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La porta a vetri sul retro della limonaia si lasciò aprire piuttosto facilmente. Se la chiuse alle spalle e attaccò il mazzo di grimaldelli al cinturone.
Con la torcia elettrica ancora in bocca illuminò il pavimento. Aveva lasciato alcune strisciate sporche sulle mattonelle chiare. Ma che importava?! Dopo quella serata, un po’ di sporcizia nella limonaia sarebbe stato l’ultimo dei problemi per la giudice.
Seguendo il fascio di luce, avanzò nella casa a passo leggero. Un lampo illuminò la stanza per alcuni secondi; subito dopo, il tuono. In quell’oscurità gli acquarelli alle pareti sembravano minacciosi, come pure il camino, vicino al quale erano appesi alcuni attizzatoi appuntiti. Superato il soggiorno, raggiunse l’ingresso e le scale che conducevano al piano superiore. Un altro lampo illuminò l’ampio lucernario, su cui tamburellava la pioggia. Il bagliore strappò all’oscurità i mobili come esseri viventi pietrificati: un sofà ricurvo, una piantana storta e un comò imponente. La passatoia serpeggiava sul pavimento come un rettile maculato.
Vicino alle scale si trovava una porta aperta. Sabine la illuminò con la torcia e vide i gradini che conducevano in cantina. Tese l’orecchio, ma non sentì altro che la pioggia battente. Decise di andare prima al piano di sopra per cercare una camera o uno studio e frugare nei cassetti. Una donna che mentiva sulla figlia dicendo che era morta di meningite, mentre in verità era stata uccisa, doveva avere qualche scheletro nell’armadio. Da qualche parte in casa doveva custodire i ricordi: un diario, lettere, foto o articoli di giornale.
Non appena Sabine posò il piede sul primo gradino, all’improvviso in cantina si accese una luce. Il bagliore illuminava i gradini e metà dell’anticamera. Dal seminterrato giungevano delle voci. Auersberg! La giudice parlava con qualcuno, ma Sabine non riusciva a capire chi fosse il suo interlocutore. Spense la torcia e imboccò le scale verso la cantina.
«Raccontami come l’hai scoperto!» Auersberg fece una pausa. «Come hai fatto a scovare il nesso?»
Sabine scendeva il più piano possibile.
«Se non volevi fare la stessa fine, dovevi tenere la bocca chiusa. Quali misure di sicurezza hai adottato nel caso di una tua scomparsa?»
Silenzio.
«Quanto ne sa la tua collega?»
«Abbastanza.»
Un accento olandese. La voce di Sneijder! Sabine avrebbe voluto precipitarsi di sotto e colpire alla fronte Auersberg con il calcio della pistola, ma non sapeva cosa la aspettava in fondo alla scala. Sneijder era solo con Auersberg, oppure c’era anche qualcun altro?
«Ma non solo lei», proseguì Sneijder con voce rotta. «Ne sono al corrente anche Hess, Wessely e Lohmann.»
La voce di Auersberg sembrava divertita. «Ma cosa stai blaterando? Durante la tua visita con la tua studentessa la faccenda sembrava ben diversa. ’Rischio di beccarmi un provvedimento disciplinare e la mia collega è stata espulsa dall’accademia. Se vogliamo sistemare la questione dobbiamo muoverci in fretta...’» disse scimmiottando il suo accento.
«Sappiamo che sei stata tu a sparare a Erik, che hai architettato gli omicidi Centipede, come pure quelli a Sankt Peter-Ording, sull’Eifel e a Norimberga.»
«Ma tu sei suonato! E quale sarebbe il movente?»
«Se sei innocente, perché mi tieni prigioniero?»
«Bella domanda...» La sua voce si fece pacata. «Forse sono io a essere suonata. Non hai prove! L’unica cosa di cui mi puoi accusare è il sequestro di persona. Il mio avvocato chiederà il riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere. ’Vostro onore, il trauma mai elaborato per la drammatica perdita della figlia. Ho qui tre perizie che attestano il carattere instabile dell’imputata.’ Non farei nemmeno un giorno di carcere, dovrei solo rinunciare alla carriera.»
«Questa conversazione basta a dimostrare che ci sei dentro fino al collo.»
«Credi sul serio che uscirai vivo di qui?» Un sorriso di compassione. «E anche se accadesse... A chi crederebbero? A un investigatore tossicomane, prossimo alla sospensione, o a una giudice stimata?»
«A un investigatore tossicomane», gracchiò Sneijder.
«Maarten, ti sopravvaluti, ma del resto è sempre stato questo il tuo problema.»
Sabine aveva la gola secca. Era il momento di intervenire. Ma come? Le balenarono in mente mille pensieri. Auersberg aveva ragione: anche se il direttore Hess si fosse fatto convincere dalla procuratrice Dietz e avesse mandato una squadra di agenti, avrebbero potuto imputarle solo il sequestro. Dato che Sneijder era già stato in casa sua, non si trattava neppure di rapimento.
Certo, Thomas Wander le aveva ucciso la figlia e lei si era vendicata sui parenti dei giurati. Ma quali prove concrete avevano in mano? Il fatto che da un computer in casa sua fosse partito un virus installato nel pc di Clara per stabilire un contatto con un collezionista di tatuaggi era al massimo un indizio. L’avvocato di Auersberg si sarebbe appellato all’incapacità di intendere e di volere e lei avrebbe avuto buone chance di cavarsela.
Le restava solo una possibilità per fregare Auersberg. Era un piano folle, ma in quel momento non le veniva in mente niente di meglio. E doveva agire in fretta.
Sabine trattenne il fiato e inserì, quasi senza far rumore, un nuovo caricatore nella pistola d’ordinanza. Scese lentamente gli ultimi gradini. Il pianerottolo più in basso era già quasi interamente illuminato, tranne una nicchia in cui si intravvedevano scatolette e bottiglie. Sabine si infilò lì dentro, premendosi contro la parete nell’ombra finché con un piede non sfiorò una bottiglia. Dopodiché selezionò sul cellulare il numero fisso di Auersberg, che aveva memorizzato dopo la sua ultima telefonata con la giudice. Qualche secondo dopo il telefono in soggiorno squillò.
Ma Auersberg lo ignorò. I suoi passi echeggiavano nella stanza. «Stiamo solo perdendo tempo... Allora, quali misure di sicurezza hai adottato in caso di una tua scomparsa?»
«Perché non mi ammazzi, così lo scopri da sola?» domandò Sneijder.
«Non ho mai ucciso nessuno», rispose la donna.
«Con Erik non hai avuto difficoltà a premere il grilletto.»
«Con chi altro hai parlato dei casi?»
Sneijder tacque.
Sabine riattaccò, aspettò un minuto, durante il quale Sneijder si ostinò a tacere, poi selezionò di nuovo il numero.
«Merda», imprecò Auersberg, quando sentì squillare di nuovo. Nello stesso istante la sua ombra scivolò davanti alla nicchia e Sabine la vide salire le scale. Indossava jeans attillati, un pullover a collo alto e un paio di scarpe con i tacchi alti. Che donna tosta!
Ma non abbastanza!