò, paterno, una mano sulla spalla. «Di dove sei, Luke?»
«Vengo da una fattoria tre miglia a nord di Blackthorne, mio signore.» Lo sguardo del ragazzo guizzava di qua e di là sul terreno. «Adesso sarò l'unico uomo della fattoria. Se ne è rimasto qualcosa.»
Il barone vide Luke, poco più che sedicenne, trattenere le lacrime mentre i lunghi capelli scuri gli coprivano i lati del volto. Gli strinse la spalla e abbassò la mano. «Abbiamo tutti perso qualcuno che amavamo. Ma, quello che potremo riprendere, lo riprenderemo. E quanti sono stati al mio fianco e hanno salvato le terre orientali dagli occadi saranno riconosciuti come eroi. I vivi e i morti.» Sollevò il mento del ragazzo, affinché quegli occhi lucidi guardassero nei suoi. «La vita era bella alla fattoria?» chiese. «Sii sincero.»
«Era dura, mio signore», rispose Luke, col volto in fiamme per l'orgoglio. «E non sempre felice, se devo essere onesto. La terra non è generosa ogni anno, e non sempre gli dei ci benedicono con vitelli e agnelli.»
Blackthorne annuì. «Allora ho fallito, con te e con chiunque sia come te. Eppure voi siete stati ugualmente disposti a rinunciare alla vostra vita per me. Quando saremo di nuovo padroni di Blackthorne, ne discuteremo meglio. Ma, ora, hai informazioni per me?»
«Sì, mio signore.» Luke esitò. Il barone gli fece un cenno per spronarlo a parlare. «In tutto sono cinquecentotrentadue, mio signore. Diciotto sono maghi, di cui cinque feriti troppo gravemente per lanciare incantesimi. Dei cinquecentoquattordici soldati, più di quattrocento hanno subito una ferita di qualche tipo. Tra quelli messi peggio, centocinque non sono in grado di combattere. Non ho contato quelli che moriranno entro domani mattina.» Il ragazzo si bloccò, poi aggiunse: «Mio signore».
Blackthorne inarcò le sopracciglia. «Cosa ti rende così sicuro che quegli uomini moriranno?»
«Perché l'ho visto abbastanza spesso alla fattoria, mio signore. Non siamo tanto diversi, uomini e animali: lo sento nel loro respiro, lo vedo nei loro occhi, nel modo in cui i loro corpi sono distesi. Dentro di noi, sappiamo quando la nostra ora è vicina; così anche gli animali, e si vede.»
«Devo crederti sulla parola», replicò il barone, affascinato dall'idea di avere probabilmente visto meno morti nella sua lunga vita del giovane che aveva davanti. Anche se negli ultimi giorni entrambi ne avevano visti di certo più che a sufficienza, non aveva mai riflettuto sul fenomeno. Tuttavia, per Luke, la morte del bestiame era un problema economico oltre che un rischio per il suo lavoro. «Ne discuteremo più a fondo un'altra volta, Luke. Ti consiglio di trovare un posto per stenderti un po'. Ci aspettano giorni duri, e ho bisogno di uomini come te nelle migliori condizioni.»
«Buona notte, mio signore.»
«Buona notte, Luke.» Blackthorne guardò il ragazzo allontanarsi con la testa un po' più alta e il passo un po' più lungo. Scosse leggermente il capo e gli tornò il sorriso sul volto. Era il caso a decidere del destino di una persona, alla nascita? In altre circostanze, Luke, figlio di contadini, sarebbe potuto nascere Lord. Per quanto lo riguardava, Blackthorne era sicuro che avrebbe potuto vivere una vita felice in una stalla come in un castello.
Il barone rimuginò sui numeri che il ragazzo gli aveva fornito. Meno di quattrocentocinquanta uomini in grado di combattere, una carenza terribile di maghi da poter utilizzare in azione, una maggioranza schiacciante con ferite di qualche tipo. Suppose che gli occadi fossero ancora numericamente superiori in un rapporto di due a uno. Non aveva idea di quanti di loro si trovassero nella sua città, nella testa di ponte, sulla strada per Gyernath o sparpagliati per tutta la parte orientale di Balaia. Si morse il labbro, reprimendo un improvviso fremito del cuore. Giorni duri. Doveva essere più forte di quanto non fosse mai stato.
Il fatto era che, se dal caos che serpeggiava lungo i monti Blackthorne non fosse nata una forma di organizzazione, gli occadi avrebbero ancora potuto raggiungere Korina, sebbene avessero perso la magia. Le Città College sarebbero dovute intervenire, avrebbero dovuto assumere il controllo. Per quanto fosse sgradevole, era preferibile all'alternativa.
Ma le Città College erano lontane e i problemi di Blackthorne avrebbero a stento avuto rilevanza. Il barone poteva aspettarsi scarso aiuto da nord, ma bisognava tentare una comunione mentale con Xetesk. La possibilità di comunicare più velocemente era un vantaggio che Balaia orientale doveva sfruttare, se voleva vincere.
Blackthorne sbadigliò. Era ora di vedere come stesse Gresse, e poi di andare a dormire. L'indomani ci sarebbero state decisioni da prendere. Bisognava analizzare il quadro più ampio: Understone, Gyernath, i villaggi disseminati qua e là sulla costa e nell'interno. Doveva sapere da dove sarebbero potuti giungere aiuti per respingere gli occadi al di là della baia di Gyernath. E trovare il modo di riprendere la sua città, il suo castello. Il suo letto. Soffocando una rabbia improvvisa, il barone diede le spalle alla notte e si diresse sotto lo strapiombo.
Gli occadi continuavano ad arrivare. Si riversavano a migliaia verso i confini di Julatsa, balzando sopra i corpi dei compagni caduti e sollevandosi contro la traballante guardia del College. Dalla sua torre, Barras guardò quella confusione, vide gli incantesimi fare breccia qua e là nell'esercito invasore e vide quell'avanzare incessante.
Era metà pomeriggio, e l'unica tregua nella battaglia si era verificata quando la magia aveva abbandonato gli occadi. In quel momento il cuore di Barras aveva esultato, perché aveva capito che il Corvo aveva annientato i Lord stregoni, e l'elfo aveva urlato in preda al sollievo e alla gioia. Ormai avrebbe potuto farlo per la frustrazione.
Ben lungi dall'avere piegato gli occadi, la sconfitta sembrava averne incrementato la rabbia. Avevano attaccato con più furia di prima. Spade, asce e passione guerriera li spronavano a continuare.
All'inizio era stato un massacro, la guardia del College era riuscita a reggere mentre gli incantesimi devastavano a ondate le linee nemiche. Gli occadi erano morti a migliaia sotto la potenza del fuoco julatsano, impotenti contro i Globi di Fiamma, il Vento di Ghiaccio, i Martelli di Terra, la Grandine di Morte, la Pioggia di Fuoco e i Frantuma Ossa.
Ma il mana dei maghi era limitato in mancanza di riposo, e gli occadi lo sapevano. I julatsani ne avevano già impiegato molto per proteggere uomini e edifici dall'attacco degli sciamani. Gli occadi sapevano anche quello.
Ormai, col fuoco di fila d'incantesimi ridotto a uno stillicidio tattico, i nemici si stavano muovendo con sicurezza strabiliante, lanciandosi tra le linee della guardia del College senza più temere ciò che avrebbe portato il successivo assalto magico.
Alla sinistra di Barras, il generale delle forze julatsane si morse il labbro e imprecò. «Quanti sono?» chiese in tono roco ed esasperato, senza rivolgersi a nessuno. Dovevano essere più di diecimila.
«Troppi», rispose Barras.
«Lo so bene», ribatté il generale. «E se va inteso come un'onta...»
«Calmatevi, mio caro Kard. Non è un'onta per nessuno, semplicemente un dato di fatto. Per quanto riusciremo a trattenerli?»
«Tre ore, forse meno», rispose Kard. «Senza mura, non posso promettere di più. Com'è andata la comunione mentale?»
«Ieri Dordover ha inviato tremila uomini su nostra richiesta. Dovrebbero essere qui al calare della sera.»
«Allora potete anche dire loro che tornino indietro», affermò con voce amara il generale, d'un tratto invecchiato in volto. «A quell'ora, Julatsa sarà caduta.»
«Non prenderanno mai il College», affermò Barras. Kard inarcò le sopracciglia. «Chi li fermerà?» Barras fece per parlare, ma richiuse la bocca: Kard era un soldato, non poteva capire. Era impensabile che il College venisse preso. Più ancora, ripugnante, un'eventualità che faceva salire la bile in gola all'anziano elfo. C'era un modo per impedire che gli occadi s'impossessassero del loro trofeo.
Ma, mentre si girava di nuovo a guardare la battaglia ai bordi della città e vedeva la sua gente morire sotto le lame degli invasori, pregò che non si arrivasse a tanto. Perché ciò che aveva in mente non lo avrebbe augurato a nessuno. Nemmeno agli occadi alle porte del suo amato College.