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Sabine era sotto la tettoia dell’ingresso principale della Rhein-Main-Halle e congelava con indosso soltanto una gonna corta nera e una camicetta leggera. Dato che la sua camera al campus era già stata occupata, aveva pernottato alla foresteria del BKA. Era vestita di nero, come molti altri studenti, anche quelli che non conoscevano affatto Erik. Avrebbe preferito prendersi un paio di pasticche per il mal di testa e infilarsi a letto, ma Sneijder l’aveva costretta a partecipare alla serata.

L’intera facciata del palazzetto era coperta da uno striscione che indicava il sessantacinquesimo anniversario della polizia federale tedesca, sotto lo slogan: CONTRIBUIAMO AL MANTENIMENTO DELLA SICUREZZA. Davanti all’ingresso principale si fermò un altro pullman. Piovigginava e gli ospiti corsero con gli ombrelli alle porte a vetri, dove li accolse il personale di sicurezza.

Schönfeld spense la sigaretta nel posacenere. «Pezzi davvero grossi!»

«Entriamo anche noi?» propose Sabine.

Lui si strinse nelle spalle. «Inizia solo fra mezz’ora. Hai freddo?» Si sfilò il soprabito e lo mise sulle spalle di Sabine. Sotto indossava uno smoking.

Lo fissò stupita. «Non sono abituata a certi gesti da parte tua.»

«Mi dispiace per il tuo compagno. E poi...» Fece una smorfia. «Se ho rispetto per qualcuno, è per chi riesce a risolvere di sua iniziativa una serie di omicidi... come te ieri notte sul Neroberg.»

In quel momento Tina, Gomez e Meixner scesero da un taxi e li raggiunsero. Anche Gomez indossava uno smoking e le due donne si erano messe in ghingheri. Tina, tuttavia, non si era tolta neppure un piercing dal viso. Abbracciò Sabine senza dire una parola e le accarezzò la schiena.

«Entriamo?» propose anche Meixner.

Gomez lanciò un’occhiata dalla vetrata. «C’è la fila per i controlli di sicurezza. E Maarten Sneijder ha detto di aspettarlo qui.»

«Maarten S. Sneijder», lo corresse Tina, ma nessuno rise.

«Si parla del diavolo...» mormorò Schönfeld.

Proprio in quell’istante Sneijder stava uscendo dal palazzetto e veniva verso di loro. «Bello rivedervi tutti.»

Tina corrugò la fronte. «È davvero felice di vederci? Strano da parte sua.»

«Ha ragione, Martinelli. Volevo solo essere gentile.»

«Inedito da parte sua», scherzò Meixner.

Lui reagì con un sorriso freddo. «Ora non esageri.»

Quando riusciva ad arrestare un criminale, di norma Sneijder rifioriva e sembrava una persona normale. Neppure un accenno di cefalea. In quel momento invece era ancora pallido. Probabilmente la morte di Erik e l’arresto di Auersberg lo facevano star male più di quanto Sabine avesse immaginato. Inoltre aveva i polsi bendati e sotto la camicia si intravedeva una fasciatura che gli stringeva il busto.

Davanti al palazzetto si fermò un automezzo blindato della squadra mobile. Gli agenti scesero e si distribuirono attorno all’edificio. Sabine si guardò intorno. Se si contavano anche il gruppo per la scorta personale, quelli per la sorveglianza e gli uomini di Lohmann, per la sicurezza erano stati impiegati in tutto oltre duecento tra uomini e donne.

Uno degli agenti li raggiunse alle spalle. «Signori, qui non c’è nulla da vedere, fate largo!» disse agitando la mano spazientito.

Sneijder si girò lentamente e lo squadrò con il suo sguardo da camera mortuaria. «Ne vogliamo parlare?»

«Mi scusi, non sapevo che fossero suoi ospiti», mormorò l’uomo prima di rivolgersi a un altro gruppo.

«Perché tutte queste scene?» domandò Sabine. «Auersberg ha confessato l’omicidio di Erik.»

Sneijder annuì serrando le labbra. «Sì, ma ancora non sappiamo come sia riuscita a entrare armata nell’edificio.»

«La stanno interrogando?» domandò Tina.

Sneijder annuì. «Senza sosta... da questa mattina alle cinque.»

«E? Non ci tenga sulle spine.»

«Martinelli, ma cosa pretende? L’indagine è ancora in corso.»

«Ma noi abbiamo firmato una dichiarazione di riservatezza, l’ha dimenticato?» gli ricordò Tina. «E vogliamo imparare anche al di fuori del suo modulo.»

Sneijder sembrava valutare se fosse il caso di non cedere di fronte alle adulazioni dei suoi studenti. Alla fine si decise. Forse perché in effetti doveva loro una risposta. «Una perizia calligrafica ha dimostrato che Eva-Maria Auersberg ha scritto a nome di Belok le lettere al dottor Jahn, per indurlo a completare l’opera dell’ex pediatra con gli omicidi Centipede. La proposta di scegliere proprio quella famiglia, ovviamente, è partita da lei.»

Sneijder abbassò la voce. «Non abbiamo ancora avuto il tempo di esaminare tutti i dati del pc di Auersberg, ma abbiamo scoperto che l’indirizzo IP della rete wi-fi di casa è stato usato per stabilire il contatto con un serial killer di Vienna, al quale ha passato il recapito di una giovane vittima. Durante l’interrogatorio ha confessato di aver provocato anche l’omicidio del mare dei Wadden, l’omicidio Cannibale e quello a Norimberga.»

«Il movente?» domandò Meixner sollevando tre dita: «’In tre frasi brevi e precise’».

«Impara in fretta.» Sneijder fece un cenno col capo a Sabine. «Continua lei?»

«Se dieci anni fa i giudici popolari avessero condannato l’assassino di un bambino, sua figlia sarebbe ancora viva», spiegò Sabine. «Auersberg li ritiene colpevoli, è accecata dall’odio e ha voluto che provassero la sua stessa sofferenza. Ma non poteva commettere gli omicidi con le sue stesse mani, perciò ha manipolato una serie di criminali fornendo loro vittime ben precise... aveva consacrato a questa impresa tutta la sua nuova vita.»

«Ragion per cui, quando ha presieduto il processo Centipede contro il dottor Jahn», aggiunse Sneijder, «appena ne ha avuto la possibilità ha manipolato prove e procedimento in modo che l’imputato fosse assolto. Così ha incrementato la sofferenza dei parenti delle vittime.»

«Dorfer però l’ha ucciso direttamente», intervenne Tina.

«È stato puro istinto di sopravvivenza.»

«Perché non si è accorto che Auersberg era malata?» domandò Tina.

Ecco la questione di fondo che si era posta anche Sabine.

Sneijder abbassò lo sguardo ma non rispose.

«Perché era suo amico», disse Meixner.

«Lo sono ancora», replicò il profiler. «Lasciate che vi racconti una storia... se si organizza un incontro tra due psichiatri e prima si racconta a entrambi che l’altro è pazzo, succede quanto segue: già dopo il primo colloquio entrambi gli psichiatri diagnosticheranno che l’altro soffre di disturbo della personalità.» Sospirò. «Purtroppo la psicologia spesso funziona così: si vede solo quel che si vuole vedere.» Sneijder sbirciò dentro il palazzetto. «Entriamo.»

Tenne aperta la porta e Tina, Meixner e Gomez s’infilarono dentro. Sabine restituì il soprabito a Schönfeld ed entrò con lui. Sneijder li seguì.

Mentre gli altri avevano già superato il controllo di sicurezza, Sabine e Sneijder erano ancora in fila.

«Ora ho capito perché Erik ha agito da solo senza condividere con lei le sue ipotesi», disse Sabine.

«Anche io», mormorò lui. «Aveva scoperto il segreto di Auersberg, ma sapeva che eravamo amici.»

«Come avrebbe reagito, se gliene avesse parlato apertamente?»

«La verità è... che non lo so.»

Sabine squadrò il suo mentore. «Conosco quello sguardo. Lei ha in mente qualcos’altro.»

«Ormai per lei sono un libro aperto, vero?»

Sabine annuì.

«Be’, diciamo che mi stupisce», le bisbigliò all’orecchio, «che Auersberg sia riuscita a gestire tutto da sola per anni.»

 

Il salone era adornato con tende rosse lunghe dal soffitto fino a terra. Gli altoparlanti diffondevano musica jazz. Sulla tribuna erano allineati tre podi per gli oratori, uno schermo e un palco per un complesso musicale. Tutte le entrate erano piantonate almeno da tre uomini della sicurezza. Sabine vide persino Lohmann che andava in giro a impartire istruzioni.

Raggiunsero le prime file, guidati da Sneijder. Si sentiva odore di folla, profumo e tappeti spazzolati di fresco. Tina si girò un attimo verso Sabine e le indicò di guardare avanti. Lei allungò il collo. Oh, oh! Il direttore Hess in abito scuro e cravatta nera si dirigeva proprio verso di loro. Diede la mano a Sneijder, dietro al quale rimasero le reclute.

Hess indicò la fila anteriore della corsia centrale. «La prima parte sta per iniziare. Per te e i tuoi quattro candidati ho riservato i posti davanti.»

«Cinque candidati», lo corresse Sneijder.

Hess li osservò e non appena scorse Sabine assunse un’espressione glaciale. «Ma Nemez è...»

«Esatto», lo interruppe Sneijder. «Sempre nella mia squadra. Ci ha rappresentati con professionalità a Vienna e ha contribuito a individuare il collegamento tra diversi casi irrisolti. Perciò ho aggiunto una persona alla mia lista di ospiti.»

Tina diede un colpetto al fianco di Sabine. «Ha detto ’squadra’», le sussurrò. «In realtà, ci adora.»

«Ma allora perché durante il corso ci fa tutte quelle scenate?» replicò Sabine.

Tina alzò le spalle. «Perché Sneijder è fatto così.»

«Accomodatevi», disse Hess, e proseguì oltre senza stringere la mano a nessuno di loro.

Raggiunsero la loro fila e si fecero largo per raggiungere le sedie libere. Su una si trovava davvero un biglietto con scritto SABINE NEMEZ.

La musica cessò e, come a teatro, suonò una campanella per annunciare l’inizio della cerimonia. Il mormorio in sala calò, alcune sedie si spostarono e Hess salì sul palco accompagnato dalle note della fanfara e si avvicinò al microfono. Seguì un minuto di silenzio per Erik Dorfer. Sabine si alzò e chiuse gli occhi. Sentì che anche tutti gli altri si alzavano e cercò di concentrarsi su Erik, ma quando le tornarono in mente le immagini di lui pieno di bende e attaccato alle macchine preferì non pensare più a niente. Stranamente non riusciva a provare dolore, ma solo un’intensa rabbia verso se stessa, perché non era riuscita a impedire la sua morte.

Dopo un minuto si sedettero di nuovo e Hess prese in mano il microfono. Dopo aver presentato per dieci minuti gli ospiti d’onore, interrotto di continuo da scrosci di applausi, sciorinò una storia di successi del BKA che, a quanto pareva, era iniziata con la sua nomina a vicedirettore e durata sino a quel giorno. Vedendolo sul palco così disinvolto ed eloquente, non si sarebbe mai immaginato che potesse nutrire sentimenti di odio così profondi contro un singolo individuo. Sabine non conosceva ancora il motivo per cui Hess e Sneijder si odiavano a vicenda, nonostante poi si dessero del tu.

Mentre Hess passava a uno show multimediale, Sabine diede una sbirciata a Sneijder, seduto vicino a lei, e lo vide immerso nella lettura di un libricino che teneva appoggiato sulle gambe.

«Non le interessa?» gli sussurrò.

Sneijder chiuse il volume – il Libro della Via e della Virtù – e si chinò verso di lei. «Non appena in una sala percepisco quest’euforia inebriante, mi insospettisco.»

«Ma la relazione di Hess è interessante», mentì Sabine benché stesse a malapena ascoltando.

«Non sopporto più di sentire certe cose», mormorò Sneijder. Si avvicinò ancora di più. «Ha mai notato che chi desidera ardentemente diventare qualcuno, si comporta come se già lo fosse?»

Sabine sbirciò Hess.

«È una legge universale», affermò Sneijder. «La può osservare in diversi ambiti della vita.»

«Ma come direttore è giusto che parli dei propri successi.»

«Aspetti che inizi a parlare della sua autobiografia.»

Qualcuno alle loro spalle ordinò di fare silenzio.

«Va bene», disse Sneijder riaprendo il suo libro.

Dopo una ventina di minuti gli vibrò il cellulare. Lo tirò subito fuori dalla tasca del vestito e rispose, mentre alcune persone si voltavano a guardarlo.

Per un po’ rimase in ascolto senza parlare, poi imprecò a denti stretti: «Godverdomme! Non le avete tolto l’anello?»

Riattaccò, si chinò su Sabine e le sussurrò all’orecchio: «Auersberg si è tolta la vita durante l’interrogatorio».

Mentre Hess continuava a parlare sul palco, Sneijder si alzò, si fece largo tra la fila di sedie fino alla corsia centrale e sparì da un’uscita secondaria.

 

Dopo un’ora seguì la prima pausa. La maggior parte degli ospiti si alzò e andò al buffet. Mentre lottava contro quella marea di gente, Sabine allungò il collo in cerca di Sneijder, ma non lo vide da nessuna parte. In quel trambusto di migliaia di persone non avrebbe individuato neppure la sua testa calva. Con ogni probabilità non si trovava neppure più alla Rhein-Main-Halle, ma aveva preso un taxi per raggiungere l’edificio principale del BKA.

Mentre Sabine cercava almeno di individuare Lohmann, di colpo si ritrovò di fronte Hess che si intratteneva con un’attraente signora biondo platino in abito scuro lungo fino a terra. Travolta dalla ressa, Sabine urtò quasi il direttore.

Hess la ignorò. «Scusami, tesoro... Il dovere mi chiama.» Diede un accenno di bacio sulla guancia alla sua interlocutrice e sparì.

La signora aveva in mano l’opuscolo del programma e per un attimo seguì Hess con lo sguardo. All’improvviso si tolse gli occhiali da vista, si rivolse a Sabine e le diede la mano sorridendo. «Buonasera, signora Nemez. Spero possa perdonare le maniere poco affabili di mio marito, ma in giornate come queste è impossibile parlarci.» Sembrava quasi una lieve critica.

Era lei la donna ritratta nella foto sulla scrivania del direttore. Dal vivo era ancora più bella. Aveva come minimo dieci anni meno di Hess, indossava una collana di perle e un paio di orecchini eleganti e sembrava avere molta cura per il proprio aspetto. Già il modo in cui si muoveva rivelava un portamento da vera signora.

«E come fa a...?»

«Come faccio a conoscerla?» La signora Hess sorrise in segno d’intesa. «È stato Maarten Sneijder a parlarmi di lei. D’altra parte...» Abbassò la voce e quasi in tono cospirativo aggiunse: «... Chi non conosce i fatti degli ultimi giorni?» Lasciò vagare lo sguardo sul completo nero di Sabine. «Conoscevo Erik, un ragazzo simpatico. Sono desolata per la sua scomparsa.»

Spinse Sabine da una parte, si appartò con lei in una nicchia e anziché indugiare nelle solite frasi retoriche, come «La vita va avanti» le disse: «Conosco piuttosto bene Maarten. Mi chiami pure Diana. E in caso di bisogno mi contatti in qualsiasi momento. Dico sul serio».

«Perché? Voglio dire...» Sabine doveva avere un’espressione sbalordita, perché Diana Hess sorrise.

«Capisco che le sembri strano, ma su di lei so molto più di quanto pensi. Maarten mi ha raccontato che è una delle reclute più talentuose che siano entrate al BKA. L’ha definita la sua pupilla.»

«Ma a Norimberga lo hanno ferito per colpa mia.»

«Ieri sera però gli ha salvato la vita», replicò Diana. «Chissà per quanto tempo Auersberg lo avrebbe tenuto prigioniero in quella cantina.»

Sabine tacque. A quanto pareva, la consorte del suo nemico giurato era un’amica intima di Sneijder.

«Sabine... posso chiamarla così?»

Lei annuì.

«Noto la diffidenza nei suoi occhi. È normale e anche comprensibile.» Diana lasciò vagare lo sguardo per la sala. «Dodici anni fa, mio marito, in quanto vicedirettore, è stato incaricato della sicurezza durante una conferenza a Berlino.» Lo sguardo si perse nel vuoto, come se con i ricordi viaggiasse indietro in un passato terribile. «Maarten gli aveva fatto notare alcune lacune, ma mio marito non volle dargli retta. Accadde quel che non doveva accadere... Uno sconosciuto si introdusse nella zona vip e uccise una persona con un coltello e mi...» Si interruppe. D’istinto si portò le dita alla collana di perle. Sotto si distinguevano alcune cicatrici che risaltavano sulla carnagione abbronzata. «Maarten mi ha salvato la vita, ma sono stata ferita gravemente.»

Diana trasalì, ma il suo sguardo rimase penetrante. «Be’», disse, come se volesse scacciare quel ricordo, «si domanderà perché glielo racconto. Sarò in debito con Maarten per tutta la vita, perché non ha salvato solo la mia vita, ma anche quella di mio figlio...» Fece un respiro profondo. «Allora ero incinta. Per fortuna, è andata bene. Mio figlio oggi ha dodici anni ed è sano come un pesce.»

Sabine era sempre più stupita dalla loquacità di quella donna. «Dunque suo marito dovrebbe sentirsi in debito con Maarten; invece ho l’impressione che i due...»

«Si detestino?» intervenne Diana. «Lo dica pure chiaro e tondo. Hanno sempre avuto opinioni differenti. Come se non bastasse, Dietrich ha sempre considerato Maarten un concorrente. All’epoca scoppiò un putiferio. Dietrich non voleva ammettere di avermi messa in pericolo con la sua negligenza e Maarten gli fece presente che lo considerava un incapace. Lei sa bene quanto sappia essere diretto Maarten. È ancora in attesa di un ’grazie’ esplicito da mio marito e Dietrich aspetta ancora una parola di scusa da Maarten.»

Ma l’ego impedisce a entrambi di fare la prima mossa!, pensò Sabine fra sé e sé. «Uomini», commentò sospirando.

Diana sorrise. «Chi riuscirà mai a capire cosa gli passa per la testa? Mio marito avrebbe preferito rimuovere dal servizio Maarten e lasciarlo sparire in qualche ufficio tra le luci al neon dello scantinato.»

«Ma lei gliel’ha proibito, vero?» chiese Sabine.

«Non è nel mio stile sfruttare la mia posizione, ma talvolta è necessario.» Diana annuì. «Da allora Maarten è sotto la mia protezione speciale.»

Solo allora Sabine capì la situazione: Diana Hess non era una donna qualunque, bensì la donna, che stava dietro al direttore Hess e che esercitava un forte influsso su di lui. Ed era chiaro che stimava molto Sneijder... Erano in pochi a farlo. Purtroppo, come dovette ammettere con se stessa.

 

Quando la campanella annunciò la fine della pausa, gli ospiti si precipitarono ai loro posti.

«Spero che rimanga tra noi», disse Diana Hess guardando Sabine. «Gli amici di Maarten sono anche miei amici, perciò mi impegnerò perché possa continuare il corso all’accademia. Lasciare andare gente come lei sarebbe un errore.»

«Grazie.»

La campanella suonò per la seconda volta.

«Mi dia un po’ di tempo. Poi, se mi vorrà ringraziare, venga a trovarmi a casa e stapperemo una bottiglia di vino rosso presa dalla cantina di mio marito.»

Diana Hess le strizzò l’occhio, aprì un astuccio e premette in mano a Sabine un biglietto da visita. «Ora mi scusi, devo tornare nel settore vip e rispolverare la mia espressione interessata e allegra.»

Nonostante la statura, la signora scivolò agilmente tra la folla e sparì. Solo allora Sabine si accorse che due uomini della sicurezza di Lohmann la seguivano con discrezione. Dietrich Hess doveva aver imparato la lezione dagli eventi di dodici anni prima.

Sabine infilò il biglietto da visita nella borsetta e tornò al proprio posto. Non appena si sedette, iniziò la seconda parte, ma la sedia di Sneijder rimase vuota.

Come pronosticato dal suo mentore, Hess presentò la propria autobiografia mettendo tutti al corrente della sua esperienza pluriennale di criminologo. Sabine si sforzò di seguire, ma non faceva che chiedersi se nel libro fosse descritto anche l’episodio raccontatole poco prima dalla consorte. Di sicuro non avrebbe speso neppure una parola su Sneijder.

Mentre il direttore parlava, la sua voce si faceva sempre più lontana e l’applauso finale le arrivò smorzato, poiché Sabine non riusciva a fare a meno di ripensare al colloquio con Diana Hess.

All’epoca era incinta.

D’un tratto quell’idea la colpì come una scossa elettrica. La gravidanza! Ecco la chiave. Mio Dio, fino a quel momento lei e Sneijder avevano visto solo mezza verità. Ma all’improvviso aveva davanti a sé tutti i tasselli del puzzle. Ormai tutto assumeva un senso... Per la prima volta anche il messaggio di Erik sul cellulare di Sneijder.

«Ora so chi è il padre del...»

Sabine doveva per forza trovare Sneijder. Balzò in piedi e si fece largo tra le file, accompagnata da moti di riprovazione.