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Alle dieci e mezzo si aprirono finalmente le porte del salone e la gente si precipitò all’aperto per fumare una sigaretta, o nella sala attigua, dove era servito un buffet e suonava un complesso.

Sabine cercò con lo sguardo Lohmann, ma non riuscì a individuarlo in mezzo a tutta quella folla. Notò invece Gomez, che correva verso l’uscita con una sigaretta in mano. Dietro di lui uscirono dalla sala anche Tina, Meixner e Schönfeld, che la videro e la raggiunsero.

«Hai i nervi a fior di pelle», notò Meixner.

«È vero, sembri tesa», confermò Tina.

Anche Schönfeld la fissava con aria interrogativa. Non tentò neppure di propinargli una frottola, tanto era impossibile sbarazzarsi di quei tre.

«Non ho molto tempo, perciò ascoltatemi bene», iniziò. «Auersberg si è uccisa. Non ha pianificato da sola gli omicidi; con ogni probabilità ha ordito tutto con Wessely.» Raccontò in breve quello che avevano scoperto lei e Sneijder. «Lui è volato a Vienna e io devo trovare Lohmann. È l’unico di cui posso fidarmi», aggiunse.

I tre la guardavano a bocca aperta.

Schönfeld fu il primo a cogliere la gravità della situazione. «Okay, allora noi ci mettiamo a cercare Lohmann.»

«Ehi, ma la cosa spetta a me, voi non dovreste...»

«Chiudi il becco, certo che ti aiutiamo. Siamo o no una squadra?» Meixner prese Schönfeld per un braccio. «Forza, andiamo a controllare nella sala.»

Dopo che i due furono spariti, Tina la guardò scettica. «Quindi non è uno scherzo?»

«No, accidenti! Ma devo cavarmela da sola.»

«Lo so, ma per una volta, in via del tutto eccezionale, Meixner ha ragione. Siamo una squadra, perciò vieni!»

Corsero da una donna del servizio di sicurezza interno e Tina le domandò di chiamare Lohmann con il walkie-talkie. Poco dopo vennero a sapere che si trovava all’ingresso del settore vip. Ovvio, dove se no?

Lo trovarono che stava parlando con Dietrich Hess. Del loro gruppetto facevano parte altre personalità illustri, tra cui la moglie di Hess, il vicedirettore del BKA e un paio di capireparto di alto rango, che Sabine riconobbe dalle controspalline delle uniformi. Malissimo! Chiacchieravano accanto a un tavolo destinato alla vendita dei libri e a fornire informazioni, mentre Hess, con un sorriso di circostanza, distribuiva le sue autobiografie.

Mentre Tina rimaneva in disparte, Sabine si fece largo per raggiungere Lohmann. «Mi scusi, ma avrei bisogno di parlarle un minuto con urgenza.»

Quando il direttore Hess si voltò e la riconobbe, gli venne quasi un infarto. «Non capisco proprio come abbia la faccia tosta di volermi parlare ora. Non vede che...?»

«Non con lei», lo interruppe Sabine. «Con il sovrintendente Lohmann.»

Lohmann le indicò con un cenno di sparire, ma Diana Hess, che si trovava accanto a lui, gli diede un colpetto alle costole, nascondendo il gesto con la borsetta e lanciandogli un’occhiata inequivocabile.

«Un minuto», sibilò fra i denti Lohmann scusandosi con gli altri. Prese Sabine per un braccio e la trascinò per un paio di metri verso la finestra, dove non c’era nessuno. Tina li seguì.

«Cosa c’è di così urgente?»

«Io e Sneijder abbiamo scoperto che Auersberg aveva un complice.»

Lohmann rifletté un secondo, poi si arrese. «Quando?»

«Tre quarti d’ora fa.»

«Stento a crederle, visto che Sneijder ha chiesto un elicottero per partire con urgenza.»

«Lo so, per Vienna. È tutto collegato.»

«Okay, e secondo lei chi sarebbe il complice di Auersberg?»

In quel momento Meixner e Schönfeld corsero verso di loro per il corridoio e si unirono al gruppo.

Lohmann si guardò intorno. «Ma lo sanno tutti quanti?»

«Sì», rispose Schönfeld, «e ci serve il suo aiuto!»

«Allora ditemi chi è il complice di Auersberg!»

«È Konrad Wessely», rispose Sabine.

Lohmann non lasciò trasparire alcuna emozione. «Perché?»

Se gli avesse raccontato tutto, l’avrebbe presa per pazza. «Troppo complicato da spiegare adesso», disse per eludere la domanda.

«E come faccio ad aiutarvi?»

«Okay.» L’ennesimo chiodo sulla sua stessa bara. «Wessely era il padre della figlia di Auersberg, che è stata uccisa cinque anni fa.»

Si aspettava che scoppiasse in una sonora risata, invece Lohmann conservò la sua espressione impenetrabile.

«Ecco perché Sneijder mi ha domandato se sapevo dove fosse Wessely», mormorò.

«E lo sa?»

«No.» Lohmann si morse le labbra, poi le posò la mano sulla spalla. «Se a qualcuno di voi viene in mente di diffondere questa accusa, sappia che la sua carriera lavorativa prenderà una brutta piega, intesi?» li mise in guardia. «A Wiesbaden Wessely è una figura di spicco.»

Sabine annuì. «Lo sappiamo, ecco perché ne abbiamo parlato con lei.»

«Okay, cosa le serve?»

«Un’arma», rispose Sabine.

Fu allora che Lohmann scoppiò a ridere. «Hess l’ha licenziata. Non sarebbe neppure stata invitata a questa festa, se Sneijder non l’avesse inserita nella sua lista di ospiti personali.»

«Un’arma», insistette Sabine.

«Non posso assolutamente fornirgliela.» Lohmann guardò i presenti. «E a voi consiglio di lasciare le vostre negli armadietti, per stanotte.»

«Allora localizzi almeno il nuovo cellulare di servizio di Wessely», propose Sabine.

«Questo si può fare, ma ci vorrà un po’... Ammesso che lo abbia portato con sé.» Prese il walkie-talkie e parlò con un sottoposto, poi contattò qualcun altro e infine diede una sbirciata a Hess, che in quel momento stava autografando un libro. «Faremo così...» Abbassò il tono di voce. «Fra venti minuti un collega si fermerà qua davanti con una volante. Vi accompagnerà e resterà a vostra disposizione per un paio d’ore.»

«Non abbiamo bisogno di nessuna scorta...»

«Non vi farà da scorta. Controllerà che non andiate in giro per Wiesbaden armati e non vi cacciate ancora di più nella merda. Intesi?»

Annuirono.

«Bene. Di più non posso... E lo faccio solo perché lei ha salvato la vita a Sneijder.»

 

In quattro salirono sul Geisberg a bordo della macchina della polizia e quando Sabine entrò nell’edificio del BKA in compagnia di Tina, Meixner, Schönfeld e di un agente in uniforme, Falcone non credette ai propri occhi.

«Pensavo che se ne fosse andata per sempre.»

Non gli rispose, ma fra sé pensò: Non resterò per molto, vedrà. A meno che l’influsso di Diana Hess non le consentisse di riprendere il suo vecchio posto all’accademia. Ma sarebbe dipeso comunque dall’esito di quella serata.

L’agente li accompagnò all’ufficio di Konrad Wessely. Mentre camminavano per il corridoio, il cellulare di Sabine squillò. Era Lohmann.

«Abbiamo localizzato il telefonino di Wessely. A quanto pare si trova nel suo ufficio.»

«Grazie, ci stiamo andando», disse Sabine, e riattaccò. Un attimo dopo si trovavano già davanti alla porta.

Tina origliò. Dalla stanza non proveniva alcun rumore. «Ha il numero di cellulare di Wessely?» sussurrò all’agente, e lui annuì.

«Lo chiami, per favore.»

L’agente eseguì l’ordine e qualche secondo dopo sentirono dall’interno la suoneria. Nessuno rispose e non si sentirono altri rumori.

Infine Sabine bussò alla porta, ma non aprì nessuno.

«Potrebbe sfondarla?» domandò all’agente. Lui esitò e Schönfeld accennò con la testa al soffitto della stanza, dove una telecamera filmava quel che accadeva in corridoio. «Io non rischierei.»

 

Scesero con l’ascensore nel garage sotterraneo. Il parcheggio di Wessely era vuoto. Andarono al suo archivio personale, ma non lo trovarono neppure lì.

Meixner esaminò maniglia e serratura. «C’è parecchia polvere», constatò. «Di sicuro è un bel po’ che qui dentro non ci entra nessuno.»

Si trasferirono a Sonnenberg, nel quartiere dove abitava Wessely. La sua casa in collina sulla Kreuzbergstraße era completamente al buio. Neppure una lucina dietro le finestre.

Sabine e i suoi colleghi scesero dalla volante e l’agente li seguì. Nel frattempo aveva smesso di piovigginare. Sabine suonò il citofono, ma in casa non si mosse niente.

Ci fu un rapido scambio di sguardi tra lei e i suoi colleghi. A quanto pareva pensavano tutti la stessa cosa: finché l’agente li controllava, non potevano scavalcare la staccionata.

«Wessely non è qui», constatò Meixner. «Io torno alla Rhein-Main-Halle. Qualcuno viene con me?» Lanciò un’occhiata invitante al poliziotto, che guardò l’orologio: «Il mio turno sarebbe già terminato. Signora Nemez, vuole tentare da qualche altra parte, o ci fermiamo qua?»

«Torni pure indietro, grazie. Io resto qui e aspetto Wessely. Prima o poi dovrà rientrare a casa.»

Gli altri si offrirono di rimanere con lei, compresa Meixner.

«Volete restare tutti qua?» domandò il poliziotto.

«Aspettiamo un altro po’. Più tardi prenderemo un taxi.»

«Sicuri?»

«Sicuri. Ma io sto congelando. Potrebbe prestarmi una giacca?»

«Anche a me», disse Tina.

L’agente prese dal bagagliaio due giacche blu scure del BKA con chiusura a velcro.

Sabine se la infilò. «Ha anche una pistola?»

«Sorry.» Scosse il capo, ma dal cinturone si sfilò uno spray al peperoncino e glielo diede. «Meglio di niente», disse salendo sulla volante.

Lo salutarono e non appena i fari posteriori sparirono dietro la curva si arrampicarono sulla cancellata di ferro, fecero un giro attorno alla villa e alla piscina coperta e sbirciarono dalle finestre, senza riuscire a scorgere niente di anomalo.

Sabine premette la fronte al vetro, schermò la luce dei lampioni con i palmi delle mani e osservò i mobili in soggiorno. Richiamò alla mente parte della conversazione che aveva avuto con Wessely tra gamberoni giganti e sauvignon blanc. Quella proprietà apparteneva da tre generazioni alla famiglia di sua moglie, che nel frattempo era venuta a mancare. Altrimenti Wessely non si sarebbe potuto permettere un posto del genere. E se avesse avuto un secondo alloggio?

Scavalcarono di nuovo la cancellata e si ritrovarono tutti insieme sotto i lampioni.

«C’è da diventar matti», sussurrò Tina. «Dove si sarà cacciato? La sua macchina di servizio non è né nel garage sotterraneo, né qui.»

«Sta tramando qualcosa.» Sabine tirò fuori il cellulare dalla borsa e chiamò un taxi. «Vado alla villa di Auersberg, sul Neroberg.»

«Perché?»

«Gli agenti della Scientifica l’hanno già messa a soqquadro, ma forse si sono lasciati sfuggire qualcosa e Wessely è andato là per farlo sparire una volta per tutte.»

«Okay, ti accompagno», disse Tina con prontezza.

Meixner prese sottobraccio Schönfeld. «Noi restiamo qua ad aspettare Wessely. Nel caso tornasse, vi chiamiamo. Fate attenzione.»

 

Il taxi arrivò dopo dieci minuti e il tragitto per raggiungere Kapellenweg durò venti minuti, che a Sabine parvero un’eternità. Per tutto il tempo guardò fuori dal finestrino e si mortificò un’unghia.

Tina le diede un colpetto al fianco. «Smettila!»

«Non ci riesco», borbottò Sabine.

La villa di Auersberg era l’unica possibilità a cui avevano pensato per trovare Wessely. Se non fosse stato neppure là, non avrebbero più saputo a che santo votarsi.

Già da lontano videro che in casa tutte le luci erano spente. Il tassista si fermò sul viale d’accesso asfaltato davanti alla siepe. Pareva aver capito che non abitavano là.

«Devo aspettarvi?» domandò.

«No, grazie.» Sabine pagò e scese.

Mentre il tassista faceva manovra e ripartiva lungo la strada di montagna, Tina e Sabine si incamminarono verso la casa isolata in mezzo al bosco, affondando sempre di più nella ghiaia con i tacchi alti. Avrebbero almeno potuto cambiarsi e mettere jeans e scarpe da ginnastica, ma Sabine non aveva voluto perdere tempo. Dopotutto Wessely avrebbe potuto sfuggirgli. O la sua teoria era completamente sbagliata, oppure quell’uomo era davvero astuto.

Dopo cinque minuti avevano completato il giro della casa e sbirciato in ogni finestra.

«E ora che facciamo?» domandò Tina.

Sabine si guardò intorno. Tranne una civetta che urlava instancabile, il boschetto era completamente deserto.

«Non ne ho idea.» Si accovacciò sulle scale davanti all’ingresso principale, che la polizia giudiziaria aveva sigillato con il piombo, e si mise a pensare. Nel frattempo nessuna chiamata da Meixner e Schönfeld: nessuna novità neppure da casa di Wessely. Dove si era nascosto? Cosa le era sfuggito?

Tina si sedette vicino a lei e insieme riconsiderarono tutti i dati a loro disposizione, senza tuttavia scovare alcun indizio che permettesse di capire come Wessely avrebbe potuto muoversi per salvarsi la pelle. Infine Sabine frugò nella borsa in cerca del cellulare e selezionò il numero di Sneijder. Ormai mancava poco all’una e doveva trovarsi dalle parti dell’aeroporto di Vienna, eppure il suo telefono era occupato. Riprovò dopo dieci minuti... sempre occupato. Quando scaraventò il cellulare nella borsa, notò il biglietto da visita di Diana Hess e lo tirò fuori soprappensiero.

Tina ci gettò un’occhiata. «Conosci la moglie di Hess?» chiese, e allora Sabine le raccontò dell’incontro con Diana Hess.

«A quanto pare conosce molti colleghi di suo marito.» Senza stare troppo a pensarci digitò il numero.

«Diana Hess, con chi parlo?» rispose la signora, mentre in sottofondo si sentivano i bassi smorzati di un’orchestrina.

«Sono Sabine Nemez, mi scusi se la disturbo.»

Incuriosita Tina si avvicinò e tese l’orecchio vicino al cellulare.

«Non disturba affatto. Qui ci sono solo noiose conversazioni tra uomini... Almeno mi ha dato un buon motivo per allontanarmi dal gruppo. Come posso aiutarla?»

«Conosce Konrad Wessely?»

«Il lupo grigio cieco da un occhio?» Diana rise. «E chi non lo conosce? Già da anni è il consigliere di mio marito.»

«Lo sto cercando, ma non si è fatto vedere alla festa e non si trova né a casa né nel suo ufficio. Dove potrebbe essere? Ha un secondo alloggio?»

«Non credo», disse pensierosa Diana Hess, «ma per quanto ne so sua moglie era benestante. Una volta Wessely ha accennato a dei vigneti e dei boschi che aveva affittato.»

«Boschi?», ripeté Sabine. «Dove per esempio?»

«Posso scoprirlo subito.»

«Se non la disturba troppo.»

«Si figuri. La maggior parte degli ospiti sono ancora alla festa. È l’occasione migliore. Mi conceda solo qualche minuto.» Diana Hess riattaccò.

Un gesto teatrale della mano di Tina. «Chapeau. Solo una settimana all’accademia e già conosci la moglie del capo.»

«Finora non mi è servito a molto.» Sabine si rannicchiò ancora di più, chiuse la giacca fino al collo e aspettò. Il freddo le penetrava nelle ossa e ben presto ebbe le dita rigide e il naso congelato. Si concentrò sulle grida della civetta che arrivavano a intervalli di cinque minuti.

La maggior parte del tempo tacquero e fissarono il bosco in cerca delle luci di qualche auto. Dopo mezz’ora finalmente il cellulare di Sabine squillò. Era Diana e in sottofondo si sentiva ancora la musica, stavolta più ovattata. «I Wessely sono proprietari di alcuni boschi qui a Wiesbaden e sul Neroberg», disse la donna. «Le è d’aiuto?»

Sabine si alzò con le gambe intorpidite, andò all’angolo della casa e fissò con un certo disagio la collina. Sull’altura, nascosta dal fitto degli alberi, si trovava la casetta che già durante la sua prima visita alla giudice le aveva ricordato quella della strega Marzapane.

«Grazie, mi è stata di grande aiuto», rispose Sabine sovrappensiero prima di riattaccare.

Tina le si avvicinò.

Sabine indicò la collina. «Forse quel boschetto apparteneva alla moglie di Wessely. E se quella casetta di legno non fosse del guardaboschi ma...»

«Ma... di Wessely?» domandò Tina.

Sabine si strinse nelle spalle. «Vado a dare un’occhiata.»

«Attenta a non romperti una gamba. Io aspetto qui, nel caso spuntasse.»

«Okay, chiamami se ricevi visite. Capito?»

«Capito!»

Sabine si allontanò dalla villa e si avviò verso la casetta nel bosco, continuando ad affondare con quei maledetti tacchi nel terreno ricoperto di aghi. Avrebbe preferito togliersi le scarpe, ma procedere a piedi nudi sarebbe stato ancora più difficile.

Quando ormai si era lasciata mezzo tragitto alle spalle, d’un tratto tra gli alberi spuntarono le luci di un’auto. Un attimo dopo, sentì anche il motore. Si nascose dietro un albero e spiò. Non riusciva a distinguere di che modello si trattasse. Sperò che anche Tina si fosse nascosta bene, perché non l’avrebbe raggiunta in tempo per avvertirla. Per fortuna, però, l’auto non si diresse alla casa di Auersberg, ma prese un viottolo nel bosco e salì verso la casetta.

Tina aveva visto le luci? Sabine guardò indietro, ma non riuscì a scorgere alcun movimento né alcun rumore.

Corse ansimando: mancavano non più di trecento metri alla casetta, ma dopo pochi passi prese una storta alla caviglia. Stringendo i denti, continuò a correre e selezionò di nuovo il numero di Sneijder. Cercava di tenere il telefono in maniera che la luce del display non fosse visibile dalla casetta. Che situazione! Stavolta il cellulare non era occupato: Sneijder risultava non raggiungibile.

Poi vide accendersi una luce nella casetta. Nel bel mezzo della notte qualcuno stava combinando qualcosa là dentro.

D’istinto portò la mano al cinturone ma... niente pistola.

Solo uno spray al peperoncino.