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La villa di Lazlo era un moderno casermone, molto simile a una prigione di massima sicurezza di vetro, cemento e acciaio. Sorgeva isolata al margine della Selva viennese, sormontata sul retro da una schiera di abeti che graffiavano con i rami le finestre. A Melanie, che aveva parcheggiato nello spiazzo davanti alla casa, quella simbiosi tra natura e design mise immediatamente i brividi.
Le macchine dei federali erano già sulla strada e i poliziotti avevano transennato il vialetto di accesso. Melanie mostrò agli agenti il suo tesserino e superò il cancello. Hauser la aspettava con alcuni colleghi sotto una tettoia all’entrata.
«Quindi?» le gridò mentre lei saliva le scale.
Anziché rispondere, Melanie sventolò il mandato di perquisizione emesso a mezzogiorno dal giudice Hirschmann.
Hauser esaminò il documento, poi fece un cenno all’esperto di serrature. Dato che Lazlo era ancora ingobbito nella sala interrogatori come il Tremotino furioso della fiaba e si rifiutava di rivelare ai federali il codice dell’allarme, il tecnico disattivò l’impianto e rimosse con il trapano la serratura. Appena aprì la pesante porta a vetri, partì una sirena e dalle chiome degli alberi presero il volo decine di uccelli spaventati.
«Merda!» urlò il tecnico, notando una cassettina sotto la sporgenza del tetto. «C’è un secondo impianto.»
Il dolore colpì Melanie direttamente alla testa. Quella sirena si sarebbe sentita a chilometri di distanza. I poliziotti lungo la strada si avvicinarono incuriositi e fissarono la casa.
Il tecnico appoggiò la scala a pioli al muro, salì e con un piede di porco staccò la cassetta elettronica dalla parete, poi la gettò in un grosso annaffiatoio di metallo che riempì subito di schiuma poliuretanica. La schiuma smorzò il frastuono della sirena, e dopo pochi secondi, quando si solidificò, dall’annaffiatoio usciva solo un lieve piagnucolio.
Melanie si tolse le mani dalle orecchie e lanciò a Hauser un’occhiata di rimprovero. Ma come lavorano i suoi uomini?!
«Immagino che il dispositivo sia collegato direttamente con la centrale di polizia locale», spiegò il tecnico mentre scendeva dalla scala.
«Posso chiamare i colleghi, ma in caso di allarme, devono venire per forza», spiegò Hauser. «Se ne occuperanno i miei uomini.» Prese il cellulare e selezionò un numero.
Dopo la telefonata entrarono nella villa. Hauser si infilò la punta della cravatta nella camicia e andò avanti per primo, seguito da due colleghi armati e da tre esperte della Scientifica in cerca di tracce del DNA di Clara. Anche Melanie infilò i guanti di lattice e i copriscarpe azzurri e seguì la squadra.
La villa era arredata in maniera fredda e asettica e in quasi tutte le stanze i pavimenti erano bianchi. Plafoniere e lampade a stelo dal design sobrio diffondevano una fredda luce al neon. Vetrine, sedie cromate, armadi con sportelli di alluminio e molti specchi creavano un’atmosfera glaciale che diede di nuovo i brividi a Melanie: in un posto del genere non poteva che abitare un solitario privo di sentimenti.
Il personale della Scientifica sequestrò computer, portatile e hard disk esterni. Portarono via dall’ufficio di Lazlo anche calendari, agende e raccoglitori. Mentre Hauser perlustrava il piano superiore, Melanie guardava fuori dalla finestra della cucina che dava sulla strada. Era appena arrivata un’autopattuglia e, dopo aver verificato il mandato di perquisizione, gli agenti si misero a chiacchierare con i colleghi. Nessuno mise piede nella tenuta. In ogni caso il danno avrebbe dovuto essere risarcito. Un motivo in più per darsi da fare e trovare qualche prova consistente... Così nessun sarebbe venuto a rinfacciarle un allarme rotto.
In soggiorno Melanie passò davanti a un mobile bar ben fornito e osservò i giganteschi dipinti. Alle pareti comparivano tele inquietanti di Dalì e Picasso, ma in un certo senso quelle immagini colorate sembravano corpi estranei nella gelida atmosfera che dominava la villa.
Hauser scese le scale. «A prima vista non c’è nulla di sospetto», mormorò. «Solo fra qualche giorno sapremo se sono state ritrovate tracce di DNA di Clara.»
«Qualche indizio sui tatuaggi?» domandò Melanie.
Il poliziotto scosse il capo.
«Questa casa ha una cantina?»
Hauser si guardò intorno. «In giro non ho trovato punti di accesso e da fuori non si vedeva nessuna finestra.»
«Di norma la porta per la cantina si trova sempre sotto la scala che sale al primo piano.» Melanie guardò sotto le scale cromate e vide un Picasso alto due metri appeso alla parete.
Con una sottile spatola Hauser cercò di distanziare la cornice dalla parete. «Mi dia una mano.»
Insieme riuscirono a sollevare il telaio dall’ancoraggio.
«Attenzione!» si lamentò Melanie. «Se lo danneggiamo, dovremo metter mano alle casse dello Stato.»
Quando finalmente riuscirono a rimuovere il quadro, trovarono una porta blindata alta circa un metro e mezzo. Hauser appoggiò l’orecchio, bussò più volte sul metallo e cercò di muovere il chiavistello.
«Doppia porta», mugugnò. «Spessa almeno dieci centimetri. Una porta di massima sicurezza con serratura elettrica a combinazione numerica.»
«Riesce ad aprirla?»
«Io?» La guardò con aria divertita. «Solo se lei riuscirà a cavare di bocca a Lazlo la combinazione. Dovremo aprirla con la fiamma ossidrica.»
«Speriamo che almeno stavolta i tecnici non commettano errori», commentò Melanie. «Prima di avvicinarci con il cannello ossidrico, mettiamo al sicuro il Picasso.»
Un’ora dopo la porta era aperta. Nell’aria aleggiava un odore pungente di metallo bruciato. Una volta dissolta la cortina di fumo, Melanie vide che dietro la porta non si trovava un caveau ma l’accesso a una scala.
Hauser scese per primo e trovò un interruttore che attivava un’illuminazione al neon. La sfilza di tubi luminosi al soffitto indicava una via nella nebbia, come le luci segnaletiche della pista di rullaggio dell’aeroporto di Vienna.
Melanie fece un respiro profondo e seguì Hauser. A circa due metri di profondità la scala terminava in una stanza, agli angoli della quale si trovavano altri tubi al neon bianchi. Mattonelle nere ricoprivano il pavimento. Sembrava la sala di un museo d’arte contemporanea. Alle pareti erano appesi pesanti cornici cromate larghe mezzo metro per un metro di altezza.
Melanie notò che Hauser storceva il viso disgustato e in quell’istante capì che non si trattava di normali dipinti.
Tentò di avvicinarsi, ma Hauser la bloccò con un braccio.
«Meglio che non veda.»
Lei avanzò lo stesso e si avvicinò alla prima cornice. Dietro il vetro era steso un panno di velluto rosso, sul quale era fissata con spilli un’immagine. Sembrava un rotolo di papiro... e invece no, era pelle conciata, riconoscibile dai bordi sfilacciati.
«Ma quella è... pelle umana?»
Hauser annuì.
Sembrava di essere nel vestibolo dell’Inferno. Sette cornici inquadravano scene terribili, ma c’erano quasi trenta telai ancora vuoti. Melanie restò senza fiato. Fino a quel momento era riuscita a reprimere il ricordo del tatuaggio sulla schiena di Clara. Ma ora l’immagine della palude con le anime degli iracondi tornava a galla inarrestabile. Senza dubbio aveva davanti a sé le riproduzioni dei sette dipinti ispirati all’Inferno di Dante.
Nel primo, Melanie riconobbe una figura magra, probabilmente Dante stesso, che all’inizio del viaggio nell’oltretomba attraversava una selva oscura con animali terrificanti. Nel successivo compariva Virgilio. Con lui Dante riusciva ad arrivare nel limbo attraverso un fiume fumante, dove le anime straziate cercavano disperatamente di aggrapparsi a una barca. I diversi cerchi dell’Inferno attraversati da Dante erano rappresentazioni del macabro. Le anime soffrivano e venivano tormentate in tutti i modi possibili, mentre un cane a tre teste badava che nessuno scappasse.
I minuziosi dettagli spiegavano con chiarezza il contenuto delle scene e le rendevano in qualche modo affascinanti. D’un tratto il tatuaggio sulla schiena di Clara, che si integrava alla perfezione in quella serie, assumeva un significato terribile. Melanie era in piedi davanti all’ottava cornice, già pronta per ospitarlo. «Si prepari, deve ancora trovare quattro cadaveri, oltre alla bambina rumena e alle altre due...» disse con la voce rotta dall’emozione.
Dietro la porta del caveau pensava di trovare la segreta in cui era stata tenuta prigioniera tra la sporcizia una ragazzina; invece aveva scoperto una sala in cui erano esposti ripugnanti resti umani.
«Ci sono altre stanze?» domandò Melanie.
Hauser scosse il capo. «Se riusciamo a dimostrare che uno dei brandelli di pelle coincide con il DNA di uno dei cadaveri, riusciremo a incastrare Lazlo per omicidio.»
«E lei crede davvero che abbia rapito lui tutte quelle ragazzine, le abbia tenute prigioniere per un anno, tatuate, spellate per poi sotterrare i cadaveri da qualche parte?»
«Al momento dobbiamo partire da questa ipotesi», rispose Hauser. «In ogni caso chiederò che una squadra rivolti il terreno del giardino dietro la casa e che i cani molecolari perlustrino il bosco confinante.»
«Ho bisogno di aria fresca», si lamentò Melanie e corse per le scale passando davanti a Hauser.
Una volta all’aperto, Melanie si appoggiò al muro della casa e guardò il bosco. Bevve un sorso dalla bottiglia di brandy che aveva preso dal mobile bar di Lazlo. Anche se tutto ciò che apparteneva a quell’uomo la disgustava, senza quel brandy avrebbe dovuto vomitare. Il calore le si diffuse nello stomaco e cancellò il vago senso di oppressione che la tormentava.
Tentò di scacciare dalla testa quei terribili frutti della fantasia e non pensare a niente, ma era impossibile. Si ritrovò a immaginare le scene orribili che dovevano essersi svolte in quella casa negli ultimi anni. L’atmosfera asettica della villa, le piastrelle lavabili, gli strumenti cromati e il bosco buio che accoglieva grato quello che Lazlo aveva infilato dentro sacchi di plastica e trascinato a fatica sul terreno umido.
Fece un respiro profondo e bevve un altro sorso.
«Devo riaccompagnarla a casa?» domandò Hauser, che le era comparso di fianco all’improvviso e si stava sfilando i guanti.
«No, non ce n’è bisogno.» Gli porse il brandy. «Ne vuole un po’?»
«No, grazie. Non bevo.»
«Di norma neppure io.» Bevve un ultimo sorso, poi tappò la bottiglia prima che l’alcol la facesse stare davvero male.
«Ho ricevuto un sms dal laboratorio tecnico-criminale», disse Hauser. «L’indirizzo IP di Heiko99@gmx.de, dal quale è partito il virus che si è insinuato nel pc di Clara, proviene senza dubbio da un provider della Telekom tedesca.»
Avrebbe preferito bere un altro sorso, ma posò a terra la bottiglia. «Notoriamente la Telekom tedesca non fornisce mai informazioni sui propri clienti alle autorità austriache», disse sospirando Melanie.
«Dobbiamo scoprire chi è questo Heiko.»
«E dobbiamo anche scoprire se sapeva che dietro Michelle si nascondeva qualcuno che collezionava corpi di ragazzini tatuati. Se sì, in che modo? E perché ha scelto proprio Clara?»