33
Alle sei di mattina Sabine era già seduta sola in mensa a bere un caffè forte e osservare le sottili linee grigio argento all’orizzonte. Aveva dormito da schifo, sognando di continuo la cantina in cui avevano seviziato Horst Ekker.
Era solo il quinto giorno all’accademia e nella sua mente brulicavano già così tante teorie da farle esplodere la testa. Doveva prendere una decisione: concentrarsi sulle lezioni e smetterla con le indagini prima di impazzire del tutto, oppure rischiare la pelle.
Ma come poteva smettere? In fondo, lei era l’unica ad aver sentito l’ultimo messaggio di Erik. Prima di discuterne con il direttore Hess, con Wessely o con il dottor Bell doveva saperne di più. E comunque non riusciva a liberarsi dalla sensazione che fosse meglio parlarne solo ed esclusivamente con Sneijder, il quale per il momento non era raggiungibile.
Parliamone a quattr’occhi!... Le aveva detto, e probabilmente c’era un buon motivo. Dopo tutto uno degli assassini era di Wiesbaden.
Lanciò un’occhiata all’orario, appeso a una lavagna a parete vicino a lei. Quel giorno, dalle otto alle dieci, ci sarebbe stata un’altra lezione di uno psicologo su «I rischi professionali».
Sabine lasciò la mensa e spinse sotto la porta di Tina un biglietto con un messaggio.
Non ce la faccio ad ascoltare un’altra conferenza su colleghi morti in servizio. Vado a Weiterstadt. Torno alle 10.00.
Weiterstadt si trovava a circa quaranta chilometri a sud-ovest da Wiesbaden, poco prima di Darmstadt. Dopo mezz’ora di automobile, Sabine raggiunse il penitenziario qualche minuto prima delle sette.
La prigione era un edificio ultramoderno circondato da ampi terreni coltivati. Il sole mattutino illuminava la struttura bassa e vasta, in cui si trovavano persino un campo sportivo e una piscina coperta, che rientravano nel programma di reinserimento nella vita sociale. Anche a Weiterstadt, tuttavia, c’era una sezione maschile di massima sicurezza per trenta criminali... e Sabine voleva far visita proprio a uno di loro.
Si avvicinò con l’auto e mostrò il tesserino di riconoscimento. Il cancello scorrevole si aprì e lei avanzò in uno stretto spazio asfaltato chiuso da un altro cancello che si fece da parte solo quando il primo si chiuse alle sue spalle, dandole accesso a un parcheggio sorvegliato da numerose videocamere. Scese dall’auto e raggiunse l’ingresso, dove le ritirarono il tesserino di riconoscimento e registrarono la sua visita. Solo allora le chiesero cosa volesse.
«Vorrei interrogare il detenuto Johann Belok.»
L’agente si mostrò sorpreso e un tantino scocciato. «La prossima volta, prima chiami in ufficio e prenda un appuntamento, collega. Può sempre darsi che il detenuto sia impegnato in qualche lavoro o si trovi in infermeria.»
«A quest’ora di sicuro non starà ancora pulendo il cesso con lo straccio.»
L’agente la squadrò. «Lei è un aspirante commissario al primo semestre dell’accademia», constatò. «Di solito i colleghi vengono in due per motivi di sicurezza. Ha un’autorizzazione per questo interrogatorio?»
«Ha il mio tesserino di riconoscimento», replicò Sabine senza scomporsi. Sapeva che gli agenti del penitenziario avevano una lieve tendenza alla paranoia.
«Dov’è il secondo uomo? E il suo istruttore?»
«Il mio collega ha avuto un imprevisto. Si tratta di una questione urgente, perciò nel frattempo inizierò a interrogare Belok da sola.»
L’agente le bloccava ancora il passaggio. «Dovrei crederle?»
Sabine rimase calma. «Temeva che lo avrebbe detto», commentò, ed estrasse dalla borsa un secondo tesserino di riconoscimento. «Come ho detto, il mio collega mi raggiungerà più tardi.»
L’agente osservò il tesserino con il chip. «Maarten S. Sneijder. È il suo collega?» Sorrise sorpreso. «Allora può passare. Porti i miei saluti a quel vecchio bastardo. Almeno dieci tizi sono qua dentro per merito suo, tutti rinchiusi nell’ala di massima sicurezza.»
«Non sembra andarle molto a genio.»
«Ma no...» rispose lui. «Ho avuto il piacere di incontrarlo solo un paio di volte.» Poi la lasciò passare.
Mentre l’accompagnavano verso il primo punto di controllo, Sabine lo sentì informare una guardia carceraria. «Di nuovo un interrogatorio, stavolta a Belok. Preparalo.»
Fu condotta in una stanza videosorvegliata con pavimento piastrellato e asettiche pareti bianche. Consegnò cellulare, portafoglio e penna a sfera, che furono chiusi in una cassetta di sicurezza, poi da una porta di acciaio raggiunse il secondo punto di controllo.
«Attraversi lo scanner.»
Il dispositivo non suonò, e così Sabine poté raggiungere le salette interrogatori, passando per gli accessi riservati ad avvocati e interpreti. La stanza numero tre era libera. Era grande circa otto metri quadri, piastrellata di grigio e provvista di uno specchio smerigliato monodirezionale. Il tavolo ed entrambe le sedie erano fissate a terra. A quanto pareva là dentro si era già verificato qualche incidente grave.
Sabine dovette attendere alcuni minuti prima che Belok venisse condotto nella stanza ammanettato. Prima entrò un uomo in uniforme, poi il detenuto, infine un secondo uomo armato in borghese. Gli uomini spinsero Belok sulla sedia, gli aprirono le manette, ma gli incatenarono un braccio a una sbarra alla parete.
L’uomo armato in borghese lasciò la stanza senza dire nulla, quello in uniforme rimase alle spalle di Sabine.
«Devo ringraziarla», disse Belok prima che Sabine aprisse bocca. «Non mi capita spesso di incontrare una bella ragazza. E poi stamattina mi ha risparmiato la pulizia dei corridoi dell’infermeria. Ma probabilmente questa conversazione è solo un trucco per perquisire nel frattempo la mia cella.» Lanciò un’occhiata all’agente, che non si mosse.
Pochi giorni prima Sabine aveva visto in aula le foto delle vittime di Belok e ora era seduta di fronte a quel mostro. Ormai sui settant’anni, aveva un viso segnato, capelli corti grigi, barba ispida e un collo taurino su un corpo da lottatore.
«Stia tranquillo, non sono qui perché i poliziotti vogliono perquisire la sua cella.»
«I suoi colleghi non perdono occasione, sa?» La voce aveva un lieve accento sassone, che non si confaceva al suo aspetto... né tanto meno a quello che aveva fatto alle sue vittime.
E non riesco proprio a immaginare che tu possa trovare stuzzicante la vista di una ragazza, aggiunse tra sé e sé Sabine. Le scene dei crimini commessi da Belok negli anni Ottanta a Lipsia assomigliavano al prodotto finale del caso Centipede, solo che le sue opere erano costituite esclusivamente da corpi di bambini.
«Perché pensa che gli agenti di Weiterstadt siano miei colleghi?» domandò Sabine.
Belok sorrise. «Altrimenti non sarebbe arrivata fino a me.» Si guardava le mani. Dita tozze, palme talmente grandi da poterci fare sparire un ratto. Insolito per un ex pediatra.
«Bene», rispose Sabine. «Allora possiamo giocare a carte scoperte.»
Il viso di Belok rimase impassibile. «E perché dovrei?»
«Perché altrimenti dovrà tornare a strofinare i corridoi.»
«Allora mi proponga un passatempo più allettante.»
«Gli omicidi Centipede a Berlino.»
«Oddio.» Un sorriso forzato. «Sneijder è già stato qui un’infinità di volte per quella storia.»
«Io ho un approccio diverso.»
«Quindi conosce Sneijder...» Belok alzò le sopracciglia grigie e folte.
Per Sabine era indifferente, fintanto che quel mostro non conosceva il suo nome.
«Qualcuno ha copiato il suo capolavoro e ha tentato di rifilare la colpa a un ginecologo berlinese.»
«Niente di nuovo», la interruppe.
«Magari l’assassino non stava osservando lei per controllare chi veniva a trovarla in carcere, ma teneva d’occhio il ginecologo per cercare di trovare un crimine di cui potesse addossargli la responsabilità.»
Belok ci pensò su un istante. «Questa sì che è nuova.»
«Probabilmente in ultima analisi non si tratta affatto di lei, ma solo del dottor Jahn.» Sabine aveva colpito l’ego di Belok, dimostrando al contempo la sua importanza. «Lei rientra nel piano solo per caso... è solo il mezzo per raggiungere uno scopo.»
Belok sembrava perplesso e turbato. «D’accordo, ma parliamone senza testimoni.»
«Non si può», rispose Sabine. Per ragioni di sicurezza durante gli interrogatori nella stanza doveva sempre restare un agente. Dopotutto, Belok avrebbe anche potuto ferirsi e accusare Sabine di averlo colpito.
«Non voglio che qualcuno dell’istituto ci stia a sentire», bofonchiò lui. «Se gira voce che collaboro con i federali, qua dentro per me si mette male.»
«Ancora non sta collaborando.»
«Dipende da quali teorie ha in mente.»
Sabine fece un cenno con la testa alla guardia, che però non si mosse di un millimetro. «È sicura?»
«Sì.»
«Due minuti, non di più.» L’uomo lasciò la saletta interrogatori.
La porta si chiuse sbattendo e Sabine restò sola con Belok. Fissò lo specchio unidirezionale.
«Qua dentro possono vederci, ma non sentirci», spiegò Belok.
«Bene, così possiamo parlare apertamente.» Si sporse in avanti. «Perché il ginecologo è venuto a trovarla?»
«Come perché? È un mio grande ammiratore e si voleva congratulare con me per la mia carriera.»
«Perché, secondo lei, è stato l’unico nel corso di tutti questi anni?»
«Non sono in molti a cogliere il senso delle mie opere.»
«E quale sarebbe?»
Belok sorrise. «Provi a chiederlo a quell’artista che dipinge gettando sangue sulla tela! O si è predisposti a comprendere un’opera d’arte, o non lo si è.»
«E Maarten Sneijder l’ha compresa?»
«Creiamo solo quel che vediamo. Nessuno al mondo oserebbe creare con l’arte qualcosa che non vorrebbe vedere nella vita.»
«Come cucire tra loro con il filo metallico dei morti?»
Belok le rivolse uno sguardo paziente. «Lei non ha niente in comune con Sneijder.»
Per fortuna. Dopo tutto Sneijder trascorreva la maggior parte del tempo all’Inferno, dove entrava in contatto con le menti malate dei serial killer a cui dava la caccia.
«A quanto pare lei è esperto dell’animo umano», lo lusingò. «Ha conosciuto il ginecologo. Secondo lei, chi avrebbe voluto incastrarlo?»
Belok la squadrò con insistenza. «Se lei è davvero dell’opinione che il vero assassino non sia un ammiratore del mio lavoro a Lipsia, ma mi abbia solo usato per incastrare qualcun altro, allora dovremmo terminare il nostro colloquio, perché lei non ha capito niente di ciò che è accaduto.»
«Mi permette ancora una domanda?»
«D’accordo, ma a questo punto lei mi deve un favore.»
«Per quel che rientra nelle mie facoltà.»
«Si tratta solo di una bazzecola», disse Belok. «Cosa vuole sapere?»
«Cosa le aveva scritto il ginecologo e lei cosa gli ha risposto?»
«Lei è male informata», la rimproverò Belok. «Io non gli ho mai risposto.»
«E non gli ha mai scritto di sua iniziativa?»
«Per tutto il tempo che ho trascorso in carcere non ho tenuto nessuna corrispondenza.»
«E cosa le ha scritto lui?»
«Mai sentito parlare di segreto epistolare? E comunque ha già fatto la sua domanda.»
Sabine si morse le labbra.
«Ora veniamo al suo debito», borbottò Belok. «Riferisca questo a Sneijder da parte mia: ’Piet van Loon uscirà presto’.»
Sabine era confusa. «Chi è Piet van Loon?»
In quel momento entrarono nella stanza gli agenti. «Pronti?»
«Sì», mugugnò il prigioniero.
Lo staccarono dalla sbarra, gli rimisero le manette e lo condussero fuori dalla stanza.
«Chi è?» ripeté Sabine.
«Si limiti a riferirlo a Sneijder.»
Porca puttana! Aveva ancora un sacco di domande, ma Belok se ne andò, senza guardarla né aggiungere altro. Una volta lasciata la sala interrogatori e recuperate le sue cose, domandò all’agente che l’aveva accompagnata se esistevano copie delle lettere ai detenuti.
«Ovviamente no.»
«Andiamo! Stiamo parlando di un detenuto di massima sicurezza.»
«Cosa le serve?» sospirò l’altro.
«Una fotocopia di tutte le lettere ricevute da Belok.»
«Okay, ce n’è solo una. Nel frattempo aspetti all’ingresso, io vado in ufficio e la fotocopio.»
Sabine uscì e si sedette su una sedia di plastica nell’area visitatori vicino alla portineria. Accanto a lei c’era una palma finta dalle foglie brillanti.
«Sì, è ancora qui», disse il portiere uscendo dalla sua cabina. Coprì con una mano il telefono e disse a Sabine: «Ho parlato con Wiesbaden. Il BKA non sa niente di questo interrogatorio e Maarten S. Sneijder non è raggiungibile».
Sabine aveva il cuore a mille.
L’uomo le passò il telefono. «Ho in linea la persona che all’epoca era incaricata dell’indagine. Vorrebbe scambiare due parole con lei.»
Sabine non sapeva nemmeno con chi stava per parlare. Prese il telefono con i crampi allo stomaco. «Pronto? Sono Sabine Nemez. Io...»
«Sono venuto a sapere che una pischella dell’accademia ha interrogato il mio prigioniero», abbaiò una voce profonda nel ricevitore. «È lei? Cos’è questa storia? Perché non ne sapevo niente?»
«Be’, ora lo sa», replicò Sabine. «Si dia una calmata.»
«Ma è fuori di testa! Cosa vuole da Belok?»
«Quattro anni fa a Berlino qualcuno ha emulato i suoi delitti.»
«Lo so!» la interruppe l’altro.
«Un presunto emulatore aveva visitato Belok in carcere e più tardi si è messo in contatto con lui per lettera.»
«Cosa significa presunto? È stato il ginecologo! È stato lui a fare a pezzi quella famiglia.»
«All’accademia stiamo trattando proprio questo caso.»
«Ah, perbacco! Sneijder non molla mai. Gli riferisca che all’epoca si è lasciato sfuggire l’assassino. E che quelle lettere non riguardano né lei né gli altri studenti. Ha capito?»
Quelle lettere?
«Sì, ho capito.» Sabine concluse la chiamata e restituì il cellulare al portiere.
Un istante dopo la raggiunse l’agente, che le consegnò una busta. «Ecco la copia del testo.»
«Grazie», disse Sabine. «Ora mi fotocopi anche le altre, per favore.»
In tutto erano due lettere e, salvo la firma del dottor Jahn, entrambe erano scritte a macchina. Belok aveva effettivamente ricevuto solo la prima, che risaliva a maggio... quattro mesi prima del massacro a Berlino. La seconda era stata intercettata dagli agenti del penitenziario e non era mai stata consegnata al destinatario.
Il sole della mattinata riscaldava l’asfalto del parcheggio. Tornando verso la macchina, Sabine lesse la prima lettera.
Gentile dottor Belok,
sono felice di poter restare in contatto con lei, benché il tempo a disposizione non mi consenta di farle visita a Weiterstadt più spesso. Non posso lasciare l’ambulatorio senza un valido motivo... lo sa bene anche lei, dalla sua esperienza a Lipsia.
Mi ha scritto che le mie lettere non vengono né aperte dal personale del carcere né archiviate e che in seguito le avrebbe distrutte. Questa l’ho chiusa con un sigillo di cera, difficile da contraffare.
Se mi confermerà la sua integrità, le invierò la mia proposta.
Con la massima stima,
dottor Jahn
Sabine era confusa e sconcertata. Primo, Belok aveva affermato di non aver mai avuto scambi epistolari con nessuno, eppure quella sembrava una lettera di risposta. Una risposta a cosa? Secondo, era falso che nessuno tranne Belok aprisse le lettere. L’ufficio del penitenziario le intercettava.
Lesse la seconda lettera, risalente al giugno dello stesso anno.
Gentile dottor Belok,
per me è un grande onore che lei mi definisca suo allievo, benché io mi consideri piuttosto un collega che tenta di perfezionare la sua opera. Ma ha ragione. Finora mi sono solo limitato a mandarle qualche foto. Chiunque ne sarebbe capace.
E, ovviamente, ha ragione anche sul punto successivo, ovvero che non si è mai trattato di proseguire la sua opera con un goffo plagio, bensì di completarla nella sua ultima parte. Posso aspettare, benché lei non ne sia convinto. Un po’ mi feriscono le sue parole con cui mi definisce solo un medico incapace di vedere oltre il proprio orizzonte professionale. Ma rimando la palla nel suo campo, perché nessun maestro crea un allievo, ma crea sempre un altro maestro. Rimaniamo in una situazione di stallo!
Mi ha convinto: non mi occuperò più delle sua opera. A proposito, grazie per le foto, mi serviranno da ispirazione, e anche per la sua controproposta. In effetti, si tratta di uno scenario incantevole con comparse ben selezionate.
La terrò aggiornato.
Con la massima stima,
dottor Jahn
Sabine ripiegò la lettera e salì in macchina. Se la controproposta di Belok riguardava la famiglia di Berlino, significava che le vittime erano già state scelte mesi prima dell’accaduto... e proprio da Belok. E questo contraddiceva la sua ipotesi, secondo la quale la famiglia uccisa era stata solo un mezzo per raggiungere uno scopo e la vera vittima era il ginecologo sospettato ingiustamente.
Sabine non aveva ancora chiaro chi avesse manipolato chi... Per scoprirlo doveva rispondere ad altre due domande: dove era finito il resto delle lettere scritte dal ginecologo? E le risposte che aveva ricevuto?
Mise in moto e uscì dal parcheggio.
Doveva parlare a tutti i costi con Sneijder.