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La mattinata all’accademia era proseguita con il modulo «Disposizioni di servizio e cooperazione con il pubblico ministero», destinato a tutti gli studenti. Dopo quella parte teorica e la pausa pranzo alla mensa, era stata la volta del modulo «Rapporto con armi e munizioni», che era risultato ben più interessante, con lo smontaggio e l’assemblaggio della Sig Sauer, seguito dall’allenamento al poligono di tiro.
Nelle ultime due ore Tina non si era vista e l’istruttore aveva preso nota della sua assenza. Fra la visita in ospedale e i due moduli, a Sabine non era rimasto molto tempo per svolgere il compito assegnato da Sneijder: documentarsi sugli omicidi Centipede. Dal suo portatile poteva entrare nel sito Internet dell’archivio del BKA, ma senza una password valida non avrebbe avuto accesso ai dati. Il Dipartimento investigativo federale, a quanto pareva, non riponeva molta fiducia in quelle che definiva «reclute particolarmente dotate».
Per fortuna, inserendo in Internet la parola chiave «Centipede», aveva trovato un articolo di cinque righe, in cui si riferiva soltanto che quattro anni prima una famiglia berlinese era stata massacrata nella propria casa in maniera brutale. Tutti gli altri articoli sul tema erano stati rimossi dal server per ragioni di tutela minorile.
Alle tre in punto, Sneijder entrò in aula e andò dritto al sodo. Mentre raccoglieva le cinque dichiarazioni di riservatezza, iniziò la lezione.
«Questi pezzi di carta servono a un unico scopo. In questo modulo tratterò con voi solo casi irrisolti. Vorrei che foste aperti a tutte le idee e voglio elaborare con voi nuovi approcci. Con i casi già risolti potreste cercare la soluzione su Google; io, invece, voglio insegnarvi a pensare con la vostra testa e formulare idee personali. Ecco perché tutto quello che ascolteremo e vedremo d’ora in avanti sarà soggetto a segreto d’ufficio. Chiunque lo infrangerà, commetterà un reato. Intesi?»
Sneijder prese l’ultimo foglio e andò alla cattedra. «Nel modulo del mio collega Wessely, invece, affronterete sempre casi risolti. Lui è un investigatore di vecchia scuola che confida nelle statistiche, nei reperti di laboratorio e nell’analisi informatica.»
Tina si sporse verso Sabine. «Un tempo era bravo, ma poi è diventato troppo teorico», le sussurrò.
«Martinelli, l’ho sentita! I metodi di Wessely non sono affatto male. Si tratta semplicemente di un approccio diverso. Molti dei casi di cui si è occupato sono stati risolti grazie a programmi che attingono alle banche dati. Tuttavia, esiste un software classico di gran lunga più efficace degli altri. Vale a dire questo...» Sneijder si toccò la fronte. «Ed è proprio con questo che lavoreremo noi.» Infilò i fogli nella sua cartellina. «Allora, che cosa avete scoperto sugli omicidi Centipede?»
«Niente», rispose dalla prima fila Schönfeld, un biondo atletico con una polo bianca, che a Sabine era sembrato piuttosto arrogante già durante l’allenamento al poligono. Era passato dalla polizia giudiziaria di Berlino all’accademia e all’interno del gruppo era quello che aveva dimostrato di avere il quoziente intellettivo più elevato.
Meixner, che gli stava seduta vicino, non aveva nulla da invidiargli. In un certo senso, Sabine si sentiva persa in mezzo a quei cervelloni. Lei non aveva dovuto superare né il colloquio teorico, né i due giorni di selezione attitudinale; non le avevano richiesto di presentare documentazioni mediche, né di svolgere prove pratiche collettive, o di sottoporsi a colloqui individuali con lo psicologo. Non sapeva neppure se gli esercizi di pilates e la corsetta quotidiana fossero sufficienti a soddisfare i requisiti fisici. Prima o poi avrebbe dovuto chiedere a Sneijder se dietro quei privilegi ci fosse il suo zampino.
«Non abbiamo accesso all’archivio del BKA», aggiunse Schönfeld.
«Per un buon motivo», rispose Sneijder. «Finché vi trovate nella fase formativa, siete classificati al minimo livello di sicurezza. Questo significa che vi è consentito solo respirare e rispondere, quando venite interrogati. Non otterrete alcuna password per accedere ai dossier delle indagini in corso. Altre idee creative?»
Silenzio di tomba, poi Tina alzò la mano. «Ho consultato l’archivio dei giornali alla biblioteca civica e usato il lettore di microfilm.»
«E come ha trovato il tempo?» obiettò Sneijder.
«Ho rinunciato all’allenamento al poligono.»
«Un giorno magari avrebbe potuto salvarle la vita.»
«Sono una tiratrice sportiva», disse Tina. «A Palermo si impara con la vita di strada.»
«A quanto pare, in questa stanza, lei ha le palle più grosse di chiunque altro. Allora, cosa ha scoperto?»
Sabine trattenne a stento una risata. In realtà, non c’era da stupirsi che una studentessa di giurisprudenza tatuata e piena di piercing fosse una tiratrice sportiva.
«Gli omicidi Centipede si sono verificati quattro anni fa, in un fine settimana di settembre in una villa di Berlino», raccontò Tina. «Uno sconosciuto ha tenuto prigioniera per tre giorni una famiglia, massacrando in modo brutale un membro dopo l’altro.»
«Componenti della famiglia?»
«Padre, madre, un figlio di sedici anni, una figlia di otto, un cane e due gatti.»
Sneijder congiunse la punta delle dita davanti alla bocca. «Ora vi mostrerò come ha ridotto le sue vittime l’assassino Centipede.» Prese il telecomando e andò al videoproiettore. «I più logici tra voi non avranno alcun problema nel vedere queste immagini. I più empatici, invece, dovranno imparare a sviluppare una certa distanza e obiettività nei confronti delle vittime e dei loro familiari, altrimenti tra qualche anno rischieranno di impazzire.»
Sneijder oscurò la sala, chiudendo le veneziane e attivando il proiettore con il telecomando. Dopo pochi istanti mise a fuoco la prima foto, poi, al ritmo di una ogni dieci secondi, le immagini continuarono a scorrere in loop sullo schermo.
Dapprima Sabine pensò che si trattasse di uno scherzo, poi si rese conto che le foto erano autentiche. Sentiva le dita di Tina, vicine alle sue, stringere il banco. Anche lei provava la stessa sensazione.
Considerarle massacrate significava minimizzare: un folle aveva tagliato a pezzi quelle povere persone, riassemblando poi le singole parti fino a realizzare una bizzarra creatura, che assomigliava a un mostruoso millepiedi seduto sul divano in soggiorno. Ecco perché il caso era stato denominato «Centipede». Inoltre l’artefice di quell’obbrobrio aveva inserito nella sua creazione gli animali domestici e pezzi di bambole. Le tende rosse alle finestre erano state tolte, fissate al soffitto del soggiorno e drappeggiate come sul palcoscenico di un teatro, quasi a voler sottintendere: «Si alzi il sipario... Benvenuti al mio spettacolo!» Alcune fotografie sembravano dipinti a olio barocchi. Persino gli indumenti si addicevano al nuovo corpo. Nell’insieme, sembrava un galleria tridimensionale di curiosità, opera di un Dalì o di un Picasso impazzito.
«Ma questo è uno psicopatico!» mormorò Meixner in prima fila.
«Psicopatico?» ripeté Sneijder. «La maggior parte dei serial killer è mossa da rabbia o da pulsione sessuale. Se riesce a considerarlo dal punto di vista di un analista dei casi, allora sarà in grado di procedere in maniera più strutturata. Altrimenti, meglio che diventi un agente di pattuglia. Noialtri dobbiamo contemplare questo delitto come un’opera d’arte totale. Il nostro lavoro non è catturare il colpevole ma comprenderlo, in modo che siano altri a catturarlo.»
«Lo scorso anno però è stato Sneijder in persona a catturare un serial killer», sussurrò Tina.
«Lo so», rispose Sabine, senza distogliere lo sguardo dalle immagini. E sapeva anche che per quel giorno non sarebbe riuscita a mangiare niente.
Dai volti delle vittime non trapelava alcuna emozione. Sabine lo aveva già notato in altri cadaveri che aveva visto in passato. La mascella calata verso il basso, le lingue fuori, bluastre; sulle labbra baffi di schiuma secca; la cornee completamente secche.
Mentre alcuni fissavano le foto e altri spostavano altrove lo sguardo, Sneijder saliva lungo il corridoio centrale per distribuire i dossier. Sabine lanciò un’occhiata alla cartellina. Conteneva testimonianze, rapporti della Scientifica e del medico legale. Non c’era da stupirsi che i dati medici fossero ben più corposi rispetto ad altri omicidi, tuttavia mancavano la perizia psichiatrica e il profilo dell’assassino.
Dai timbri e dal modo in cui erano stati compilati i documenti, Sabine si accorse che si trattava di copie autentiche, non di facsimili. Sapeva già quali punti cercare per ottenere nel giro di pochi minuti una visione d’insieme sul caso. Aveva appena richiuso la cartellina, quando Sneijder riprese la parola.
«Qualche volontario? Allora, cosa è successo?»
Schönfeld fu il primo a rispondere. Doveva dimostrare la sua prontezza di intuito, ovviamente.
«Una famiglia berlinese benestante. Villa in periferia, piscina coperta, sala da biliardo e biblioteca con camino. Venerdì mattina uno sconosciuto si introduce in casa e narcotizza madre e figlia con flunitrazepam ad alto dosaggio, un farmaco che induce rilassamento muscolo-scheletrico. Sono svenute subito. Tuttavia si notano tracce di colluttazione sugli avambracci della donna... A quanto pare, la famiglia non conosceva l’assassino, che poi ha sparato al bovaro del bernese, ha ucciso entrambi i gatti siamesi con uno stiletto e li ha rasati. I proiettili provengono da una Heckler & Koch, nove millimetri, con silenziatore. Ha recuperato i bossoli.»
«Continui.»
«Il figlio rientra a casa a mezzogiorno, il padre nel tardo pomeriggio. Per entrambi l’assassino adotta la stessa procedura. Ferite agli avambracci, un colpo alla nuca, stordimento con flunitrazepam. La famiglia viene tenuta prigioniera in casa, imbavagliata e legata, fino al pomeriggio della domenica. Solo alle cinque l’assassino inizia la sua opera.»
«Perché aspettare così a lungo?» lo interruppe Sneijder.
«Le tracce di sangue in bagno fanno pensare che la famiglia abbia usato più volte la toilette. Probabilmente l’assassino non voleva che la sua opera fosse deturpata dalle evacuazioni dell’intestino e della vescica.»
Sabine alzò gli occhi un istante. In effetti Schönfeld aveva stoffa!
Sneijder annuì. «Avanti.»
«L’assassino non sembra invece disturbato dal sangue, forse perché si addice alla tonalità delle tende e del divano. Separa la testa e gli arti dai corpi delle vittime, li ricuce in altro modo, combinando parti umane e animali.»
In prima fila c’erano due studenti che stavano bisbigliando. Meixner, una biondina in ghingheri con occhiali da sole tra i capelli; Gomez, un tipo alto, dinoccolato e disinvolto, che masticava chewing gum. Non dava affatto l’idea di uno che avesse già lavorato per la polizia.
Sneijder gli si piazzò davanti. «Queste disquisizioni vi annoiano? Ve lo chiedo perché dovreste aguzzare le orecchie. Niente di ciò che discutiamo qua è un intermezzo! Probabilmente un giorno verranno a galla nuovi indizi e dovrete lavorare a questo caso.»
«Scusi», mormorò Meixner e si infilò i lunghi capelli dietro l’orecchio.
«Qualche commento?» domandò Sneijder, ma non intervenne nessuno. «Bene, prosegua, Schönfeld!»
La recluta riprese il filo del discorso. «L’assassino non ha lasciato tracce neppure sulla sua opera. Sangue, capelli, saliva, sudore e frammenti di pelle appartengono solo ai membri della famiglia. Le uniche tracce estranee possono essere ricondotte ad amici e conoscenti, che per l’ora del delitto avevano un alibi.»
Sneijder alzò le sopracciglia. «Queste sì che sono tracce! Più uno tenta di occultare qualcosa di sé, più ce lo svela. Vale a dire?»
«Il colpevole ha indossato guanti e retina per capelli. Forse una mascherina protettiva e magari persino una pellicola su tutto il corpo per coprire i vestiti. Eventualmente...»
«Niente male», lo interruppe Sneijder. «Prosegua lei, Martinelli! Cosa sappiamo della psiche dell’assassino?»
In un primo momento, Sabine provò un po’ di pena per Tina, convinta che Sneijder pretendesse troppo da lei e volesse metterla in ridicolo. Ma si sbagliava.
«Il colpevole ha agito secondo un piano», disse Tina, mostrando sicurezza. «E non ha lasciato nulla al caso.»
«Prosegua», insistette Sneijder.
«Per capire un artista dobbiamo osservarne l’opera. Il cammino di un uomo che diventa un serial killer poggia su tre colonne portanti, a noi molto utili: enuresi notturna, giochi col fuoco e mutilazioni di animali. In questo caso, l’ultimo punto sembra il più marcato.»
«A cosa mira?»
«Se un animale ha occhi umani, quando ci guarda ci sentiamo a disagio. Lo stesso accade se un uomo con la dentatura canina ci sorride. L’assassino ha voluto senza dubbio suscitare disagio nell’osservatore.»
Tina aveva ragione e Sabine trovò che l’immagine più inquietante fosse la figlia di otto anni con gli occhi da gatto.
«Perché tanta brutalità?»
«Desiderio, avidità, delirio omicida sono come l’acqua salmastra: più la si beve, più si ha sete», rispose Tina.
Sneijder annuì. «In questo delitto è presente un germe di follia. Ci si deve guardare bene dal covarla. Cosa dovremmo chiederci?»
«Da allora ha commesso altri omicidi?»
Sneijder scosse il capo. «Per quanto ne sappiamo, no.»
«E prima aveva già ucciso?»
«Probabilmente no.»
«Eppure quelle immagini mi ricordano...» Tina ammutolì.
«Sì?» la sollecitò Sneijder, avvicinandosi.
«Il modo in cui i corpi sono stati composti e ricuciti mi ricorda una serie di omicidi accaduti negli anni Ottanta. All’epoca non ero ancora nata, però mi ricordo di aver letto un articolo qualche anno fa.»
«Johann Belok», confermò Sneijder.
Un mormorio per la sala. Piano piano ad alcuni tornò in mente qualcosa. Anche Sabine se ne ricordò. Belok era un pediatra di Lipsia, ma al contempo un folle, che negli anni Ottanta aveva mutilato diverse persone colpendo soprattutto nei quartieri popolari. Tuttavia Sabine non ci sarebbe mai arrivata da sola... Non era certo un geniaccio come Tina che, a quanto pareva, si occupava di quelle cose anche nel tempo libero.
Sneijder fermò le diapositive e avviò con il telecomando un’altra serie di immagini. Mostrava fotografie a colori sbiadite di scene di vari delitti, che a causa degli anni si erano ingiallite. «Martinelli?»
Tina si schiarì la gola. «Che dopo così tanti anni Belok si sia rimesso in attività, lo ritengo improbabile.»
«Anch’io», confermò Sneijder. «Da quindici anni Belok si trova nella sezione di massima sicurezza del penitenziario di Weiterstadt.»
«Secondo me si tratta di un emulatore», proseguì Tina. «Si nota una chiara volontà di spingersi oltre i reati di Belok. Forse persino con una certa ansia.»
Sneijder andò alla cattedra. «Il primo indizio importante della giornata! Questo è anche il motivo per cui il BKA ha preso in esame il caso. Belok è stato catturato nella DDR e trasferito quindici anni dopo nella prigione di massima sicurezza di Weiterstadt.»
Sabine la conosceva. Si trovava a quaranta chilometri a sud di Wiesbaden.
Sneijder schioccò le dita. «Meixner, ora tocca a lei!»
La bionda si alzò. «I vicini hanno dichiarato di aver visto lampi di luce dietro le veneziane abbassate della villa. Suppongo che non si sia trattato dei colpi di pistola, bensì del flash di una macchina fotografica.» Perplessa, cercò con gli occhi Sneijder, che la osservava impassibile. «L’assassino ha fotografato la sua opera.»
«Perché le foto? Per quale ragione non ha girato un video?» domandò Sneijder.
«La metamorfosi della famiglia sul divano, incorniciata da una tenda di velluto, sembra richiamare un quadro, un effetto che l’assassino ha prodotto in maniera consapevole. Un video è qualcosa che si muove, ecco perché ha optato per le foto.»
«Perché non si accontenta del ricordo?» continuò a martellarla Sneijder.
«Perché lui...» Meixner balbettava, «... Desidera rivivere il fatto, mentre osserva le foto?»
«Sbagliato! Martinelli?»
Tina indugiò qualche secondo prima di rispondere. «Perché desidera calarsi nei panni di Belok e capire cosa prova l’ex pediatra, ormai rinchiuso in carcere, nell’osservare le immagini sul giornale e vedere la sua opera perfezionata?»
«Eccolo il motivo!» gridò Sneijder. «Dunque, abbiamo i quattro omicidi di Belok e questo folle reato per emulazione. Si tratta di una mole di dati rilevante. Immaginatevi queste conoscenze come un lampione puntato dietro di voi: illumina sempre e solo il tratto di strada che avete già percorso. Il nostro compito però è azzardare una previsione. Ucciderà di nuovo? E se la risposta è affermativa, il suo gesto soddisfa una pulsione sadica o feticista?»
Nessuno rispose.
«È questo il dunque! Chi è a favore di un movente feticista?»
Sabine si guardò intorno. Tutti avevano alzato la mano.
Sneijder le si avvicinò. «Nemez, lei non è d’accordo? Perché?»
«Può per favore mostrarci di nuovo l’immagine numero diciassette delle diapositive precedenti?»
Sneijder fermò la presentazione con le foto delle scene dei crimini di Belok e riproiettò quelle della villa berlinese. L’immagine numero diciassette mostrava la figlia di otto anni con le pupille falciformi del gatto siamese nelle orbite.
«Il volto della figlia è quasi nero per il sangue fuoriuscito la domenica sera. Tuttavia sono evidenti gli spazi liberi bianchi nelle pieghe a lato degli occhi, perché la vittima li ha strizzati. Il sangue è suo?»
Sneijder squadrò Sabine con sguardo penetrante. «Sì.»
«Dunque era ancora viva mentre le cavava i bulbi oculari. È un sadico. Odiava quella famiglia! Odiava la loro ricchezza, la piscina, la sala da biliardo e la biblioteca... Li ha fatti soffrire. Probabilmente ha ucciso la madre per ultima costringendola a guardarlo mentre compiva la sua opera.»
Sneijder si sistemò il nodo alla cravatta. «Giusto.» Poi tornò alla cattedra.
Tina le scivolò più vicino dandole un colpetto col gomito. «Figo, no?»
Sabina non lo trovava affatto figo, ma triste e spaventoso allo stesso tempo. Non avrebbe voluto mai immedesimarsi nella mente di un assassino, eppure non appena aveva visto le foto delle scene del crimine era successo in modo automatico.
«Un serial killer impara dalla propria esperienza. Ecco perché risulta via via più difficile catturarlo. Quali metodi potremmo adottare in questo caso?»
«Potremmo provocarlo con una notizia sui giornali», propose Schönfeld. «’Emulatore offende il capolavoro di Belok!’»
«Ci abbiamo provato... ma nessuno si è rivolto alla stampa.»
«Potremmo istituire delle guardie cittadine; magari si unirebbe per scoprire quanto sappiamo già su di lui», propose Gomez.
«L’abbiamo già fatto... Nessun risultato.»
«Nell’anniversario del reato potremmo pubblicare un articolo sull’omicidio e sorvegliare la tomba della famiglia», disse Tina.
Sneijder scosse il capo. «Non è venuto nessuno.»
Tacquero tutti.
«Un altro metodo più efficace?» domandò Sneijder.
«No», rispose Sabine.
Sneijder si mostrò stupito. «E perché no?»
«Evidentemente nessuno dei metodi conosciuti ha prodotto risultati... altrimenti questo caso non sarebbe ancora irrisolto.»
«Secchiona», mormorò qualcuno dalla fila anteriore.
Sabine ignorò il commento. «Dovremmo invece verificare se negli ultimi quindici anni qualcuno si è messo in contatto con Belok.»
«Sarebbe un’ipotesi plausibile.» Sneijder premette sul telecomando e proiettò sullo schermo il registro dei visitatori del penitenziario di Weiterstadt. «Da quando si trova in carcere Belok ha ricevuto solo sette visite: cinque da sua moglie negli anni Ottanta e due da un uomo quattro anni fa.»
A Sabine mancò il fiato. Non per il cognome del visitatore, bensì per la firma dell’investigatore del BKA che aveva richiesto il registro. «Erik Dorfer». La data risaliva a sole quattro settimane prima. Erik doveva aver lavorato al caso, senza però dirle niente. Un tempo parlavano di tutto.
«Un unico visitatore, dunque, che ha suscitato l’interesse degli inquirenti: un ginecologo berlinese con competenze chirurgiche, che dopo le sue visite ha persino spedito una lettera a Belok», spiegò Sneijder. «Abbiamo svolto le dovute verifiche sul dottor Jahn: perquisizione domiciliare, interrogatorio, perizia grafologica... l’iter completo, insomma. Alcuni indizi sembravano confermare il suo coinvolgimento, e siamo arrivati a un’udienza che io, personalmente, ritenevo prematura.»
Sneijder distribuì un dossier di poche pagine, che gli studenti lessero da cima a fondo. Dopo che ebbero discusso tutti assieme sui fatti, giunsero alla conclusione unanime che le prove a carico del ginecologo fossero insufficienti per una condanna.
Gomez riassunse in una frase il pensiero di tutti. «Ha tutta l’aria di essere un imbroglio.»
«Si tolga di bocca il chewing gum, quando parla con me!» ordinò Sneijder.
Gomez rimase impassibile mentre avvolgeva la gomma da masticare in un pezzo di carta. «Sembra quasi che il vero colpevole abbia tenuto d’occhio Belok per scoprire se qualcuno andava a trovarlo. Dopodiché ha spedito a Belok una lettera a nome del visitatore, per servire il colpevole su un piatto d’argento alla polizia... Il dottor Jahn, ginecologo. Che è solo capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato.»
Sneijder era stupito. «Porti avanti il suo ragionamento!»
«Voglio dire, la visita in carcere e poco dopo l’omicidio. È tutto troppo banale! Come se avessero approfittato di quella visita in carcere per poi fingere che si trattasse del gesto di un emulatore fanatico, e indurci quindi a pensare proprio quello che abbiamo appena pensato. E così rimaniamo fregati. In verità non si tratta di emulazione, bensì della strage di una famiglia berlinese che qualcuno ha voluto cancellare dalla faccia della terra.»
«Eccellente, ora può rimettersi in bocca il chewing-gum.» Sneijder annuì. «Sono d’accordo con lei. Qualcuno ha creato una raffinata falsa pista per sviare le indagini e scaricare gli omicidi su un’altra persona.»
«Come è andato a finire il procedimento?» domandò Tina.
«A seguirlo è stata la giudice Eva-Maria Auersberg, che tra l’altro abita a Wiesbaden. Per fortuna, ha fatto esaminare di nuovo con cura le prove. Il ginecologo berlinese è stato assolto.» Sneijder guardò l’orologio. «Potete tenere i documenti, ma ricordatevi della dichiarazione di riservatezza che avete firmato. Altre domande?»
Senza esitare, Sabine alzò la mano. «Sul caso ha indagato Erik Dorfer?»
Sneijder spense il proiettore. «Questo è irrilevante.»
«Ho riconosciuto la sua firma sul registro dei visitatori», insistette Sabine. «Cosa ha scoperto? E perché gli hanno...» Al solo pensiero sentì salirle le lacrime agli occhi, ma si sforzò di ricacciarle indietro alla svelta. «... Sparato?»
Un bisbiglio per la sala. Alcuni si voltarono verso Sabine.
Sneijder non rispose. «Se non ci sono altre domande...»
«Io ne ho ancora una», lo interruppe Sabine.
Sneijder la fissò con lo sguardo pungente di un falco. «Prego.»
«Dunque è appurato che qualcuno ha massacrato la famiglia berlinese e che la polizia ha ritenuto colpevole un innocente, una vittima casuale. Ma forse era proprio il ginecologo il vero obiettivo e la famiglia assassinata è servita solo come strumento per raggiungere un fine.»
Il mormorio nella sala cessò. A quanto pareva tutti stavano riflettendo sulle parole di Sabine. Persino Sneijder aveva il capo chino e la fronte corrugata. Sabine riusciva letteralmente a intravedere dentro la testa calva le rotelline dentate che giravano l’una sull’altra soppesando i pro e i contro di quella teoria. Infine Sneijder sollevò lo sguardo.
«Le do ragione, esiste anche questa possibilità, però la ritengo molto improbabile. Domani continueremo... Alle otto in punto.»
Dopo quella sessione fiume di due ore a Sabine esplodeva il cervello. Mentre gli altri lasciavano la sala, rimase seduta al suo posto a osservare Sneijder che riceveva una chiamata sullo smartphone. Ma non lo stava osservando davvero. Con la mente era da Erik, in terapia intensiva al Sankt Josefs-Hospital con una pallottola in testa. Non appena avesse avuto un minuto libero, sarebbe tornata a trovarlo. Infine raccolse i suoi documenti e uscì dalla sala.
Tina era in piedi vicino a Schönfeld, Meixner, Gomez e ad alcuni colleghi usciti da altre aule. Si era creata una sorta di combriccola. Chiacchieravano fra loro. Quando Sabine si avvicinò, si zittirono tutti.
«Stasera mangiamo alla mensa, poi andiamo in un pub in centro», disse Tina. «Ti unisci a noi?»
«Io...»
Sneijder passò nel mezzo. «Oggi no.» Si mise in tasca il telefono e lanciò un’occhiata a Sabine. «Hess desidera vederla nel suo ufficio stasera alle sette.»
Tina strabuzzò gli occhi. «Il direttore Hess?»
Ma Sneijder la ignorò. Afferrò Sabine per un braccio e la trascinò per qualche metro con sé verso l’ascensore.
«Vuole mangiare con me?» domandò lei in tono graffiante.
«No, scoiattolo.» Sneijder non era in vena di scherzi. Aveva abbassato la voce, ma alcuni studenti sembravano aver sentito il soprannome di Sabine.
«Non si azzardi a menzionare mai più il nome di un agente coinvolto in un’indagine in corso», sussurrò quando raggiunsero l’ascensore. «Intesi?»
Sabine era frastornata. «Dio santo! Tutti potevano leggere il nome sullo schermo.»
«Ma non tutti conoscono Dorfer. Solo perché le ho dato un permesso di visita non significa che deve sbandierare tutto ai quattro venti.»
Sabine era sconcertata. In quel momento era incavolata quanto Sneijder. «È lei che ha commesso un errore!»
«Verdomme», imprecò lui in olandese, poi strattonò a sé Sabine, che sentì il profumo del tè alla vaniglia con cui Sneijder mascherava l’odore dei suoi spinelli. Doveva stare piuttosto male se aveva ripreso a fumare erba.
«Mi dispiace per quello che è successo a Erik Dorfer.» Sneijder la fissava con uno sguardo da falco. «Nell’ultimo periodo stava lavorando su diversi fascicoli e...»
«Quali?»
«È un’informazione riservata, ma... stava seguendo anche una pista sul caso Centipede, prima che qualcuno gli sparasse. E per giunta nel suo ufficio, nell’edificio principale. Ma che resti fra noi, capito?»
Sabine annuì.
«Okay», disse Sneijder. «Quindi se le viene in mente una teoria precisa e fondata, parliamone a quattr’occhi.»