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Alle dieci di sera Sabine atterrò a Francoforte. Durante il volo si era letta più volte i documenti sul caso Clara, ma non aveva fatto alcun passo avanti. Aveva fissato, come ipnotizzata, la foto del tatuaggio rosso fuoco che si estendeva su tutta la schiena della ragazzina. Figure nude, circondate dalle fiamme, che gridavano e si contorcevano straziate in una palude fumante. Sembrava una spaventosa visione dell’Inferno. Il tutto poi sulla schiena di una undicenne!

Una volta recuperata la pistola dalla cassetta di sicurezza, Sabine andò verso l’uscita. Il tempo a Francoforte era orrendo. Non aveva neppure fatto in tempo a raggiungere il parcheggio trascinandosi dietro il trolley sotto la pioggia battente che le squillò il cellulare. Cercò riparo sotto la pensilina di una fermata del servizio navetta e rispose alla chiamata.

«Nemez? Tutto bene il viaggio?» La voce della procuratrice Melanie Dietz sembrava preoccupata.

Sabine si asciugò l’acqua dal viso e si premette il telefono all’orecchio. «Il volo ha fatto un po’ di ritardo. Mi dica.»

La linea era disturbata e proprio in quel momento un’auto le sfrecciò davanti schizzandola d’acqua.

«Tramite un contatto non ufficiale con la Telekom tedesca... trovato... IP

«È davvero a Wiesbaden?»

«Al numero tre di Kapellenweg.»

Kapellenweg! Nella testa di Sabine si accesero tutti i campanelli di allarme. «Ne è sicura al cento per cento?»

«Sì, le dice qualcosa?» domandò Melanie.

In quel momento davanti agli occhi di Sabine iniziò a prendere forma un’immagine: tragica perdita... madre single... la villa nel bosco.

«È ancora in linea?» domandò Melanie.

«Sì... conosco quell’indirizzo», rispose Sabine. «Nella prossima mezz’ora sarò in viaggio in auto per Wiesbaden. Nel frattempo potrebbe tentare di scoprire una cosa per me?»

«Sputi il rospo.»

«Sulla base dei fascicoli sugli omicidi commessi da Wander in Germania, sappiamo che la terza vittima è stata cresciuta da una madre single. Potrebbe scoprire tramite il BKA tedesco il cognome della donna?»

«Non sarà facile, ma... tentiamo.» Melanie riattaccò.

Sabine riprese il trolley e corse sotto la pioggia alla macchina.

Il trojan con cui Michael Lazlo era stato indotto a rapire Clara era partito da un pc nella villa della giudice Auersberg.

 

Mentre era in viaggio verso Wiesbaden, Sabine telefonò all’ufficio di Dietrich Hess. Dovette attendere un quarto d’ora prima che finalmente rispondesse.

«Già di ritorno?» La voce del direttore del BKA rimbombava per via del vivavoce. Sembrava deluso di non essersi sbarazzato più a lungo di lei. «Mi chiama per annunciarmi la sua sconfitta?»

Le piacerebbe, eh?!

«Al contrario», rispose Sabine. «Ho bisogno del suo aiuto.»

«Per cosa?» borbottò lui.

Se gli avesse raccontato subito che voleva interrogare la giudice Auersberg perché aveva il fondato dubbio che fosse coinvolta in un omicidio, l’avrebbe presa per matta, e lei si sarebbe trovata da sola con i suoi sospetti.

Perciò temporeggiò e gli raccontò tutto per filo e per segno: l’avvocato Lazlo aveva tenuto sotto sequestro per un anno una ragazzina e le aveva tatuato sulla schiena dei soggetti orrendi. Hess le prestò ascolto, anche se la pazienza era ormai agli sgoccioli, mentre gli riferiva che la procuratrice, grazie alla fuga di Clara, aveva scoperto che Lazlo era stato manipolato da qualcuno.

«E il virus usato per manipolarlo proviene da un indirizzo IP di Wiesbaden», concluse.

Le spazzole del tergicristallo lavoravano a tutta velocità e Sabine dovette accendere il climatizzatore per non fare appannare i vetri.

«Bene, e allora?» domandò Hess sbrigativo. «Il BKA di Vienna si metterà in contatto con noi per vie ufficiali e riusciremo a sapere chi è il responsabile. È per questo che mi ha chiamato?»

«Il trojan federale è stato inviato dalla casa della giudice Eva-Maria Auersberg.»

All’altro capo della linea Hess taceva. «Ripeta quel che ha detto», soggiunse infine.

Sabine obbedì agli ordini, ma a quanto pareva a Hess servirono alcuni secondi per metabolizzare l’informazione. «Sa di chi sta parlando, vero? Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere?»

«Il padre adottivo della ragazzina rapita, Clara, dieci anni fa è stato giudice popolare nel processo per omicidio contro Thomas Wander.»

«Io...» Hess rifletté. «Conosco il caso. Wander ha ucciso un bambino a Vienna, è stato assolto, ma poi in Germania ha continuato a uccidere. Per quanto ne so, adesso si trova a Weiterstadt. Cosa c’entra questo con la giudice Auersberg?»

«Probabilmente una delle vittime era la figlia di Auersberg e ora...»

«Probabilmente?» gridò Hess. «Ma cosa va blaterando? Conosco la giudice Auersberg. È rimasta incinta per fecondazione artificiale e ha cresciuto da sola la figlia, che è morta a sei anni di meningite.»

«Meningite?» ripeté Sabine.

«Esatto!»

In quel momento Sabine si sentiva tanto impotente quanto stupida. Avrebbe dovuto condurre ulteriori ricerche, prima di importunare Hess al telefono. Moriva di vergogna.

«Spero non ci abbia reso ridicoli davanti alle autorità viennesi», gridò. «Santiddio, se penso che l’ho mandata da sola all’estero. Avrei dovuto...»

«Ma l’indirizzo IP

«Dimentichi l’indirizzo IP!» sbraitò. «Chi lo sa da quale fonte deriva quel dato! Queste insinuazioni sono solo il prodotto della sua fantasia.»

In quel momento Sabine svoltò nel centro di Wiesbaden. L’asfalto bagnato sembrava uno specchio.

«Tra l’altro, ho una brutta notizia per lei.» La voce del direttore era tornata calma.

«Sneijder?» domandò.

«No. Stasera è morto Erik Dorfer.»

«Cosa? Non è possibile.» Le crebbe dentro una sensazione di freddo infinito.

«Sì, purtroppo. Ha avuto un arresto cardiocircolatorio.»

«Ma il dottor Bell voleva rimetterlo in coma farmacologico. Perché...?»

«Non ha fatto in tempo. I medici hanno tentato di rianimarlo per mezz’ora, ma purtroppo è stato tutto inutile. Stanno effettuando l’autopsia in questo momento.»

Sabine strinse forte il volante. Il suo stomaco era come un vetro scheggiato e centinaia di cocci le perforavano il corpo. Stranamente non le salirono le lacrime agli occhi. Sentiva solo il dolore nelle viscere e il freddo gelido alle mani.

«Venga subito nel mio ufficio a consegnare tesserino e arma d’ordinanza», ordinò Hess. «Stavolta il suo licenziamento è definitivo; del caso Clara si occuperà la nostra sezione esteri.»

Sabine non disse niente. Era incapace di formulare qualsiasi pensiero. Sapeva solo che anche Sneijder avrebbe potuto essere morto, perché l’aveva visto l’ultima volta da Auersberg prima che, a detta della giudice, salisse in taxi e sparisse.

«Mi sta ascoltando?» domandò Hess.

«Io... non... la sento più», farfugliò Sabine e grattò con l’unghia sul microfono appeso allo specchietto retrovisore.

«La smetta con queste idiozie. Ho detto di venire subito...»

«Come?» mormorò e riattaccò.

Quando un attimo dopo il telefono squillò di nuovo, lei non rispose. Si fermò al semaforo. Stava malissimo. Di fronte, sotto la pioggia grigiastra, aveva il Geisberg, sul quale si trovava l’edificio della polizia federale. Svoltando a destra, sarebbe andata all’ospedale in cui si trovava il corpo di Erik; a sinistra, invece, al Neroberg, dove viveva la giudice Auersberg. Sul display continuava a comparire il numero di Hess. Dove doveva andare?

Ancora non aveva ricevuto nessuna comunicazione ufficiale sul suo nuovo licenziamento... E aveva ancora una pistola. Gli squilli cessarono e il semaforo diventò verde. Lasciò perdere il Geisberg e l’ospedale e si diresse verso la stazione della funicolare, da cui partiva il viottolo che portava sul Neroberg.

 

Sulla montagna era notte fonda e le finestre della facciata sembravano stecchi neri. A quanto pareva la villa era vuota. Perfetto!

Per sicurezza negli ultimi metri della stradina asfaltata Sabine spense comunque i fari. Parcheggiò dietro l’angolo, disattivò le luci interne, scese dall’auto e chiuse la portiera senza far rumore. Rinunciò alla fondina ascellare e frugò nel bagagliaio in cerca del cinturone, a cui attaccò l’arma d’ordinanza nella fondina, una torcia elettrica, due caricatori e un set di grimaldelli.

Quando fu pronta, corse sotto la pioggia sul vialetto di ghiaia verso la casa e salì ansimando le scale per raggiungere l’ingresso. Dietro una finestra in cantina si accese una luce che subito dopo si spense. Sabine trattenne un’imprecazione. Poteva togliersi dalla testa l’idea di entrare di soppiatto nella villa e dare un’occhiata in giro. In casa c’era qualcuno, ma attraverso i vetri opalini non si vedeva niente.

Non poteva che trasformarsi in una visita ufficiale. Sabine doveva parlare di nuovo con quella donna. Stavolta in modo più insistente, e forse era il caso di fare un po’ di pressione per scoprire se la giudice conoscesse Thomas Wander. Aveva appena sfiorato con il dito il campanello della porta, quando le squillò il cellulare.

«Santo Dio!» esclamò con rabbia. Ancora Hess? Guardò il display. Con un sospiro di sollievo rispose alla chiamata.

«Disturbo?» domandò Melanie Dietz.

«No», sussurrò Sabine, schiacciandosi contro le colonne sotto la tettoia per ripararsi dalla pioggia che crepitava sulle scale di marmo.

«Hauser ha sfruttato i suoi contatti alla polizia tedesca e siamo venuti a conoscenza dell’identità dell’ultima vittima di Thomas Wander. Una bambina di sei anni, che l’uomo ha tenuto prigioniera per un mese nella cantina accanto al vivaio. La madre della piccola si chiama Eva-Maria Auersberg.»

Sabine scivolò con la schiena lungo il muro fino a sedersi sulle scale sotto la tettoia. I capelli bagnati le coprivano il viso. «Era quello che temevo.» Altro che meningite!

«Immagino che Kapellenweg n. 3 sia l’indirizzo di Auersberg, giusto?» disse Melanie.

«Mi trovo sul posto.»

«Niente iniziative personali!» l’avvertì Melanie.

Sabine si ricordò delle parole di Sneijder. «Se dico ai miei studenti ’l’accesso è severamente vietato’, lei è la prima e l’unica a entrare subito».

«Deve fare una cosa per me», sussurrò Sabine. «Informi il direttore Hess di tutto quello che ha scoperto. Ma sia ostinata. Deve convincerlo che i suoi dati sono veri. Hess è convinto che la figlia di Auersberg sia morta di meningite.»

«Capisco. Bene, me ne occupo io. Lei nel frattempo non faccia niente di avventato!»

Sabine riattaccò. Quello non poteva prometterglielo. Probabilmente era stata Auersberg a sparare a Erik.

Sabine tirò fuori dalla borsa il suo mazzo di grimaldelli. Non avrebbe atteso l’invito di Auersberg.