VACANZE HAWAIANE
Ogni pochi minuti scende all’aeroporto di Honolulu un grandissimo jumbo con centinaia di turisti ansiosi di comprarsi subito la camicetta hawaiana e la collanina di conchigliette hawaiane, e che siano piccole piccole, bianche, tutte uguali, e unisex. Le smanie della villeggiatura di massa in questo aeroporto gigantesco paiono fra le più modeste, giacché ogni spostamento deve avvenire in pulmini, e prima di ogni pulmino e anche prima dei bagagli e dei cessi c’è questa consegna della tradizionale collana di fiori, per la fotografia, che va prenotata alla partenza, acquistando il biglietto, insieme al pasto opzionale a bordo. Dalla California sono quasi sei ore; e qualunque agenzia, dopo aver chiarito se prima classe o turistica, appura e prenota anche pasto e collana.
Dunque gran bei trambusti, perchè gli utenti di queste vacanze omologate sono molto rigidamente autoselezionati da un punto di vista sociologico – famiglie numerose del più rustico Middle West, coppiette esemplari in viaggio di nozze, coppiette equivoche che simulano parentele improbabili, pensionati freddolosi, campeggiatori con la chitarra – però svariano fisiognomicamente dall’allibito allo stranito e dall’imbranato all’attonito: quindi la chitarra cade e il cagnino scappa e la bicicletta crolla e le pinne si perdono e la spazzolina rimane per aria e i bambini fanno i cretini, come nei più vieti cartoons del primo Novecento, mentre una hostess carica di collane rosa e vio la urla i nomi dei ritardatari e degli smarriti, gli mette la collana, li avvia al pulmino, e li scarica al nastro dei bagagli, dove nelle more della consegna si faranno finalmente le prime foto reciproche, con sfondo di valigie e facchini, e di partenti che stanno facendosi anche loro le foto, ma con ben altri problemi, giacché quelle stesse collane devono anche servire per le foto di arrivo a Los Angeles o a San Francisco, quindi per non perdere totalmente la freschezza hanno bisogno di involucri di plastica molto ingombranti e molto umidi.
Subito dopo, finalmente i due acquisti: le collanine sono «chokers» a livello di pomo d’Adamo, e solo in parte soddisfano questa ingordigia americana attuale per la bigiotteria maschile che impone, in media in estate, uno o due bracciali, tre o quattro anelli, un’abbondante serie di catene e catenine di varia lunghezza e vari materiali al collo, e perfino l’orecchino o boccola che dal mondo gay deborda ormai anche fra le eterosessualità più intransigenti. Circa la camicetta, gran delusione invece per chi ricorda e ricerca quei palmizi e quegli ananas sulle camicie nell’epoca di Harry Truman e di Carmen Miranda.
Sono scomparsi. Ora questi sciagurati hanno visto Emilio Pucci e Andy Warhol, li hanno rimescolati con l’espressionismo astratto e perfino con l’impressionismo di Monet; e in sostituzione dell’estinto cotone, il tessuto è una cosa lucida e isterica di provenienza certamente giapponese o cinese.
Dopo, niente, basta. La villeggiatura del futuro di massa si svolge soltanto come passeggiatina fra migliaia di negozi tutti uguali di camicette, di collanine, e di ricordini – e la gente riparte assai smorta, per mancanza di sole e di mare – perchè in quest’isola principale, Oahu, la sola spiaggia graziosa e grandìna sarà stata, a suo tempo, paragonabile a Cannes. Ma è stata interamente, e da parecchio, costruita. Metà, con gli alberghi direttamente sulla spiaggia; e metà, con una Croisette a pochi metri dall’acqua, e gli alberghi subito dietro. Come risultato, la spiaggia ha una profondità minima, una decina di metri di sabbia; subito dietro i grattacieli; e l’acqua, davanti, è un vero cesso.
Alle spalle, una quadrettatura di strade e isolati come a Viareggio.
Una metà, però, di grattacieli, altissimi, per lo più di condominii; e l’altra metà, invece, ancora casette arcaiche di legno franante, bassissime, irte di condizionatori. Con un valore certamente enorme, il pregio del suolo, ma chiaramente inabitabili, per la mancanza di luce solare e il traffico orrendo.
Accanto a Waikiki, da una parte Honolulu, che è una città americana qualunque, ma con questo traffico spropositato, molto più intasato che a New York, e qualche goffo tentativo di architettura moderna che sovrappone a un edificio cubico generico lo schema grigliato dell’ananas nazionale, in cemento.
Dall’altra parte, una riviera di ville con giardini annaffiati.
Ma intorno, decine di chilometri di siccità e di deserto. E le spiagge? E le palme?
Le palme non si trovano. Ce ne sono di più sul Sunset Boulevard, e sulla Promenade des Anglais. E le spiagge sono piccole, scarse, numerate, in effetti non più di una decina nell’intera isola, il resto è un perimetro di strapiombi rocciosi. Tipo Dalmazia.
Mai più lunghe di un mezzo chilometro; non più profonde di una ventina di metri; talvolta con scogli corallini taglienti subito sotto; tenute come parchi nazionali, con un loro inizio, una fine, un gran rispetto, permessi, divieti, parcheggi per le macchine delimitati con righe bianche per terra, mancanza ecologica di cabine, ma insistenti cartelli di avviso contro la ladreria. Inoltre, come minimo, a due ore di macchina dagli alberghi di Waikiki.
Pochissimi quindi le raggiungono, anche perchè gli affitti delle macchine sono abbastanza esosi: e comunque, una volta lì, non c’è un solo sfondo per fotografie che possa connotare Hawaii, solo colline generiche, si arrendono perfino i giapponesi.
Con un piccolo aereo da turismo si possono invece vedere e capire le otto isole, e atterrare almeno in quattro: le vere bellezze sono straordinarie, ma inaccessibili, e di tipo nettamente svizzero e Biedermeier. Altipiani selvosi, verdissimi, pieni di foreste e orridi e innumerevoli cascate imponenti, fra il regno di Ossian e quello di King Kong. Però non solo irraggiungibili: anche inutili da raggiungere. Qualunque strada, mostruosa da costruire, offrirebbe come massimo risultato visivo la traversata di un bosco e un belvedère sul torrente. I vulcani famosi, invece, sono noiosi dentro e fuori come ogni loro fotografia. Ma soprattutto le coste lasciano sorpresi e delusi vuoi dall’aereo vuoi scendendo giù: vanno dentro e fuori senza carattere. Sublimi invece le piantagioni in un’isola posseduta interamente da una compagnia di ananas e proibita al piede straniero come in una vera tragedia d’antico stampo. E il più bell’esempio di Land Art mai vista, invece, perchè al contrario di quelle sciocchezze che sono già tediose concettualmente e poi moleste quando realizzate (come incappucciare scogli e tirar righe nelle pianure), qui le private leggi di una coltivazione agricola che oscilla tra la geometria e l’Op Art producono una elegantissima tappezzeria minimalista, molto bizzarra e molto attraente.
Sull’elenco dei servizi pubblici di Waikiki, oltre alla voce «Consigli per Crisi» e a quella «Consigli per Suicidio» (indipendente dalle altre Crisi), non par male che figuri un «Centro di Soccorso per l’identità Sessuale» con un numero per i civili, e uno diverso per i militari. Ma alle spalle di questi problemi, accanto a locali perduti dove si danza The Hustle con gli stessi fischi e gli stessi baffi che a New York e a Los Angeles, qualche pezzetto di passato cinematografico si ha pure il privilegio di trovarlo, anche se delusi dalle spiagge, dalle palme, dalle camicie. In un cavernoso seminterrato attiguo a una lavanderia cinese, ausiliarie che nulla distingue da Ann Sheridan e da Ida Lupino giocano a biliardo con spalle molto quadre e molto del Quaranta, sotto lampade molto fumose, ventilatori a pale, avventori con la visierina di celluloide. Con pettinature ancora più anacronistiche, dal crew cut alla doppia banana, ballano perdutamente insieme dei Van Johnson e dei Tim Holt; e neanche un blue jeans, solo quei vecchi «chinos» chiari, quasi bianchi, larghi sul culone e strettissimi sulla scarpa da tennis. Scappiamo, scappiamo, prima che la musica s’interrompa improvvisamente, e una voce colonnellesca dall’altoparlante ci metta tutti sull’attenti perchè stanno succedendo delle cose nell’attigua Pearl Harbor.